Shelter è un disco degli Alcest del 2014.
L’album decolla subito su un paio d’ali (Wings) tradotte musicalmente con un coro di bambini castrati o qualcosa di simile. La retorica dell’epifania poppeggiante, quando si aprono gli spazi dei do maggiori e una chitarra effettata cavalca verso lidi rassicuranti, è in fondo il più grosso difetto del disco. Non rischia, non sorprende, non sperimenta. Si tratta di un magnifico esercizio d’autore, dove gli arrangiamenti, gli arpeggi, le escursioni elettriche, con quel plettrato onanistico black che riemerge di tanto in tanto mentre la flebile voce shoegaze sospira di quanto è bello il mare, la notte, il sogno di un rifugio dove il male non possa raggiungerci, tutto questo sukia!
La sola cosa davvero interessante, sulla carta, era che la band francese si fosse affidata alle cure di Birgir Jón Birgisson, produttore dei Sigur Rós, registrando negli studi dove anche la band islandese ha inciso i propri dischi, ma per quanto sia ricco di momenti sublimi, come la rachitica La nuit marce avec moi e la terminale in tutti i sensi Deliverance, in fondo è un album che non spacca mai davvero, tergiversando con una terminologia pop rock di sicuro effetto.
In Shelter non c’è una scelta, negli arrangiamenti, sul piano della scrittura, che sia audace, anche solo brutta. Gli Alcest potrebbero e dovrebbero farlo perché sono tra quei gruppi a cui si può concedere tutto, la progenie post black, concettualmente legata a principi di rottura, estremismo, l’underground come ideologia a cui aspirare e non un ghetto da cui fuggire.
Bisogna riconoscere comunque che Deliverance è un momento irrinunciabilie, che lascia in bocca un sapore gustoso e l’illusione che in fondo l’album non sia stato così male, anzi. Inizia con un arpeggio alla Division Bell dei Pink Floyd, arranca con il passo tribale della morte nella giungla mentre sopra la vocina di Neige si concede qualche arabesco sciamanico.
Il brano è come diviso in blocchi, con un inizio abbastanza convenzionale, una parentesi che pare la colonna sonora di una commedia romantica di Takeshi Kitano e l’esplosione boleriana: una melodia che gira a spirale fino a spingerci fuori dalla finestra convinti che non esista cosa migliore di morire provando a volare.
Poi i cori angelici costringono il cuore irritato da tanta spocchia a cedere in un tripudio partenopeo di grande commozione. Nei sei minuti finali muore qualcuno di molto caro nella nostra vita, lo vediamo scivolar via dalle nostre dita, come sabbia freddissima che sprofonda in un malestrom nel deserto della disperazione.
E infine, il sole accecante ci chiude gli occhi e le lacrime sulle nostre guance sfrigolano come olio della frittura.