Ascoltare il nuovo disco dei Witintentescion è stato come assistere a una partita di calcio in cui una squadra che detesto gioca alla grande e vince. Non li ho mai trovati simpatici e tanto meno validi. Ho sempre avuto la sensazione che fossero finti, disneyani, da x factor. Per di più, una persona che non riesco a soffrire li adora e questo, anche se la maggior parte dei recensori non lo ammetterebbe è da sempre elemento determinante nelle stroncature, come pure il fatto di arrivare all’ascolto del disco dopo che già in molti l’hanno lodato. Se tutti dicono bene di qualcosa, la mia indole da bastiancontrario mi stimola a dirne male, ancora prima di sentire, leggere, vedere. Sono fatto così e non sempre è facile vincere queste mie tendenze stronzesche.
Insomma mi sono seduto a una delle mie numerose scrivanie e ho spinto play con in mano un fucile carico di obbiezioni, appunti, malvagità. Purtroppo o per fortuna ho finito per riporre l’arma nel mio ano e godermi un lavoro straordinario. Inutile girarci attorno, Hydra è un disco notevole. Certo, ha qualità che per il metallonzolo medio sono difetti: accessibilità, produzione bombastica, un rapper nero al suo interno che bercia una serie di niggate, una donna al volante… ehm, volevo dire al microfono, (e in uno dei brani migliori persino due). A parte la prima Let Us Burn, i momenti davvero notevoli sono infatti quelli con gli ospiti.
La band olandese avrebbe potuto anche inserire un duetto in tutte le canzoni ma forse era troppo per il loro ego. Non so decidermi se Hydra sia un madornale esempio di generosità e modestia o il tentativo abortito di sacrificare gli egocentrismi allo scopo di essere davvero eccellenti, una volta tanto. Insomma, le canzoni migliori lo sono per via delle ospitate o le ospitate rendono ancora più efficaci i brani migliori? La signora Sharon Den Adel permette addirittura a Tarja di prendere posto al suo fianco e spettinarla… non so cosa pensare e in fondo poco importa. I duetti non sono mai forzati, a parte il caso del rapper Xzibit, che funzionicchia pure ma non è una cosa irresistibile, via. Non siamo ai livelli di Walk This Way o Antrhax/Public Enemy.
Il produttore è Daniel Gibson, ha già collaborato con la band e la sua esperienza va molto oltre l’ambito metallico. Questo è da sempre un fottutissimo bene per il genere, dal mio modesto punto di vista. Ciò che mi è piaciuto di Hydra, è che comunque si tratta di un disco vero. Non è la solita dozzina di brani tutti uguali e che alla fine dell’ascolto resta giusto qualche setoloso pelo di barba sotto i denti e un forte odore di scorregge alla birra, qui si tratta di canzoni ottime, con ritornelli veri che ti si infilano nella testa e non ti mollano per tutto il giorno, arrangiamenti sinfonici funzionali e mai sbrodoloni, composizioni essenziali e che non indulgono in ripetizioni superflue o lungaggini autoriali.
Forse la scelta di sparar subito le cartucce migliori può aver sbilanciato un po’ l’effetto complessivo, facendo risaltare fin troppo la prima parte rispetto alla seconda più “normale”. Da Let Us Burn a Paradise, passando per Dangerous (con il grande disoccupato di lusso Howard Jones) siamo davvero troppo in alto e per quanto Edge Of The World e Dog Days siano due ballad eccellenti, non c’è più alcun picco anche se si tratta di roba ottima, sia chiaro, da cima a fondo. Tornando all’esempio della squadra odiosa che gioca benissimo è come criticarla perché dopo aver rifilato quattro gol incredibili nell’arco dei primi venti minuti si limiti ad amministrare la partita (come dicono i cronisti) senza più infierire sull’avversario.
(Francesco Ceccameeeem)