Quattro icone del cinema horror per una pellicola deludente e giustamente dimenticata. Lo scrittore Kenneth Magee scommette con il suo editore di riuscire a scrivere un best-seller in sola una notte. Ha solo bisogno del posto con la giusta atmosfera. Peccato che il maniero messogli a disposizione, disabitato da anni, proprio la notte del suo arrivo diventa teatro di una inquietante riunione famigliare.
Pete Walker è stato uno dei registi britannici più promettenti degli anni ’70. Alcune delle sue pellicole rappresentano ancora oggi piccoli capolavori di sadismo e terrore. Peccato davvero che non sia riuscito a combinare più nulla dopo quelle interessanti premesse, ma gli anni ’80 non furono il posto ideale per un regista alle prese con un tipo di critica sociale austera e molto coraggiosa, ma fuori luogo per una decade che consacrò il genere agli effetti speciali e all’umorismo nero.
Eppure questo film, sulla carta, prometteva tantissimo. Raccogliere nel cast quattro mostri sacri del genere quali Vincent Price, Christopher Lee, Peter Cushing e John Carradine, (più Sheila Keith, attrice feticcio di Walker), adattare una trasposizione teatrale di sicuro successo dal titolo “Il Mistero delle sette chiavi” di Earl Derr Biggers, mettere tutto in mano a un autore esperto e ambizioso avrebbe autorizzato chiunque alle migliori aspettative. Invece fu un fallimento e non tanto per la difficoltà di tenere insieme quattro attori ormai alle soglie della pensione e irrimediabilmente gigioni, quanto per la mediocre sceneggiatura di Michael Armstrong, troppo ancorata all’originale per il teatro e la scelta di affidare i ruoli dei comprimari dei quattro interpreti illustri, a mezze calzette senza speranza come Louise English, Desi Arnaz Jr. e Richard Harvey. La messa in scena è già piuttosto patinata, al punto da impedire di riconoscere la mano severa, crudele del regista e trasformare il film in una cosa al limite del televisivo delle ore pasti, con l’attore che interpreta il ruolo dello scrittore, Desi Arnaz Jr. inaccettabile perché così indolente, accademico e inespressivo, da essere degno di un episodio de La Signora in Giallo e non di un horror con intenti seri. La scelta di trasformare una vecchia pièce in un omaggio alle case di produzione Hammer e Amicus poi, in un contesto così impietoso e insensibile per quel tipo di cinema ormai classico, fu una decisione a posteriori davvero sciocca e disastrosa. Erano sì gli anni di The Entity, Chaingeling e Ghost Story, tre successi che incoraggiarono i produttori Golan e Globus a rispolverare una vecchia storia di spettri e camere chiuse con dentro un segreto indicibile, ma il cinema fantastico aveva subìto un restyling più crudo, realistico. Le facce inossidabili di Christopher Lee e Peter Cushing, (per l’ultima volta insieme) non spaventano ormai un pubblico avvezzo a un nuovo tipo di mostro mascherato, non interprete della malvagità, ma banale esecutore che cammina e riduce in pezzi degli adolescenti arrapati senza alcun motivo apparente, nascosto dietro la sua maschera infantile. Tutto questo genera un dualismo stimolante tra un modo di fare horror romantico e abbandonato in vece di una nuova via più cinica, fossilizzata tra body-count e tette al vento. Questo film in un certo senso è un orgoglioso commiato caduto nell’indifferenza completa, un’occasione sfruttata malissimo di mettere il punto a un’epoca gloriosa che era giunta a conclusione, inesorabilmente. I quattro signori delle tenebre abbandonano la casa dopo un ultimo incontro forse anche svogliato, ma non senza aver inscenato un balletto di ombre lunghissime, che si perdono nei ricordi di spaventi passati e ormai esauriti. Eccoli che praticano un po’ a rubarsi la scena, ma in modo sportivo, amabile, conviviale. Tra loro non sembra esserci livore, rivalità, solo un puro, vetusto e muffo stile britannico che li accomuna, i movimenti e le inflessioni eleganti, ironiche e sornione, fatte con la parsimonia e la sapienza di chi ha succhiato sangue con animosità, ma senza torcere un capello alle proprie vittime. E Walker che non riesce a controllarli, né a lasciarli del tutto andare, forse scoprendosi anche lui, stufo di quei cantori di un horror che non ha mai interessato nemmeno lui. Film come Nero Criminale e La Casa del Peccato Mortale sono raggelanti attacchi al clero e alle istituzioni giuridiche, ben altra cosa rispetto a questa commediola con delitto. Gli attori fanno il loro dovere, nonostante tutto, con grande aplomb professionale, e dopo un’ora e mezza eccoli che ripongono i loro paletti di frassino e i mantelli scuri, consapevoli di dover fare largo a questa progenie delle fogne, ormai più degna espressione delle paure di quanto siano mai riusciti a farlo loro in fondo.
La casa delle ombre lunghe in definitiva è un film sbagliato. Il gioco di luci e ombre sui volti ancora così evocativi di Price e Lee, Cushing e Carradine provoca solo rimpianto.
Il colpo di scena finale, che non sveliamo per ovvie ragioni, non fa che vanificare una volta per tutte il poco terrore assaporato lungo tutto il film, lasciandoci un senso di malinconia per quei divi dell’horror e i loro troni abbandonati, ormai vuoti e coperti di ragnatele.