La Necrofila (1972), non è un capolavoro misconosciuto ma un filmetto tecnicamente mediocre, recitato con l’istrionismo tipico di una telenovelas caraibica e voragini di sceneggiatura quasi in territorio Seirlingiano (inteso come il papà de Ai confini della realtà, esatto).
Di contro è una perlina sozza, uno schiaffo audace alle buone maniere della perversità d’autore e forse il più genuino trattato sulla necrofilia pre-Buttgereit. Non c’è molta violenza, non ci sono secchiate di sangue e tanto meno la lascivia porno soft di certo cinemino border-line con il piede nelle staffe di più generi. In un certo modo è un ritratto toccante, discreto e sentito di Lindsey Finch, una donna (interpretata da Mary Charlotte Wilcox) con un grosso trauma da manuale psichiatrico che la riduce a bighellonare tra vecchi cimiteri e Funeral Homes fin quando una setta segreta con gusti assai simili ai suoi non le mette gli occhi addosso e un marito (Lyle Waggoner) esasperato non la sgama.
Gli amplessi orali e gli sfregamenti epifanici non mancano ma tutto è gestito mantenendo una decorosa patina anni 70 da rivista di moda, tra rolls royce e cappellini con velo, ristoranti etnici e mostre d’arte elegantone. Tutto il bric a brac da catalogo Vanity Fashion è scandito da un motivo musicale talmente vetusto da scatenare la necrofilia degli appassionati musicali di colonne sonore da archivio. Il brano composto da tale Phil Moody (che non è come Wikipedia linka il leader della pop band Cowabanga ma un dimesso e forse mai esistito compositore sinfo-jazz) si intitola come lo stesso film in originale: Love Me Deadly. Si tratta di una ballata in stile Mr.Goodbar, se avete presente, dove una voce femminile pregna di solitudine e scotch di classe lagna verso il sesso maschile il gran bisogno di amore che ha. Quel deadly reiterato è facilmente ribaltabile con daddy, (il babbo), unico grande amore e ossessione d(‘)annata per la povera necrofila donna/bimba.
Il film inizia proprio con una serie di flashback giallo diarrea colerica al rallentatore e ricchi di zoom indiavolati dove vediamo il perpetrarsi innocuo del rapporto incestuosamente paposo all’origine di ogni casino narrato della piccola Lindsey. Il bel papà è divertito e forse un tantino consapevole della cotta di sua figlia e magari la disgrazia che seguirà è solo la provvidenziale e moralistica punizione per il vero colpevole di questa devianza letale (ma è solo una supposizione modesta di chi sta scrivendo, intendiamoci.)
Probabilmente l’autore Jacque Lacerte, che dopo questo esordio entusiasta non sembra aver dato il via a una schiva carriera al servizio del male in pellicola o delle pubblicità Amaro Ramazzotti, non era molto fiducioso nelle proprie capacità di dialoghista (ha scritto anche la sceneggiatura, sì), ecco perché una metà del film sembra quasi un vecchio muto. I personaggi si muovono, parlano e agiscono per lunghi tratti sommersi da una colonna sonora birichina e dal sapore latineggiante. Bisogna ammettere che su un piano del linguaggio è anche interessante: non è frequente veder sbrogliare ettari di trama con una specie di balletto di sguardi, abbracci e passeggi consumati nell’arco di pochi minuti in cui i personaggi muovono le labbra senza dir nulla e nel mentre si seducono, familiarizzano, si lasciano, si sposano… Peccato che Jacque si faccia prendere la mano e quello che avrebbe potuto essere un modo intelligente e umile di trasformare la necessità in virtù diviene un istrionico tentativo di attirare l’attenzione su di sé.
La povera signorabbene finisce per sposare un uomo assai simile fisicamente al povero padre perduto ma deve concedersi sovente una cavalcata di carne cruda per sfoderare i sorrisi da perfetta mogliettina. Questo la costringe come prima del matrimonio, a una doppia vita. Il suo reale problema però non è la pratica di una mania inaccettibile per il mondo civile di cui lei dopotutto vuole essere parte (frequentando feste chic e promettendola a destra e a manca di continuo) ma la distrazione cronica! La signora Lindsey Finch infatti è davvero un disastro! In più di un’occasione si lascia sgamare e seguire, dimentica sinistre lettere d’invito alla sospettosa mercé del marito; si scopa un cadavere sotto gli occhi di uno sconosciuto nascosto dietro un velo trasparente; si fa sorprendere di notte mentre vaga in città a orari inscusabili verso i suoi amici cadaveri e di giorno mentre balla con un orsacchiotto tra le braccia e due dementi treccine sulla tomba del papà defunto.
