Regista tra i più eclettici in circolazione, Takashi Miike, all’uscita del suo Ichi the Killer aveva già dato bella mostra di sé con tutta una serie di ottimi lavori; su tutti sicuramente Audition (1999). Nel 2001 dà alla luce i suoi due indiscussi capolavori; parliamo di Visitor Q e Ichi The Killer. E proprio di Ichi parleremo oggi.
La vicenda è questa. Un sadico boss della yakuza viene smembrato da Ichi (Nao Omori alla sua prima attoriale su pellicola). Il corpo non si trova e non si trovano nemmeno i soldi dell’organizzazione. Così i suoi scagnozzi, capitanati da Kakihara (un inarrivabile Tadanobu Asano), iniziano le ricerche. Di contro Ichi è una vittima. Dopo aver ucciso i suoi genitori, Jiji (Shinju Tsukamoto, professione regista) ha confuso i ricordi di Ichi, tramite ipnosi, inducendolo a fare ciò che fa.
Uno spettatore laico avrà l’impressione di stare guardando uno yakuza movie un po’ stravagante, con una grammatica (montaggio, grandangoli) e scelte estetiche (splatter, caratterizzazioni dei protagonisti) squisitamente sottoculturali – non si dovrà dimenticare che il soggetto è tratto dal manga Koroshiya Ichi di Hideo Yamamoto così come esplicita sarà la citazione ai picchiaduro da consolle. Perciò il film, a questo livello, risulterebbe essere un pregevole cocktail di cultura da fumetti, videogame e vagonate di sangue shakerate dal frullatore Miike.
Ichi ha una doppia vita come il più tipico dei supereroi ed ha persino la sua divisa personalizzata. Fumettistico dunque, come anche la sua nemesi, Kakihara, tinto di biondo, vestito sgargiantemente e caratterizzato da iperboliche cicatrici. Sarà proprio questa chiave di lettura che giustificherà a esempio la repentina quanto ingiustificabile esplosione testosteronica di Jiji e ci permetterà di godere esteticamente delle insopportabili e continue torture e mutilazioni spiattellate straight in our face.
Se ci fermassimo qui, non renderemmo comunque onore alla pellicola. Ed ecco allora che il critico puntiglioso sprofonda nell’analisi dei due antagonisti. Se Ichi si masturba assistendo a scene di stupro e va solo con donne sfigurate da legnate, Kakihara è un’artista del sadomasochismo. È slave esclusivamente del suo boss, e lo ama per questo ma al contempo è maestro della tortura. Tutta la storia sembrerebbe convergere nell’epico incontro sui tetti di Shinjuku dei due eroi, o meglio antieroi. E ci si potrebbe sbizzarrire sul fatto che un altro punto a favore di Miike consiste proprio in ciò, la mancanza di bene assoluto, la disillusione, blablabla.
Tutto verissimo e sarà difatti quasi impossibile il coinvolgimento emotivo con Ichi; preferiremmo anzi identificarci in Kakihara, quantomeno per la sua consapevolezza. Questo punto di vista getterebbe luce e approfondirebbe altresì le complesse digressioni nel campo della perversione sessuale, badando bene a considerarlo tema caldo nella produzione del regista e citeremmo almeno Visitor Q.
Partirebbe tutto un complesso discorso sull’interpretazione sociale di Miike e sul suo particolare quanto geniale modo di rifletterci sopra. Sacrosanta riflessione. Ma andiamo ancora più a fondo. A tessere tutto l’intreccio è Jiji che manco a farlo apposta è impersonato da Tsukamoto, già immortale per aver diretto monumenti del cinema orientale di cui ricordiamo per brevità almeno Tetsuo – L’uomo d’acciaio (1989). Ora il fatto che nel di molto successivo Sukiyaki Western Django (2007) vi sia un cameo di dio Quentin non dovrà farci credere che la presenza di Tsukamoto sia dovuta al fatto che Miike sia solito onorarsi di camei dei suoi registi preferiti.
O meglio, non solo. Il fatto che Jiji abbia il volto di un regista (e che popò di regista) ha un senso… deve averlo. Jiji tesse le fila dell’intero film, non ha motivazioni esplicite, gioca tanto con Ichi quanto con Kakihara, è arbitrario, infine è meta. È il demiurgo del film, il master di un gioco di ruolo – pensate a quando inspiegabilmente diventa muscoloso e uccide, lui sì che non può morire poiché creatore di quel mondo. La pellicola dunque esiste per via di Jiji che assurge così a maschera di Miike.
Jiji è Miike dentro il film e solo così ha davvero un grande valore, simbolico stavolta, il cameo di Tsukamoto. La sua assenza di motivazione andrà contro tutte le analisi di moralità che aveva fatto il recensore arguto. La pellicola, considerata adesso sotto questa nuova luce, diventa estetica pura. Non ci sarà più bisogno dei rimandi culturali per giustificare le scelte estetiche poiché si giustificano, adesso, da sé. A conferma di ciò lo sguardo di Jiji/Miike tramite telecamere, cellulari e microfoni spia tutto il dipanarsi della vicenda, ha tutto sotto controllo… eccetto che nella controversa sfida finale.
Molti cercano di spiegare lo scomparso taglio alla testa di Kakihara come frutto della sua immaginazione, come un’estrema tensione verso il piacere masochista. Probabilissimo. È però un fatto che Jiji non assiste al combattimento. Lui dà le ultime indicazione a Ichi, crea dunque l’ultimo scenario e si aspetta il taglio sulla fronte, per come lo aveva immaginato, creato e mostrato a noi. Perché altrimenti controllare subito la fronte a un uomo che cade da un palazzo? Perché sorprendersi e fuggire attonito? Perché le sue creature hanno preso vita, hanno agito in modo autonomo e lui non se lo sarebbe mai aspettato. La sua creazione, già di grandissimo livello, non ha più bisogno di un Dio.
Jiji/Miike è ormai inutile, la sua arte vive senza di lui, diventa creatrice a sua volta ed esperisce autonomamente (la metamorfosi finale del bambino da bullizzato a sguardo garante di giustizia è solo opera inconsapevole di Ichi) e lui, con una modestia insuperata, riscatta il nonsense della scintilla motivazionale dell’intero intreccio con la sua prima vera scelta motivata: il suicidio del suo sembiante. Ichi the killer è dunque al livello più basso – o alto – un inno nietzschiano all’arte, una coltissima riflessione sulla creazione artistica e sull’autonomia dell’arte. Ecco perché si dovrebbe considerare un capolavoro, non soppesando i litri di sangue.
(Santo Premoli)