Questa è una confessione e vi assicuro che non sto inventando nulla. Una volta, molto tempo fa, tentai di disintossicarmi dal metal. Non ridete, è una cosa seria, sapete. Voi tutti pensate di ascoltare il vostro genere di musica preferito e siete certi di essere voi a scegliere di farlo. Eppure non immaginate quanto siate schiavi dei vostri piaceri e se solo tentaste di astenervi per un po’ da certe sonorità probabilmente non durereste a lungo. Avevo quattordici anni ed ero un tipo abbastanza sfigato. Poi un giorno capii che nella vita volevo diventare uno scrittore e che per riuscirci avrei dovuto rinunciare al metal. Vi domanderete perché? Lo faccio anche io ogni volta che ci ripenso ma le sole risposte che trovo non sono razionalmente accettabili, quindi ve le risparmio. Basti sapere che per il mio cervello bacato di quattordicenne verginello, dalla scarsa igiene personale e con un vestiario piuttosto fuori moda, il metal era una cosa troppo stupida e volgare per quello che desideravo essere. Henry Miller non sentiva metal, Hemingway nemmeno. Joyce odiava la musica o qualcosa del genere. Un autore raffinato, colto come quello che io desideravo essere non avrebbe potuto spappolarsi il cervello dietro a un genere così scemo.
Ero sicuro che per trasformarmi in un autore come quelli che ammiravo avrei dovuto aumentare la mia cultura. Ascoltare musica classica, leggere i pezzi grossi della letteratura ed eliminare il dialetto e qualsiasi accento nel parlare. Non cedere alle flessioni dialettali significava un costante addestramento a mettere verbi nella giusta coniugazione, usare sinonimi, costruire frasi correttamente tutto il giorno. Potete immaginare queste mie scelte stilistiche quanto influirono in negativo nella mia già scarsa vita sociale. La maggior parte dei miei compagni di scuola mi guardavano come una specie di Cyborg che puzza di merda.
Eliminai il metal e lo rimpiazzai con Debussy, Bach e non ci metto gli altri parrucconi perché non mi ricordo come si scrivono e non ho voglia di andarli a cercare su google. Tutta quella gran rottura di palle del Barocco fino al romanticismo e il decadentismo. Prendevo il the, leggevo Joyce e mi immergevo in tutta una serie di visioni accademiche, muffose sorretto dalle sonate al piano di Chopin. Due palle come un bue che non eiacula da mesi. Eppure nel mio lento e rigoroso apprendistato verso un modello autoriale a tutto tondo che probabilmente non esisteva neanche, il mio cervello malato vedeva la rinuncia al metal e conseguentemente alle pippe come un doloroso ma necessario passo verso il mio perfezionamento.
Per diversi mesi smisi di masturbarmi e mi capitò di venire nel sonno un paio di volte. Fu un’esperienza spaventosa. Una volta emersi da un sogno in cui qualcuno mi aveva legato di schiena a un grosso pallone e una mia compagna di classe, che nella vita vera era piuttosto casta e tranquilla e per la quale non avevo mai nutrito un’attrazione speciale, mi spingeva il sedere sui testicoli e alle mie implorazioni rispondeva con delle risate terribili, da matta. Emersi da quel pasticcio orgiastico-onirico che tremavo e con la nausea, un senso di eccitazione insopportabile e non da ultimo nella scala delle percezioni: le mutande sporchissime. Non sapevo che fosse normale. Esiste una cosa chiamata polluzione notturna e sebbene gli Ac/Dc ne avessero parlato in qualche canzone, io non sapevo cosa intendessero, forse perché ci avevano paragonato il rock and roll. In effetti in quel brutto periodo il rock per me era proprio così: un misto di sudore, piacere, sporcizia e vergogna.
Pensai fosse una specie di problema che venissi nel sonno e invalidai mesi di astinenza. Come uno che smette di fumare e sogna di aver fumato e si sveglia ringraziando il cielo che era soltanto un sogno. Solo che io puzzavo di fumo e avevo una cicca nelle mutande… non so se mi spiego ma fa poca differenza.
Come per le seghe eliminai il metal. Ma fu più dura del previsto. Regalai le mie cassette e dei cd a un mio amico. Gli dissi di non parlarmi più di quei gruppi, di quella musica. Per me era una cosa inutile. Lui acconsentì senza farmi tante domande. Allora lo reputavo sensibile e comprensivo ma era solo un amorfo figlio di puttana che se gli avessi comunicato la mia scelta di farla finita sparandomi col fucile di mio padre lui avrebbe annuito e augurandomi buona fortuna e buona mira. Fanculo! Anni dopo non immaginate la fatica che feci per convincerlo a ridarmi almeno una parte di quei nastri.
Il mio digiuno dal metal durò qualche mese. Poi un giorno ricordo che entrai nel negozio più fornito di Viterbo e comprai Far Beyond Driven e Youthanasia. Non mi entusiasmarono, soprattutto il secondo e più che altro vissi la cosa come una ricaduta nel vizio. Pensai di buttare le due cassette ma alla fine le nascosi in fondo a un cassetto, come riviste porno.
