Nessuno si è preso la briga di spiegarcelo il titolo di questo film. Cruising. Cruising for sex. Si intende l’atto di camminare o guidare in cerca di un partner sessuale, magari anonimo. E in effetti è di questo che racconta il film. Al Pacino non fa altro che muoversi nel sordido, squallido e davvero molto affascinante ambiente gay del Greenwich East Village di N.Y. Da quelle parti gli omosessuali vivono in un’isola tutta loro, possono girare per le strade senza paura di essere discriminati, sia di giorno che di notte, come se fossero in una specie di ghetto. E il mondo li lascerebbe alle loro copule oliate, pelose e sudose se un serial killer non iniziasse a colpire proprio da quelle parti, disseminando per la città pezzi di cadavere gay. La polizia all’inizio se ne infischia, poi il livello societario dei corpi aumenta: professori alla Columbia, attori di una certa fama, stilisti affermati… e così bisogna fare qualcosa. Siccome l’assassino sembra colpire sempre lo stesso tipo di individuo, non tanto alto, ricciolino, aitante (una specie di Ninetto Davoli) ecco che l’ispettore a cui sono affidate le indagini decide di incaricare Pacino, con una permanente davvero difficile da mandar giù, almeno nelle prime scene.
Secondo molti il vero limite di questo film è proprio l’attore italo-americano. Reduce dal successo di “Serpico” vorrebbe tentare il colpaccio con quest’altro agente tormentato ma non ha il coraggio di abbandonare del tutto il suo status di sex symbol etero e così buona parte dei tormenti e le ambiguità che costituirebbero la parte più interessante di tutto il progetto vanno a farsi benedire. Per carità, è vero, ma se vogliamo usare Pacino come capro espiatorio (cosa che non merita) allora bisogna insistere anche sui suoi limiti fisici. Lui si allena, cerca di tirar su dei muscoli, ma in fondo ha un fisico troppo scarso per recitare certi machismi che il ruolo pretenderebbe. Però si tratta di uno degli attori più carismatici che ci siano e può starci che nel giro di qualche settimane inizi a farsi notare in una riserva di caccia fatta di pettorali scolpiti, catene, borchie e linguaggi in codice per abbordaggi. In fondo quello che vorrebbe fare Friedkin è raccontare senza veli o ipocrisie un luogo sociale ignorato dai più fino al 1981: il giro sado-maso dei gay, ma la cosa si capisce poco. Il film parte con carrellate lungo i marciapiedi mentre voci fuori campo di poliziotti depressi e depravati dicono cose tipo “un giorno questo posto esploderà, prima qui ci si giocava a baseball, che cosa è successo, come siamo finiti così?” e rimanda al classico “Taxi Driver”. Poi però parte il giallo e l’aspetto documentaristico passa in secondo piano.
Non vogliamo sostenere che “Cruising” sia un capolavoro incompreso e che le critiche gratuite e la gran diffidenza attorno al film nel corso di tutti questi anni siano state viziate dal pregiudizio verso un tema scomodo, però riconosciamo all’opera di Friedkin un fascino avulso, involontario, prodotto dal tempo. La fotografia sgranata, il gergo dei gay, ormai datato, la colonna sonora a base di schitarrosi e lascivi rock and roll protometal, la tastierona stile Tangerine Dream a sottolineare i momenti di stanca delle indagini, l’etno-jazz che accompagna la caccia all’uomo di Pacino nella seconda (e per chi se ne intende) stanca parte del film; la sfilata di caratteristi straordinari (Joe Spinell, Paul Sorvino, Karen Allen, Jay Acovone, James Remar, Edward O’Neill) alcuni destinati a diventare attori di primo piano; il modo tipicamente anni 80 di affrontare la violenza, i serial killer e gli ambienti urbani malfamati, tra moralismo e sensazionalismo (tra Winner e Scorsese), tutto questo in fondo rende “Cruising” un film piacevole, divertente, affascinante e un caposaldo di quel genere ibrido irresistibile per chi scrive di horror non horror (Mr. Goodbar, I falchi della notte, China Blue, Indagine ad alto rischio, Coraggio fatti ammazzare). Di lì a poco sarebbero arrivati altri film “ambigui”. Eastwood per esempio si sarebbe cimentato in un ruolo dalle ambivalenze simili a quelle di Pacino in “Corda Tesa” (1983), inoltre la natura abbruttita dal lavoro di un poliziotto è già sviscerata nel capolavoro di Aldrich “I ragazzi del coro” (1977) (a cui Cruising rifà il verso spesso e volentieri) dove un agente fissato con il sesso violento fa una gran brutta fine.
La storia è basata su fatti veri, viene specificato all’inizio da un testo nero su bianco. Il colpevole dei delitti nella realtà non è mai stato scoperto e anche il film per quanto alla fine ci offra un assassino attendibile, in fondo rimane sospeso, il maniaco nega di aver compiuto i delitti e un nuovo omicidio (anche se apparentemente non sembra collegato agli altri) chiude la storia. Pacino torna a casa dalla sua ragazza e sorride per la prima volta dall’inizio del film. Lei lo accoglie a braccia aperte, anche se sono stati in rotta, ogni cosa sembra tornare a posto, ma è una chiusa troppo semplice, illusoria. L’inquadratura sul molo, con la nave di pescatori, quasi fa pensare che stia per emergere un altro cadavere. Certo, lo spettatore scafato sente una certa puzza quando si accorge che il serial killer viene scoperto e arrestato quando manca ancora quasi un quarto d’ora alla fine. Di solito quello è il momento dove il falso colpevole viene acciuffato e negli ultimi cinque minuti tutto si riapre, avviene lo scontro a sorpresa con l’insospettabile criminale, che aggredisce il protagonista, ormai convinto di aver risolto tutto o quasi. E invece no. Non succede nulla. Anche qui è come se Friedkin alla fine sia stato costretto a cedere e non lasciare un finale aperto, come se Pacino abbia costretto tutti a far rientrare il personaggio nei ranghi dell’eterosessualità, dopo tanti dubbi. Che poi a ben guardare, se escludiamo un paio di mosse qui e là e la scena del ballo violento (davvero imbarazzante) il vecchio Al non fa nulla che comprometta la sua integrità di maschione italiano, nemmeno un bacetto su una guancia a uno dei numerosi amanti che si tira dietro lungo tutta la trama. C’è addirittura quello scontro “virile” con un altro gay (James Remar) che sembra assurdo e quasi gratuito ma se vogliamo dirla tutta, questa mancanza di coraggio suscita una certa tenerezza e se vogliamo quel finale finto chiuso potrebbe essere una metafora avveneristica dell’avvento dell’AIDS. La grande spregiudicatezza, la facilità con cui i personaggi si appartano, si accoppiano, si abbordano da l’idea di un’orgia costante, senza freni o paure e su tutta quella babilonia sta per abbattersi un nuovo scherzetto divino.
Tra l’altro “Cruising” fece incazzare da morire la comunità omosessuale per via della rappresentazione fortemente omofoba. Friedkin sostiene di aver tagliato 40 minuti, andati persi e in molte versioni mancano la dichiarazione del regista, il quale specifica di non voler offendere i gay o sostenere che sono tutti come quelli che si vedono in “Cruising”. L’altra cosa omessa è la scritta sul muro all’inizio, così inquietante, quasi da film sugli ultracorpi: “noi siamo ovunque”.