In parte è un po’ sfigata, per carità, ma forse è tutto un inconsapevole meccanismo di seduzione da vedova nera, forse… Non è un caso che gli uomini, invaghiti di lei finiscano per seguirla fino a trovarsi poi infallibilmente su un lettino d’acciaio con dei tubi nella giugulare, davanti agli sguardi inorriditi, disperati ed eccitati della protagonista e la congrega necrofila di cui, dopo un iniziale fase di dubbio ed esitazione, diventa parte attiva.
Ovviamente, in realtà Lindsey è così sbadona, sfiga e puttana più che altro perché Lacerte è un pessimo sceneggiatore e risolve tutti gli inghippi della trama a spese della concentrazione della sua protagonista, ma in fondo poco importa come proceda la storia. Quello che davvero vale la riscoperta di La necrofila è il garbo e la sobrietà con cui un tema sordido oltre ogni canone venga trattato in un’epoca ancora troppo lontana per simili aperture mentali alternative. Non c’è sensazionalismo e per quanto in modo terribilmente scolastico, il film è incentrato sul tentativo genuino di restituire umanità a chi fa sesso con i morti, ma senza giudicarlo.
Da parte della signora Finch infatti non c’è la voglia di trattenere o esaurire una simile pazzia ma soddisfarla e tenerla segreta. Questo non la conduce a una morte orribile ma al soddisfacimento assoluto di ogni suo desiderio.
Il cuore del suo papà è ancora vivo dietro la rigida coltre cicciuta di anonimi corpi e per lei è semplicemente impossibile rinunciarvi. L’inferno però è pieno di gente che amò oltre ogni ragionevolezza e a qualsiasi costo, sembra dirci Lacerte, quindi non schifate la signora Finch, vuole solo essere felice, come tutti noi.
La donna, nonostante i casini mentali in cui si trova, finisce per rivestire il ruolo di una moglie (ma non di una madre) solo perché la realtà è scesa a patti con lei, restituendole un clone fisico del padre che però è troppo vivo per scatenarne la libido. Lei infatti è apparentemente frigida e non si concede. E tutti gli uomini che provano a farle cambiare idea non vanno mai molto avanti nell’approccio. Anche l’amico (interpretato dall’indimenticabile mannaro Christopher Stone de L’ululato) donnaiolo brutale finisce per desistere dopo una specie di stupro estemporaneo a inizio film. Eppure la signora Finch con i cadaveri è sessualmente scatenata, di gran fame e imprevedibile. Colpisce per esempio il bacio prolungato al pizzetto barbuto di un morto, al culmine della prima scena. Ci si aspetterebbe una rapida salita verso le labbra violacee ma lei si ferma a lungo sul punto che molte donne amanti dei vivi detesterebbero: il pelame pizzicoso.
La congrega di necrofili-satanisti (capeggiati dal becchino spregevole interpretato dall’attore Timothy Scott) in fondo è messa lì per dare azione (il film è più un dramma puro che un horror di genere) e ribadire che in certi termini violenti anche la necrofilia va condannata e deve morire. Però rappresenta anche la componente retrò più figa di La necrofila, quella che farà la gioia dei malati di horror anni 70, con orge liturgiche teneramente stroboscopiche da raccomando.
La parte che invece incute sul serio paura è quando, nel finale, tra droghe e shock vari, la protagonista è lasciata libera di vagare nel buio della propria dimora mentale, restituita definitivamente allo stato infantile in cui è da sempre rimasta prigioniera ma in libertà condizionata, accecata dai flash della morte di suo padre e con il vecchio orsacchiotto sottobraccio, custode esoterico del segreto incestuoso, assassino e mortifero della donna/bimba, cammina languida verso l’alcova nuziale. Durante queste sequenze conclusive, la colonna sonora smette di essere fracassona e melensa e fa il suo porco lavoro d’atmosfera. È quasi ridotta al silenzio, se escludiamo i rimbrotti vaghi di un carillion in lontananza ma funziona e rende le immagini ancora più sinistre. Avvertiamo, oltre l’inquietudine, un senso di pietà e immaginiamo quanto quei piedi femminili, una volta tanto, si stringano intorno a due fette maschili ancora più fredde.