Reduce dall’insuccesso commerciale de La passione di Giovanna d’Arco (1928), Carl Th. Dreyer, grazie al mecenatismo del barone Nicolas Louis Alexandre de Gunzburg, meglio noto con lo pseudonimo di Julian West, riesce nel 1932 a far uscire il suo Vampyr – Der Traum des Allan Grey – Allan (o David a seconda della versione) Grey interpretato proprio dal barone di cui sopra. Anche Vampyr ebbe delle prime disastrose e a Vienna pare che si scatenò una vera e propria sommossa quando non si volle restituire al pubblico pagante il prezzo del biglietto. Esce dieci anni dopo il Nosferatu di Murnau e un anno dopo il Dracula di Browning ma non ne condivide la fonte ispiratrice: Stoker per i primi due, Le Fanu per Dreyer.
In realtà l’autore manipola dapprima lo stereotipo vampiresco cinematografico, rifacendosi a Le Fanu, onde poi manipolare anche lo scrittore irlandese abbozzato esclusivamente nella presenza di una vampira e nella angosciante morbosità che permea ogni cosa, in una claustrofobia corporale. Occorrerà aspettare gli anni 60 de Il sangue e la rosa di Roger Vadim per rivedere al cinema il prototipo vampiresco di Le Fanu. Con Dreyer viene proposta un’alternativa anche ai luoghi comuni vampireschi: sorgono dalle loro bare durante le notti di luna piena a causa di terribili misfatti commessi in vita; succhiano esclusivamente il sangue di bambini e giovani per prolungare la loro residenza nel regno delle tenebre inducendoli a un suicidio volontario; hanno accoliti o succubi e il paletto di frassino viene sostituito da una barra di metallo, non v’è aglio e nemmeno fotofobie.
Il film in sé risente ancora del recentissimo periodo muto: i dialoghi sono pochi, molti invece suoni fuori campo, siano essi evocazioni o brusii infantili, è presente un grosso apparato didascalico che tramite la proposizione dello pseudobiblium The history of vampires di tale Paul Bonnard anticipa e gioca con le vicende filmiche. Dreyer abbandona qua l’ossessione dell’espressione facciale presente nella Giovanna D’Arco e fornisce delle coordinate geografico-spaziali più misurabili sebbene pervasi da un’atmosfera di romantica vaghezza e impalpabile in distinzione; agilissimi i movimenti di macchina e meno ricercati i controcampi, o più corretti se volete. Maestose le musiche che stavolta predominano e quello che a me era parso il più lungo e lugubre di tutti i silenzi, mutuato dal capolavoro precedente, era il dolby andato in stand by.
Le possibili influenze dell’espressionismo tedesco sono presenti solo in qualche gioco di ombre mentre è più presente l’influsso impressionista nelle sovrapposizioni, nelle particolari angolazioni e soggettive (la scena del funerale, immensa!, è probabilmente ripresa dall’Epstein della Casa Usher e che ispirerà finanche il nostro Polselli) e un fortissimo simbolismo. Dimostra a più riprese di aver fatta sua anche la lezione del montaggio sovietico e penso al doppio finale incrociato con metafora conclusiva e una morte degna del Vasari più ispirato, della quale parleremo. Spiccano gli esterni illuminati da un fortunato effetto crepuscolo, riproposto anche nel Dies Irae (1943); quei prati leggermente fuori fuoco dove danzano ombre di bambini, loci amoeni ove le anime escono dai corpi per intraprendere esperienze oniriche e quel cielo che è uno studio di Turner (che getta tra l’altro le basi per l’impressionismo pittorico) in un’inedita versione ossianica.
La pellicola si presta a diverse chiavi di lettura e non sarà semplice trovare quella giusta, pertanto che ognuno veda pure quel che vuole!; io mi limiterò a segnalare alcuni dei possibili luoghi forti del film. Allan Gray arriverà alla locanda (vero e proprio atrio di quest’oltre mondo) tramite un traghettatore-Caronte, dotato di falce e che annuncia la sua partenza con dodici rintocchi di campana, e ne uscirà con la sua Euridice sempre via barca. Questi gli espedienti ideati per definire la natura di quest’oltre-mondo, altro-mondo o, per dirla con il fake Paul Bonnard, mondo delle ombre. A conferma di ciò avremo un continuum spazio-temporale esiguo.
Ad ogni modo le ombre sono più di un fil rouge ed assurgono al rango di protagoniste, assieme al sangue. Ombre e sangue: una coppia, tra le tante proposte a differenti livelli, allo stesso tempo ossimorica e metonimica dei più generali archetipi di bene e male. E così il film, e la vita tutta per Dreyer, risulterà essere una tensione perpetua fra elementi appartenenti all’uno o all’altro archetipo. Se più superficialmente può capitare di soffermarsi su singoli elementi come la più totale assenza di un’apologia del vampiro e dei suoi succubi o le visioni agghiaccianti della vampira, rese tali da una semplice quanto geniale insistenza sulla sua senilità, o ancora le perturbanti ombre che scorrazzano per i prati, si dovrà considerare il Vampyr come un capolavoro composito che tocca i massimi apici sia come film di genere, sia nella riflessione metacinematografica, come nella sperimentazione tecnica, nell’uso della grammatica e nell’indugiare filosofico.
È tappa del percorso artistico di Dreyer, è film d’autore. Se nella Giovanna il male e il bene si compenetravano timidamente anche tramite massicce dosi di androginìa, qua i contorni di genere sono ben marcati. Per il vampiro non ci sono lesbismi, titubanze sessuali, fascini perversi (se non un certo fascino da ribrezzo), cariche erotiche, nulla di tutto ciò. È donna ed è il male. Gray è un Orfeo privo di peccato e tutto il vampirismo viene meditato alla luce (meglio all’ombra) dell’Ade. Dunque mero pretesto spettacolarizzante per una riflessione ben più profonda e costante nella parabola artistica dell’autore che tornerà sui passi della Passione nel Dies Irae, condannando al peccato tutta l’umanità, alla quale non resta altra soluzione che il pentimento.
Le coppie sfidanti si sprecano sebbene siano spesso solo abbozzate e atte pertanto a prestarsi tanto come stimoli di riflessione che come, ehm, riflessi del più completo binomio: Gray e la vampira Marguerite, il succube e la suora, il veleno e la preghiera come anche gli sdoppiamenti di Gray e dell’aiutante del succube devono farci credere che, se nella Passione e nel Dies Irae, bene e male si compenetrano pur rimanendo separati tra loro, distinti; nel Vampyr assistiamo a una totale coesistenza dei due archetipi. Ci sarà chiaro analizzando i veri protagonisti di questo film: sangue e ombra. L’uno linfa vitale, l’altra necessaria proiezione di esistenza; l’uno effetto l’altra causa. Dove c’è sangue ci sarà ombra; questa è l’eterna maledizione dell’uomo, l’Uroboro.
E a proposito di ermetismo, tale a me pare la funzione dell’immaginario del cuore, del cuore infilzato. Un cuore a metà strada tra il Sacro Cuore e quello di ‘Tis Pity She’s a Whore: e di nuovo si ripresenta il perenne binomio archetipico. Dreyer chiude il film con la metaforica fine del moto semiperpetuo delle ruote che sono in pratica quel cuore reso immoto e silente dalla sbarra di ferro.
Niente è più silenzioso di un cuore che cessa di battere avrà modo di dirci Dreyer, per bocca di Don Absalon, nel successivo Dies Irae.
(Santo Premoli)