Ed Gein – Bad Luck (2011)

In poco più di venti minuti di spropositata violenza sonora, gli Ed Gein (nome preso a prestito da un simpatico protagonista di un’innocua favoletta di Fedro) prendono le mosse dalla loro precedente discografia. E un lungo iato, infatti, si frappone tra Judas Goats & Dieseleaters del 2005 e la loro ultima uscita, questo Bad Luck del 2011. Durante questo silenzioso frangente la band di Syracuse ha modo di rimeditare il proprio approccio musicale. Se possiamo grosso modo descrivere i primi due album come lavori di sperimentazione volti a presentare un certo mathcore schizofrenico tipico di Psyopus o Me and Him Call it Us reso però leggermente più decifrabile da una compostezza alla Converge (perché, sì!, c’è chi è più strutturalmente disordinato) e infarcito, è più evidente in Judas Goat…, da spolverate di sludge, come avviene nei Gaza o nei Cursed; in Bad Luck si scrollano molta zavorra di dosso. I brani diventano essenziali, meno dispersivi e concentrano tutta la loro intensità in tempistiche ridotte all’osso. Ciò è dovuto a una diversa ricerca musicale proiettata verso una semplicità morfologica prettamente hardcore punk (perdonatemi ma molti di quelli che qui sembrerebbero ossimori sono da intendere in maniera esclusivamente relativa e proporzionale) appesantita però da tutte le novità di (sotto)genere partorite nell’ultimo lustro: dal thash revival di Municipal Waste e Toxic Holocaust al power violence dei Trash Talk.

Dal risultato finale emerge, per ritmiche e distorsioni, persino una furia di stampo grind, che è però un grind di ritorno. Le liriche, pare (perché sulla rete non sono state uploadate), sono politicamente impegnate come nella tradizione classica del genere e il cantato è diviso tra tutti e tre i membri, tutti dotati di propria timbrica e facilmente individuabili; punto per gli Ed Gein, questo.

Bad Luck è l’ottimo esempio di un supergenere che, superate le schizofrenie e gli sperimentalismi math, sta cercando di normalizzare una propria struttura. Poi, una volta canonizzata, sarà il momento dell’imitazione e di un lento declino, come è facilmente prevedibile. Ma al momento si è ancora nella fase di ricerca ed è in questo momento che nascono i capolavori. Non che Bad Luck sia privo di difetti; a volte anzi, specie nella parte centrale dell’album e quando diventano più meditativi (penso almeno alla parte centrale di Into the Fire) il tiro si infiacchisce un po’, né riescono a mantenersi sullo stesso standard qualitativo dei pezzi d’apertura (Wage Slave e The Wraith su tutti) ma, tutto sommato, sembra un lavoro splendidamente riuscito.

Che poi si vuole continuare ad ascoltare solo true metal, suonato da stanchi e ripetitivi, nella proposta, vecchietti, lo si faccia pure ma è un peccato disconoscere come la nuova generazione metal, sebbene in molti abbiano ritrosie nel categorizzare metal le mille proposte nate a cavallo del nuovo millennio, stia cercando di forzare il canone, scardinarlo e regolarlo secondo nuove grammatiche, aggiornate da una profonda conoscenza delle lezioni tradite dalle naturali, quanto inevitabili, evoluzioni di un genere che, fatevene una ragione, non potrà continuare a prosperare nel conservatorismo. (Santo Premoli)