di Emanuele Biani e Francesco Ceccamea
PRIMA PARTE – CAPITOLO 1
Mai come in questo caso, da quando scrivo i miei pastrocchi sulle band metal storiche, mi sento mosso da un senso di giustizia, per quanto possa valere. Non sono il tipo che ama dire cose tipo: I Guns N’ Roses? Ma ascoltate i Kix e capirete chi è stato veramente grande! Le menate retoriche sulla mancanza di meritocrazia nella musica come in tutto il resto (del resto) la lascio ai topi da viniloteca, a nostalgici e bastiancontrari, perché io credo che nella musica rock la maggior parte dei veri grandi siano riusciti a raggiungere il pubblico e ad aver ottenuto la considerazione che meritavano.
Non so se sia dipeso dalla ricchezza incredibile di band esplose nella prima metà degli anni ’90, periodo che per molti è visto come l’olocausto del metal vero a favore del grunge rock e l’alternative, mentre nella realtà è una specie di Rinascimento creativo impareggiabile. È un fatto però che gli Amorphis non se li cagò quasi nessuno. Un momento, le riviste e la gente si accorsero di loro e sicuramente dischi come Tales From The Thousand Lakes o Elegy ancora oggi possono comparire nella classifica nei migliori 100 album death metal, o metal in generale. Però sia agli esordi che nel corso degli oltre vent’anni che girano, sono sempre rimasti un gruppo inspiegabilmente di seconda fascia, mentre invece si tratta di una grandissima band alla stregua di Paradise Lost, Tiamat, MDB, Anathema. Chi sono gli MDB? My Dying Bride, ok?
Siamo persone che non pianificano nulla. (Amorphis)
Gli Amorphis hanno sempre fatto una ricerca artistica che definirei mostruosa, a 360 gradi, tra musica folk, letteratura finnica, progressive, metal estremo e il tutto senza mai sbracare, con brani all’apparenza semplici e lineari (all’apparenza, ho detto). Il classico gruppo “more than meets the eye” o forse sarebbe meglio dire “more than hears the ear”. Forse è per via del fatto che sono la prima linea del metal finnico. Nella storia del metal e più in generale nella storia dell’umanità, come contrada sociale la terra dei mille laghi non ha mai influito molto sulle mode e altre puttanate del mondo. Magari è anche perché i finlandesi in generale sono persone che non se la tirano, se non li sminuisce l’universo circostante ci pensano da soli a farlo e preferiscono essere artigiani piuttosto che poeti, anche se mi si può obiettare che nell’artigianato spinto ci sia una certa poeticità. La musica degli Amorphis infatti è commovente, lirica, piena di enfasi e sentimento, ma non è poesia. È lo specchio di un’anima, certo, ma non è mossa dal desiderio molto poetico di pavoneggiarsi.
Perché pavoneggiarsi è molto poetico? Il poeta cerca nell’approvazione altrui il proprio senso di esistere. Non scrive per sentirsi meglio, al massimo può sentirsi meglio quando scopre che qualcuno si rispecchia in quello che ha scritto. Il poeta scrive per sentirsi peggio, e l’empatia altrui allevia il malessere. Ma questa non è una polemica con la poesia, non ci allarghiamo troppo, non divaghiamo. Altro motivo che potrebbe spiegare la mancanza di successo degli Amorphis è che, probabilmente, già vi ho rotto il cazzo. Nel senso che si finisce quasi sempre per affrontare argomenti come il folklore, la letteratura e notoriamente questi sono temi che afflosciano ogni pelo sullo scroto di un metallaro, il quale preferisce sentire storie su quanto la band di turno si sia spaccata negli anni giovanili o come abbia mancato alle premesse con giravolte furbe e incoerenti. Di fondo è anche per questo che il gruppo ha perso nella considerazione generale del pubblico metal: gli Amorphis hanno cambiato genere e l’hanno fatto troppo. Ad un certo punto, tutte le band degli anni 90 si sono guardate intorno e, con buona pace dei recensori furenti e sdegnati, si sono buttate all’inseguimento di un’idea personale di fare metal, fino al punto di ritrovarsi a suonare tutt’altra roba. Questo in pochi lo capirono ed apprezzarono e ancora oggi quando si parla di Amorphis, come di Paradise Lost, Moonspell e Anathema, il discorso è sempre lo stesso: “I primi erano belli, poi basta”.
