Nota: È una nemesi. L’ottimo Ceccamea insiste per avere nostri articoli, e noi glieli mandiamo su un gruppo di cui gliene frega poco. Oggi si completa quindi la trilogia Him. In realtà dovrei premettere che io questa lista avevo pensato di scriverla molto prima che fossero pubblicati i precedenti due pezzi su Sdangher, per gridare al mondo il mio amore da ninfetta per Ville Valo e co. Non ci credete? Ebbene sì, così come Fred Durst e Dez Fafara dicevano di suonare quella roba prima che uscisse il primo dei Korn, io già avevo pensato in tempi non sospetti di scrivere degli Him. E ora, come dice Hank nell’intro a Imorgen Skal Eg Daue, here we go with the song:
1) Nessuno dice di amare gli Him. Nessuno di quelli con cui parlate abitualmente di musica, s’intende. Gli Him non hanno fan dichiarati. Non di sesso maschile, almeno. E non sono rispettati da quelli che non li apprezzano. Gli organi di stampa che contano, Pitchfork e roba così, non li considerano neppure, implicitamente infilandoli nella categoria di coloro il cui successo duraturo è dovuto all’essere commerciali, non all’esser bravi: stanno nella categoria di gente tipo i Maroon 5, i Bon Jovi o i Negramaro, insomma. Una delle due volte che li ho visti dal vivo era a Bologna, Flippaut 2004. Ricordo ancora il report del concerto su Rumore: “piazzati criminalmente a sandwich tra Soulfly e Korn, gli Him sono da stimare per l’ostinazione con cui portano a termine il concerto davanti a un pubblico che li vuole morti già dopo la seconda canzone”. Ero sotto il palco, è andata proprio così. Ricordo in compenso due ragazzine in prima fila che cercavano disperatamente di coprire i fischi cantando a memoria tutte le canzoni.
Se deciderete di ascoltare gli Him, vi troverete a fianco soltanto il sottoscritto, Biani e Di Leo, i pochi gay non devoti al culto della Carrà, qualche esteta cane sciolto e un esercito di lolite goth in calore. Non male come compagnia, a pensarci: sempre meglio degli ascoltatori del math-prog-death metal o del cinematic-psychedelic-post core.
2) Gli Him sono come i Manowar. La stessa, o se possibile ancor maggiore, meravigliosa improntitudine nello scrivere testi col generatore automatico. Da una parte fire, steel, war, metal power, king, dall’altra love e death. L’immaginario è stabilito dal primo verso della prima canzone: da una parte amore spirituale e dolcezza, melodia pop e lacrime, dall’altra amore carnale e perdizione satanica, chitarre metal e omicidio-suicidio. Anche la scelta delle cover storiche è coerente: Don’t Fear The Reaper (vogliamo parlare di quel che ne hanno fatto? Una roba larger than life. Raro caso di cover che aggiunge qualcosa all’originale) e Wicked Game si inseriscono con naturalezza nel repertorio, gli Him le fanno proprie. Schema binario, due parole, variazioni sul tema tanto minime che neanche il riff di Jerusalem degli Sleep: Razorblade Romance, Love Metal, Venus Doom ecc., fino al più verboso Deep Shadows and Brilliant Highlights e al più colto, crowleyano, Love in Theory and Practice. La loro faccia tosta ha qualcosa di miracoloso: come altrimenti riuscire, al quinto disco, a concepire un ritornello come “Your love will be the death of me” (In Behind the Crimson Door, da Dark Light). Sarebbe come se Guccini continuasse a scrivere in ogni canzone “Trionfi la giustizia proletaria” o Berlusconi inveisse ancora in ogni comizio contro i comunisti (ehm…). Quando esce un disco nuovo, il divertimento è vedere come faranno a imbastire un’altra decina di testi sugli stessi due concetti.
