La rossa maschera del terrore (The Oblong Box) di Gordon Hessler (1969 o giù di lì)
Qualcuno potrebbe confondere questo film con i lavori di Roger Corman tratti o vagamente ispirati a Edgar Allan Poe ma a parte la presenza dell’attore Vincent Price, il titolo di un racconto dello scrittore di Baltimora da cui l’opera sarebbe tratta e una certa atmosfera necrofila generale, La Rossa Maschera del terrore non vale dieci minuti di un qualsiasi film del regista de I vivi e i morti. Avrebbe dovuto dirigerlo Michael Reeves ma pensò bene di suicidarsi a distanza di sicurezza dall’inizio delle riprese. Si perdoni il mio pessimo umorismo, resta il fatto che non c’è niente di memorabile in questo lavoro di Gordon Hessler, (regista di cui parleremo meglio un’altra volta, promesso). È mascherato da classico ma oltre la confezione c’è poco. Per cominciare la paternità attribuita al racconto “La cassa oblunga” è fuorviante.Questo film è collegato a quella creazione quanto potrebbe esserlo un romanzo di John Irving a un negozio di fuochi d’artificio. Sì, abbiamo un pittore, ma non è certo il protagonista ossessionato dal corpo della moglie da poco scomparsa del breve racconto di Poe. No, qui l’artista è un personaggio secondario e ritrae un cadavere che ha contribuito a rinvenire nel lago. Punto. La storia è scritta di sana pianta e parla di due fratelli che hanno una piantagione in Africa. Ci vanno per un po’ e al ritorno, uno dei due è orrendamente sfigurato. Pare che sia stato vittima di una stregoneria e che qualcuno l’abbia punito per un delitto terribile compiuto laggiù. Non vi dico niente. Il fratello sfigurato vive chiuso in catene, in una stanza da cui nessuno lo fa uscire. Vincent Price è il fratello sano, quello che cerca di tenere a bada la questione senza far trapelare nulla della condotta scandalosa del consanguineo che dopo “l’incidente” è fomentato da una smania lubrica e irosa verso non si sa bene cosa. Costui non vuol trascorrere il resto della sua vita da recluso e medita di fuggire. Convince uno stregone, con l’aiuto di alcuni delinquenti sempre pronti a fare cose losche in cambio di denaro, a procurargli una pillolina che simuli la sua morte.
Non andiamo oltre con la storia. Parliamo di cosa ci viene voglia di salvare. Price è come al solito gigione, si dirà. Confermo, ma diamine! Tutti adorano questo attore di talento prestato al cinema horror e ogni volta che leggiamo una recensione su un film con lui ecco l’aggettivo gigione immancabile. Se però in alcune prove con Corman non lo definirei proprio un grosso gigio, (ammesso che si scopra mai cosa possa essere un gigio) in questo episodio lo è eccome. Tra l’altro, la copia che ho rimediato ha l’audio difettoso e passa dall’italiano all’inglese all’improvviso. Capita quindi che Price o un altro attore comincino la frase in una lingua e la finiscano in un’altra con effetti a volte stranianti. Dopo i primi venti minuti, il film mostra già i suoi limiti e lo spettatore (vale a dire io) finisce per appassionarsi a cose extradiegetiche, tipo il bel paesaggio silvano degli anni 70 (ottimo sfondo per la copertina di un disco dei Blood Ceremony) o l’effetto day for night girato in una lunga e tenebrosa strada di campagna nella scena più riuscita a livello di atmosfera che però è anche la più idiota sul piano della logica nell’intero film.
Il fratello sfigurato, una volta sfuggito alla prigione dentro la sua stessa casa, inizia ad accoltellare o strangolare tutto quello che trova. Lo strangolamento è la forma di omicidio più diffusa in questo film, anche perché la più pulita: le scene di coltello (che ci sono eccome) risultano quasi insopportabili per mancanza di verosimiglianza. Vediamo questi colli pennellati di rosso, le espressioni esterrefatte delle vittime compromettono la poca suspance che ancora non era stata fottuta dalle impennate di violino e i rulli di tamburi della colonna sonora. Di buono c’è la foga dei colpi di lama inferti: robusti, numerosi, Batesiani (nel senso di Norman Bates… avete presente i cuim! cuim! cuim! nella scena della doccia?). Quando viene uccisa la prostituta affiora persino un mezzo capezzolo (e credetemi che si tratta di un meraviglioso capezzolo) su un paio di poppe da mitragliata ormonale, come solo nei film in costume si vedono, al punto che viene da pensare facciano parte del costume, appunto. Ah, sapete, c’è anche Christopher Lee, nel ruolo di un medico che paga i ladri di tombe per fare studi sui cadaveri. Non si sa bene perché non sia toccata a lui la parte assai più importante del fratello matto di Vincent Price, (che invece è toccata al pur bravo Alister Williamson, attore australiano di cui non so un’emerita ceppa). Price e Lee si vedono in una sola scenetta di pochi minuti, quando il secondo è agonizzante a terra e non dice nulla, se non un borbottio incomprensibile sul fatto che sta morendo, l’altro non è neanche tanto colpito, visto che non hanno legami di nessun tipo. Meravigliosa la carrellata laterale sul piccolo cimitero immerso nel buio e le urla di un sepolto vivo che perforano la quiete notturna. Sono questi momenti che rendono La rossa maschera una visione non completamente sprecata.