Il nostro sound non ha mai cessato di progredire: L’aggettivo amorfo significa privo di forma o di una dimensione definitiva, in continuo divenire e perciò assolutamente imprevedibile. (Esa)
Io capisco il disappunto del metallaro. C’ero nel 1994 e non era facile accettare tutti quei cambiamenti. In pratica nel giro di due anni ci fu una trasmigrazione artistica di più della metà dei gruppi che, nei tre anni precedenti, avevano firmato i dischi più interessanti e originali del panorama estremo. Finirono tutti a fare rock e a firmare per le etichette grasse. Era difficile capire la cosa allora. Oggi però sono passati tanti anni e un disco come Tuonela non può essere ancora snobbato o addirittura denigrato perché la distorsione è più leggerina rispetto a Thousand Lakes. Del resto cosa c’era da aspettarsi se una band si chiamava “Amorphis”? Mica erano i Worriorz Ov Steelz. Il fatto era che il metallaro medio non conosceva neanche il significato della parola e immaginava una roba nebulosa come un corpo deforme o roba molto truce in linea con l’estetica death metal, che poi era l’humus da cui la band è spuntata, in una versione un tantinello progressiva dei Paradise Lost, Entombed e, tra gli altri, i mitologici Sarcofagus di Kimmo Kuusniemi, in assoluto il primo gruppo heavy metal finlandese. (foto sotto)
Qualcuno ancora oggi rimpiange la cruda bellezza di The Karelian Isthmus (1992), ma tutto sommato si tratta di un lavoro acerbo dove il gruppo paga dazio alle proprie influenze e piazza comunque un paio di classici che vengono ancora proposti dal vivo: Exile Of The Sons Of Uisliu e Sign From The North Side. Di fondo, nel genere death non rappresenta niente di memorabile. Nel ’92 poi era già uscita e continuava a uscire così tanta roba importante che un lavoro come quello meritava giusto una menzione distratta sulla rubrica specifica dell’underground estremo.
Due anni dopo, quando arrivò Tales From The Thousand Lakes, il death classico era già bello che morto e gli Amorphis, pur con le loro innegabili bizze stilistiche, furono riconosciuti come una delle realtà più interessanti del genere. Tanti deathsters chiusero un orecchio sulle tastiere e quella voce pulita che ogni tanto affiorava. Amarono disperatamente un disco forse oggi un po’ datato, con ancora qualche rimando di troppo ai Paradise Lost (Drowned Maid), ma ricco di grandi canzoni come The Castaway, Into Hiding e la straordinaria Black Winter Day. Un manifesto sonoro di death progressivo con quel piripiri leggero di tastiere anni 70 (nell’omonimo EP fu addirittura inserita una cover di Light My Fire dei Doors) che titilla il cuore di chi si lascia struggere dalla melodia e trafigge quello dei fanatici del metallo sodo, ormai quasi arresi e costretti a trasferirsi nell’asettica Norvegia, dove si ammazzavano e ci davano dentro con Satana, cerini e taniche di benzina.
Per me il primo vero grande capolavoro della band è Elegy (1996), che però a parte pezzi come My Kantele e The Orphan (non a caso molto simili alle loro cose recenti) è un disco opulento, creativo all’eccesso, come se fosse stato l’ultimo della loro carriera. Le idee che ci stanno sopra potevano bastargli per cinque album almeno. Ogni brano è un continuo evolversi in qualcosa di diverso e imprevisto: death, rock, prog, thrash, techno, folk, Raul Casadei. Basta prendere Cares: m’immagino la faccia dei recensori più intransigenti quando il pezzo smette di pestare duro per virare sul ballo liscio dell’Orchestra Spettacolo della Sagra dello Stinco d’Alce, aprirsi a una specie di disco music nordica impresentabile che ci catapulta in una commedia sgangherata di Aki Kaurismaki e poi chiudersi esattamente com’era iniziata, tra assolo wah wah molto seventies, growling vocals e tastiere sinfoniche. Ma che è stammerda?! Una canzone meravigliosa, nientemeno, che riassume meglio di tante descrizioni la fantasia compositiva e la libertà artistica di Elegy. A livello di line-up, questo album vede l’ingresso di un nuovo cantante, Pasi Koskinen, e di un tastierista che con il metal non ha mai avuto nulla a che fare, Kim Rantala, proveniente dalla scena soul jazz finnica.
Mentre oggi è quasi una norma commerciale quella dei due cantanti, allora solo gli Amorphis ci provarono. Il nuovo singer, rapatello, carino e con l’aria da agnello alle soglie della Pasqua cattolica, canta pulito e roco mentre ai growl continua a pensare il chitarrista ritmico Tomi Koivussari. La cosa di per sé è un po’ strana. La band inizialmente non avrebbe neanche voglia di proseguire con la voce vomitosa del death, ma sono i nuovi innesti ad insistere per continuare a usarla, così gli Amorphis avviano una staffetta clean/growl che si stempera nei successivi Tuonela e Am Universum, per poi tornare negli ultimi dischi.