3) Gli Him si sono creati un immaginario vincente. Ma parliamone anche, di questo immaginario. Non che far azzuffare insieme amore e morte sia una cosa nuova, che anzi è vecchia quanto il mondo, ma la miscela che ne hanno fatto loro è talmente smaccata nella sua semplicità che nessuno ci aveva mai pensato prima. Cioè, per intitolare una canzone Your Sweet 666, oltre che spiccato sprezzo del ridicolo, ci vuole anche una riflessione sottile sul sovvertimento degli stereotipi metal. Da gente così ti puoi aspettare di tutto. La prima volta che ho visto il video di Join Me In Death mi sono detto questi diventano il più grande gruppo del mondo. Non lo sono diventati vabbè, anche se hanno venduto e vendono tantissimo per esser venuti su nell’era del download. Poi pensate a come sono stati anticipatori di tanta paccottiglia di gran successo venuta poi: Twilight, vampiri sentimentali, roba così. La differenza è che loro l’hanno sempre fatto con humour, seppur non dichiarato, ché altrimenti sarebbe troppo facile. Infatti:
4) Gli Him hanno sense of humour. Subito un corollario: chi li odia non ne ha. Il cantante sex symbol fatalone, il chitarrista bel tenebroso col cappello e il batterista pelatone everybody loves a chubby dude sono un gioco con gli stereotipi rock più efficace di tante parodie dichiarate. Avevano messo in cantiere un side-project porngrind, poi non so se l’hanno fatto. Ho provato a cercarlo, ma se googlo porn grind al lavoro succede un casino. Infine, ormai con Joey DeMaio ho perso la speranza, ma con Ville Valo aspetto ancora il giorno in cui dichiarerà che tutte le parole che ha scritto, tutte le foto che si è fatto scattare, erano delle divertenti fregnacce. E chi le avrà apprezzate proprio in quanto palesi fregnacce lo amerà ancor di più.
5) Gli Him sono dei gran paraculi. A parer mio, i dischi più deboli degli Him sono Love Metal e Venus Doom (insieme a Deep Shadows…, che più che altro è troppo lungo). Love Metal oggi è considerato un classico, ma all’epoca non fu accolto benissimo. Non che manchino belle canzoni, tipo Funeral of Hearts e Soul On Fire, ma sono troppi i punti morti. Si dà il caso che quello e Venus Doom siano anche i dischi più heavy. Ecco quindi pronta la scusa per camuffare il calo dell’ispirazione: “le canzoni del nuovo disco sono scarse? eh, ma non avete capito! Si tratta di una scelta artistica, volevamo essere più cattivi e abbiamo sacrificato l’immediatezza per risultare più oscuri”. Cazzate. Eppure c’è chi ci crede, e magari per guadagnare qualche credito presso chi di musica ne capisce indica come pezzi preferiti degli Him qualche mattone tipo The Path o Sleepwalking Past Hope. Ma và, gli Him migliori sono quelli canzonettari. Dice Biani, che degli Him è massimo divulgatore nazionale, che la produzione di Screamworks è troppo leggera. Boh, a me mi garba. Se voglio sentire i riff catacombali e l’atmosfera della guerra greco-gotica (535-553 d.C) io mi ascolto i Cathedral o i My Dying Bride. La forza degli Him sta nell’essere un gruppo pop ricoperto da una sottile glassa gothic metal. La prima volta dal vivo li ho visti in Germania, al Rock am Ring 2001. Razorblade Romance era in classifica da un anno e Pretending, il loro singolo più pop, era appena uscito. Suonarono prima degli A-Ha e in quella collocazione ci stavano benissimo. Infatti, del gruppo popolare hanno la caratteristica fondamentale:
6) Gli Him sanno scrivere belle canzoni. E questo è il punto più serio dei dieci, quello che giustifica tutti gli altri. In un lungo articolo-polpettone pubblicato su Sdangher qualche tempo fa (e qui il Cecca dovrebbe mettere un bel link), avevo argomentato come la malattia del metal moderno fosse la scarsa abilità compositiva. In sostanza, ci sono più belle canzoni nel solo –che so- Wheels of Steel dei Saxon che in tutta la produzione dello sludge-swamp-doom-core della Bible Belt. Ebbene, questa triste diagnosi non vale per gli Him, che certo non saranno un gruppo metal denim & leather ma che, comunque muovendosi in quest’ambiente, hanno allietato il cupo decennio zero con una messe abbondante di motivetti da ricordare, refrain da canticchiare sotto la doccia, melodie che ti chiedi come mai non sono diventate classici da Radio Capital, tipo Gone With The Sin. Ci sono in particolare due dischi che sono mostruosi in quanto a continuità d’ispirazione: Razorblade Romance e Dark Light. Ascolti il primo e a un certo punto quasi invochi un filler per darti respiro, invece niente. Arrivi alla fine stremato che neanche Stendhal e c’è Resurrection che ti ridà un’altra botta. Incredibile. Dark Light poi che roba: dopo due album a diverso titolo imperfetti non ti aspettavi più una simile freschezza, con la maggior parte dei gruppi di oggi che al quinto disco ci arriva in condizioni pietose se ci arriva. Una rinascita che gli ha aperto infatti le porte dell’America con un singolo strepitoso come Rip Out The Wings Of A Butterfly. Gli Him ci tengono a farlo sentire, che fanno le belle canzoni: quando sanno di avere un ritornello che spacca ci arrivano entro mezzo minuto, ma poi evitano di ripeterlo all’infinito. Cosicché di ascoltare Your Sweet 666 non ti stanchi mai.
7) Ville Valo ha una bella voce. Su disco, almeno. Le due volte che l’ho visto dal vivo: in una gli strumenti erano mixati bassissimi per farlo sentire senza che dovesse salire di toni, nell’altra era troppo impegnato a litigare col pubblico e coi fonici per stare attento a non steccare. Dopo il concerto parlo con un amico più ferrato di me sul dark: -certo che Ville è un po’ scarso, eh?- faccio. E quello- scherzi? Su disco è considerato il miglior cantante della scena gothic. E in effetti, i suoi gorgheggi su Bury Me Deep Inside Your Heart e i suoi sospiri su Join Me In Death non te li scordi. Magari ti fanno ridere, ma ti restano impressi. E’ stato calcolato che la nota di “for your sooooooooouuuuuuuullllll” del ritornello di Rip Out… è tenuta per la durata necessaria a portare all’eccitazione ogni ragazzina quindicenne dagli occhi bistrati. Tutto falso, tutta roba ritoccata? Forse, ma a noi gli artifici da studio e l’ipocrisia piacciono (vedi punti 4 e 5).
8) Ville Valo è magrolino. Ed è figo. Vi sembra poco come argomento? Non lo è. Te, maschio postadolescente sui vent’anni, pensi a questo che le tipe ci si mettono il poster in camera e credi sia irraggiungibile, poi lo vedi da vicino e noti che è un rachitico rinsecchito che al confronto Pete Doherty è Van Damme. Allora te, maschio postadolescente che non ha tanta voglia di alzare il culo per fare palestra, pensi che si può diventare lo stesso un sex-symbol. È consolante.
9) Una volta ho visto Ville Valo al pub. Era nel 2002 o 2003, all’apice del successo quindi. Entro in un pub di Helsinki una sera e ad un tavolo trovo lui a bere una birra con amici. Nessuno se lo fila granché, lui si fa i cazzi suoi e sorride. Ah, questa nordica sprezzatura! Questo punto 9 non è così dirimente nello stabilire il valore degli Him, dite? Sì, però: 1) do l’idea di essere un uomo di mondo che gira per le capitali; 2) i punti devono essere dieci perché suona meglio che nove.
E ora, dulcis in fundo:
10) Gli Him amano i Turbonegro. E ne hanno fatto una maestosa cover di Rendezvous With Anus che, come noto ai più, è la miglior canzone della storia del rock. Chiunque ami i Turbonegro non può che appartenere alla schiera degli illuminati. Punto (come amano chiudere i commenti su facebook quelli che son dotati di incrollabili certezze).
(Alessandro Viti)