Sarà che da qualche settimana passo il tempo a sentire Bob Dylan che canta Sinatra o i Verdena e scrivo sproloqui su di loro anziché l’ennesima band metal, ma io questo disco dei Venom me lo sono gustato. Non voglio dire che sia un capolavoro, anzi. Probabilmente, se avessi continuato a fare la classica vita contronatura del recensore metallaro (sette album metal a settimana a palla nelle orecchie) ora scriverei una delle mie solite sbrode furenti sulla staticità e l’autocompiacimento scemo del metal classico e di quanto ormai il genere sia morto e stramorto e pieno di zombi e bla bla bla. Invece no.
From The Very Depths non è assolutamente in grado di competere con i capolavori animaleschi dei Venom originali e nemmeno con Prime Evil, però è un disco che scorre via bene, con un paio di brani fichi e la giusta prospettiva sorniona di chi neanche ci vuol provare a scrivere musica con qualche ambizione che non sia quella di far muovere teste capellute e inondare di vomito qualche palazzetto dello sport.
Ma è davvero un disco dei Venom, questo qui? Insomma, lo sappiamo che si tratta di Cronos più altri due tizi e che nel corso degli anni, rispetto a Mantas e Abbadon, il carismatico bassista laringoiatra ha sempre perso terreno, inciso robaccia immonda pure per gli standard del trufakkingmedol e denunciato un senso di trasandatezza e inconcludenza che neanche i suoi soli neanderthaliani all’Hammersmith Odeon.
Diciamo che è un disco alla Venom. È artigianato metallaro, una roba grezzona e sporca e abbastanza divertente, specie quando ritira fuori la valigia del satanista da avanspettacolo dei primi anni 80. Sentitevi Stigmata Satanas e ditemi però se non ha ragione Cronos. In fondo a fare il metal non sono tanto le idee ma qualcosa a metà tra il carisma e la potenza.
Basta un quattro quarti e un riffone stoppato e siamo tutti lì con le mutande bagnate a dire sì con la testa. Immagino che groviglio d’ossa produrrà un pezzo come Crucified, che è sempre la solita solfa ma funziona. Funziona. Parte il riff e siamo già nelle mani di quel cazzone. E lui ci scopa come puttane che fino a un momento prima sentivano di essere più delle raffinate dame annoiate che stronze in cerca di cavalcate naif ma è questa la verità. Cronos lo sa e ci castiga.
Crucified non è un pezzo miracoloso, una volta finito ci tiriamo su le mutandine e vergognosamente strisciamo verso il bagno, mentre lui già russa, ammasso di pinguedine, sul nostro letto, ma durante quei quattro minuti avremmo potuto affrontare qualsiasi cosa. Non lo ripeterò mai abbastanza: il metal è quella cosa che ti prende la testa a due mani e la punta avanti a te e poi una voce ti dice: “affrontalo e fallo a pezzi” e una mano ti batte il petto con la veemenza ispanica di un Hector Raul Cuper. Se succede questo durante l’ascolto di un disco metal è tutto, non cerco altro.