Qualche mese più tardi mi concessi un cofanetto di rock and roll anni 50. Ero patetico, lo so ma in quel periodo lessi Le notti di Salem di Stephen King e c’era un personaggio che amava molto il vecchio rock. Era un uomo colto, simpatico e solitario come io avrei voluto essere e definiva la sua continua tendenza a metter su dischi di Fats Domino o Buddy Holly come il suo dannato vizio. E così anche io pensai di potermi concedere un vizio. Mi feci andar bene Jerry Lee Lewis, Chuck Berry ed Elvis o i Beach Boys. Era un blando peccatuccio rock ma continuavo a infilare nelle mie orecchie qualche compositore classico e al limite le colonne sonore sinfoniche dei film di Coppola, Fellini e Scorsese. Poi un giorno, non so come riuscii a convincere me stesso che i Kiss degli anni 80 fossero una giusta eccezione. Feci un patto con me stesso: avrei potuto sentire solo i Kiss. Ricordo quei tre dischi che ascoltai come se li avessi portati su un’isola deserta: Creatures Of The Night, Dinasty, Animalize, Crazy Night, Hot In The Shade e Revenge. Mi sentivo in colpa ad ascoltarli, anche perché finii per sentire solo quelli. Al diavolo la Classica. Dai Kiss passai agli Ac/Dc. In fondo eravamo in un ambito più hard rock che metal. Fin quando mi fossi mantenuto su quel livello avrei avuto la meglio sui sensi di colpa. Dagli Ac/Dc tornai a certi album dei Deep Purple con Coverdale e infine ai Whitesnake.
Da loro mi ritrovai a sentire Dokken e Crue, nel tentativo ridicolo di recuperare un’atmosfera goliardica e superficiale dei miei primi anni di vita, quando facevo le elementari e nei film per adolescenti che già vedevo spuntava sempre fuori una band cotonata con un pezzo intitolato Fire qualche cosa. Era il periodo in cui la più grande rockstar si era fatta esplodere il cranio con un fucile e il rock sembrava davvero sperduto in un oceano di alternativa depressione postcoitale. Meglio riempirmi le orecchie con W.A.S.P. e Poison.
Nel 1997 ricominciai a farmi di metal. Judas Priest, Helloween, Iron Maiden, Fates Warning, Machine Head, Slayer e in due o tre anni recuperai praticamente la maggior parte dei gruppi che in quel tempo avevo evitato e non senza accusare ancora a sprazzi uno strambo e fastidioso senso di colpa.
Con gli anni l’ho superata questa ambivalenza e adesso praticamente sento solo metal. Quest’ultimo anno non ho ascoltato un solo disco rock o pop. E non lo dico perché penso che il rock sia uno schifo… è che io senza metal non ci resisto a lungo. Qualche anno fa scaricai da internet una caterva di album rock anni 60 e 70. Mi immersi in quel passato lontano: i Germs, i Monk, I 13th Doors Elevator, gli Allman Band, i Lynyrd Skynyrd, Who, Stones, Electric Prunes, Kinks, Nick Drake e così via. Mi feci una bella passeggiata lunga settimane e settimane senza rendermi conto che a forza di passare da un disco rock all’altro non sentivo più roba heavy da parecchio. Un giorno, durante un trasloco in cui ero così stressato che sfoggiavo un herpes da giardino zoologico, misi nello stereo un vecchio album dei My Dying Bride e fu come un caffè dopo mesi senza caffè.
Ogni volta che sento metal qualcosa nel mio cervello torna al posto giusto… o magari al posto sbagliato ma è dove vuol stare e non posso farci niente. Sento che un peso mi lascia. Non capisco cosa mi dia e ormai non mi interrogo più. So solo che è una dipendenza che devo contenere. Ascolterei musica metal ogni giorno, a tutte le ore. Scrivere è rimasta la mia priorità e da qualche tempo le due cose non sono più entrate in conflitto, anzi. Sembra che io non debba far altro che raccontare i dischi che sento, le cose che mi suscitano. Adoro farlo. Però devo starci attento perché a volte mi capita di ritrovarmi con il cervello in ebollizione e sebbene le mie orecchie implorino un po’ di riposo e il sistema nervoso non ne possa più, mi ostino a sorbire metal. Ci sono giorni che non mi piace niente, odio ogni canzone, ogni nota ma ne mando giù ancora. A quel punto devo fermarmi un po’ e poi ricominciare con gradualità.
Forse vi aspettavate qualcosa di più divertente e io stesso non so come prendere questo fiume di roba pallosa e scriteriata, ma sono schiavo del metal. Sul serio. Amo questa musica, però sarei in guai seri se desiderassi fuggirne. Come il protagonista di Christine, la macchina infernale. Avete presente? Un amore insano che può solo finire con la morte.
(Francesco Ceccamea)