CAPITOLO 2
Gli Amorphis sono poi passati attraverso la maturazione di “Elegy” uno dei lavori più importanti della seconda metà della decade per comprendere appieno l’evoluzione di quello che un tempo era il black metal, ponte tra il mini Black Winter Day e My Kantele. (Gianni Della Coppa, Metal Shock 1996)
Deprecabile la scelta di inserire le vocals death nella doomeggiante “Greed”, forzatura che non convince né i fans dell’ultima ora né i deathsters delusi. In definitiva, malgrado un uso troppo settantiano della chitarra e un sitar oltremodo invadente, è innegabile che gli Amorphis se la cavano alla grande, con un disco che continuerà ad aprirsi le platee e a chiamare nuovi adepti, come fecero anni fa i falsi Paradise Lost. (Metal Shock 1999. Recensione di Tuonela)
Tuonela (1999) fu il disco dell’addio al metallo pesante in senso stretto. Ci sono ancora degli elementi heavy ma siamo già proiettati verso il rock anni 70, il prog e dio solo sa quali altre diavolerie quei dannati finlandesi avessero nel cervello. Erano esplosivi e aperti a tutto, fino quasi all’implosione, all’autocombustione. Si salvarono grazie all’apporto di Simon Efemey che li tenne moltissimo a bada. Un produttore come lui, inglese, fondamentale per definire il sound dei Paradise Lost di Icon e Draconian Times, riuscì a cavar fuori un altro discone proprio da quei ragazzi che gli si affidarono senza remore. Poiché il vero finlandese, anche quando crea l’arte più pura, non ci crede finché non glielo dicono tutti.
Gli Amorphis stanno compiendo un inconsapevole e spontanea ricerca dell’intima essenza dell’animo umano, utilizzando la musica come ipnotico mezzo di trasporto. (Esa)
Tuonela non fu stroncato dai recensori perché era un disco bellissimo, anche se come potete notare nei due assaggi d’archivio che ho infilato sopra, di puttanate se ne scrissero eccome. Con tutto il rispetto. Summer’s End, la title track, l’immensa The Way, sono canzoni quasi impossibili da incasellare, così piene d’enfasi, astratte, surreali, eppure intrise di una malinconia troppo intensa per potersi esprimere a parole. E quando la placidità sembra aver preso ormai il sopravvento, per mettere tutti d’accordo viene eretto il monumentale totem gothic metal Divinity, a tutt’oggi uno dei brani più meravigliosamente disarmanti degli Amorphis.
Am Universum (2001) fa il paio con il precedente ed è l’anello di congiunzione con Far From The Sun, che pure i veri fan considerano l’episodio più controverso e deludente della discografia della band. Di sicuro nel successore di Tuonela il livello delle canzoni è molto alto. Secondo me però già si avvertono alcuni limiti che poi saranno conclamati dal successivo flop. Parlo in particolare della scarsa versatilità vocale di Koskinen e del tentativo talora forzato d’inserire sonorità seventies nello stile della band. Stiamo sempre parlando di un buon album, ma leggermente inferiore al suo predecessore, sulle cui coordinate peraltro la band si appiattì, interrompendo di fatto quel percorso sperimentale che ne aveva fin qui caratterizzato la carriera. Il colpo da maestri comunque non si lascia desiderare nemmeno in quest’occasione, con una Veil Of Sin lussureggiante tra tessiture progressive e commoventi innesti di sassofono.
Paradossalmente in Far From The Sun (2003) c’è più ricerca, per quanto minore ispirazione. Forse le cause della flessione furono dovute più a fattori esterni fuorvianti, tipo che uscì per una major (ebbene sì) e gli Amorphis dovettero alleggerire il sound quasi fisiologicamente. Secondo me FFTS è più un disco di rottura e distacco, del quale comunque il gruppo si è pentito. Non lo sento come un’evoluzione naturale di Am Universum. E’ il loro disco prog seventies, se vogliamo, con molti brani atipici ma bellissimi (Smithereens) ed altri obiettivamente piuttosto spompati (Planetary Misfortune). L’alleggerimento nei suoni e la regolarità delle strutture compositive non significano che la band si sia svenduta, ma è arrivata a quella svolta con le prospettive evolutive ormai ridotte al lumicino dalla voce monocorde di Koskinen, cantante che personalmente ho amato molto, ma che, senza l’alternarsi del growling di Tomi Koivusaari, aveva finito per rivelarsi monotono da ascoltare, in certi pezzi persino lagnoso.
FINE PRIMA PARTE