Il capolavoro tanto amato da Tarantino, Lynch e De Palma. Una stretta cerchia di studentesse dedite al sesso più sfrenato e un assassino vestito da prete che le punisce per una colpa di cui tutte custodiscono l’inconfessabile segreto.
Una ragazza e un uomo maturo amoreggiano su una barca in riva al fiume. Lei è insicura, timida e la vista di una donna in fuga sulla riva, tra gli alberi e subito dopo grosso coltello in azione, le fanno passare del tutto la voglia. L’uomo si spazientisce e crede che la sua giovane amante abbia finto di vedere qualcosa per non fare l’amore con lui. Il giorno dopo, i giornali parlano del ritrovamento di un cadavere e lo stesso uomo sta leggendo l’articolo con grande stupore. Il posto è lo stesso dove si trovava con la ragazza, ma il suo ruolo di insegnante in una prestigiosa scuola femminile e soprattutto la relazione clandestina che stava cercando di consumare proprio lì con una delle sue studentesse, gli impediscono di andare alla polizia a testimoniare. Altri omicidi seguono con lo stesso modus operandi, un coltello brutalmente infilato nella vagina, sempre studentesse e tutte della stessa scuola a cui appartengono i testimoni reticenti di quel primo delitto. Tutte, si scoprirà, coinvolte in un giro di sesso e droga. Unico indizio ricorrente dell’assassino: un abito talare.
Non è la prima volta che nel thriller all’italiana si usa l’immagine culturalmente molto evocativa del prete. Vengono in mente Non si sevizia un paperino di Fulci, Chi l’ha vista morire?, di Aldo Lado e Solamente Nero di Antonio Bido, ma in questo caso il parroco riottoso e perverso è solo uno spauracchio usato per confondere lo spettatore, in quanto l’assassino si rivelerà di ben altra provenienza istituzionale e il movente che lo spinge a barbarizzare delle minorenne assai libertine, non è l’invidiosa rettitudine di chi è relegato nel cerchio di fuoco dell’astinenza. Per quanto, poi, sia l’aborto, segreto e mal fatto, la colpa che porterà tutte quelle ragazze a trovare una fine terribile, non ci troviamo di fronte all’opera reazionaria di un emissario della CEI, ma all’audace film di uno degli autori più sottovalutati del nostro cinema di genere. Massimo Dallamano (autore anche della sceneggiatura in coppia con Bruno Di Geronimo) inserisce in una storia debitrice dei prototipi Bava e Argento, alcuni elementi davvero coraggiosi e anticipatori nel cinema ma già abbondantemente presenti nella cronaca del tempo (nel film si cita, non a caso il rapporto Kinsey). Il sesso lesbico o etero, allegro e svergognato di un gruppo di ragazzine insospettabili, tutte appartenenti all’alta società è figlio culturale di quella decade appena trascorsa, quella del consumo libero di sesso e stupefacenti, in apparenza strumenti di lotta giovanile, ma nella realtà armi reazionarie che tennero a bada e sfinirono la rivoluzione gridata nei centri studenteschi.
Se però questo materiale, degno più di un servizio per Cronaca Vera è usato in un genere dove l’elemento sessuale, la sensualità e la morbosità sono così in evidenza, non stupisce la resistenza di tanti critici nostrani, distratti dall’inedita ambientazione londinese, a sminuire il film come un prodotto infame e scarso di un emulo indegno del grande Hitchcock.
Cosa avete fatto a Solange?, invece è una pregevole opera cinematografica dove le capacità narrative e descrittive del regista emergono in modo quasi imbarazzante, ma è anche il seme da cui germoglierà troppi anni più tardi, quella serie televisiva ideata da David Lynch, che rivoluzionerà l’intrattenimento televisivo in modo quasi irreversibile.
La metafora fallica del coltello, materia speculare di tanti revisionisti del cinema horror, è in questo caso fin troppo esplicita, quasi da impedire a posteriori l’analisi; come se Dallamano volesse prendersi gioco di tutti gli esperti con gli occhi foderati di prosciutto Freudiano.
La colonna sonora di Ennio Morricone, nome così prestigioso, è un lusso sbagliato, con la sua mielosa epicità, stridente con le immagini essenziali, prive di quegli onirismi e lirismi di Argento o Leone che tanto giustificavano la melassa rarefatta di carillon, soprani femminili e percussioni Bartokiane.
Fabio Testi, con la sua barbetta sulfurea e il fisico da atleta, interpreta perfettamente il ruolo dell’insegnante di italiano, (creato da autori italiani ma figlio dei pregiudizi esteri): marito fedifrago, erotomane impenitente, fascinoso e aitante nel corpo, ipocrita e vigliacco nella mente.
La costante del particolare dimenticato dal testimone, che nel corso del film, gradualmente, si svela sciogliendo l’enigma, in questo caso viene rivelato attraverso il sogno della protagonista, in un contesto fantastico, quello del sogno, come a voler isolare e sminuire la moda di un escamotage narrativo venuto a noia ma imposto dalle leggi del mercato e soprattutto dell’idiozia e dalla mediocrità di chi faceva il cinema per motivi puramente alimentari e non perdeva tempo a dare al pubblico qualcosa di nuovo rispetto a quegli ingredienti sempre graditi e propinati fino alla nausa.
Piuttosto inverosimile la povera moglie di Testi, Erta (interpretata da ?) cornuta e mazziata, algida insegnante di matematica dall’aria piuttosto ‘bondage’, che si muove per un’ora alternando espressioni di rabbia malcelata a dei bronci bambineschi piuttosto ridicoli. Solo quando scopre che il tradimento del marito è platonico (ma non per la volontà di lui) ecco che inizia a sorridere e si schiera al suo fianco nel tentativo di aiutarlo a risolvere il mistero. L’amore non sempre legittima un comportamento tanto cretino e privo di sfumature.
Testi e la diventano così la classica coppia di dilettanti che prendono le redini dell’indagine al posto della polizia, rappresentanto il solo elemento ‘classico’ del genere che Dallamano e Di Geronimo usano senza alcuna dissacrazione latente, ma solo per dare il pilota automatico alla trama, diretta verso la deflagrerà di un finale davvero suggestivo e inquietante.
Anche l’ambientazione, Londra, è tra le cose superflue del film. Si avverte solo in alcuni particolari, la classica cabina telefonica rossa da cui l’assassino chiama per attirare fuori di casa una delle vittime; le bombette o le pipe rifilate in testa e in bocca ad attori dall’aria inglese quanto le comparse di un film di Germi o Bolognini e così via. La chiesa, il confessionale, l’interno degli appartamenti arredati in modo piuttosto barocco, fanno pensare molto all’Italia e se escludiamo l’incontro del professore con il fotografo sulla casa galleggiante verso la fine del film, ma soprattutto le scene del pedinamento a Hyde Park o quella del cottage dove le giovani consumano il ‘delitto’ che le condurrà a morire una dopo l’altra, il film sembrerebbe ambientato a Roma o a Milano.
Nonostante questi pochi appunti, Cosa avete fatto a Solange?, resta comunque una delle migliori creazioni del cinema nostrano, quello relegato nella seconda divisione, purtroppo. Così in perfetto equilibrio tra il giallo e l’horror e pregno di quel dolore della colpa, quella morbosità, quella retorica che rappresentano solo alcuni elementi della ricetta misteriosa alla base d un genere filmico troppo ambiguo, così sinistro, mi si perdoni il gioco di parole, per essere del tutto accettato dalla nostra cultura ‘di Sinistra’, eppure figlio della stessa madre patria che generò spaghetti e mandolini, cattolici e diessini.