L’inquilino del terzo piano

Trelkovsky ha bisogno di un posto dove stare e dopo varie ricerche infruttuose riesce a trovare una sistemazione in linea con le sue ristrette possibilità economiche. L’appartamento si è liberato da poco per via di una disgrazia: la precedente inquilina, una giovane di nome Simonetta Choule, è morta suicida senza apparente motivo. Dopo aver preso possesso del nuovo alloggio, Trelkovsky inizierà a capire il perché del gesto disperato della ragazza: i vicini l’hanno spinta a farlo e anche lui dovrà lottare se non vorrà finire allo stesso modo.

Roland Topor è stato un pittore, uno sceneggiatore, un vignettista e persino un attore, quasi nessuno però si ricorda che ha anche firmato un romanzo horror straordinario, scritto quando aveva 26 anni. “L’inquilino stregato” (questo è il titolo originale) ha ispirato il famoso film di Roman Polanski e ha tinto la vita condominiale di un nero tenebroso e angosciante. A dire il vero, se da una parte ci sono gli ingredienti per un racconto di spettri, dall’altra c’è uno sfondo di alienazione sociale così deprimente che non si capisce bene cosa spaventi di più il lettore, se la progressiva discesa negli abissi della follia da parte del protagonista, con gli inquilini del palazzo (spettri malvagi e invidiosi?) che lo umiliano, perseguitano e assediano fino a castrar via la sua virilità e spingerlo al suicidio vestito da donna o se non si tratti della realtà metropolitana, fatta di colleghi pettegoli e insensibili, di donne affamate sessualmente ma aride di sentimenti, di impieghi spersonalizzanti e di un vicinato che desidera solo il tuo silenzio e la tua immobilità, ad atterrirci di più.

Ammesso che sia solo un romanzo sulla paranoia, “L’inquilino…” è pur sempre una storia di petizioni per cacciare via la gente di casa, di terribili scherzi scatologici a opera di vicini rancorosi o di risse criminali a margine di una festa che si è protratta oltre un orario ragionevole. Alcune situazioni sono esasperate fino al grottesco e al ‘fantozziano’, ma proprio non viene mai da ridere. In fondo vivere a Parigi, come in qualsiasi altra città occidentale, è sempre cosa ardua perché molto costosa, i tanti Trelkovsky che cercano di rimanerci con il loro modesto salario, devono arrivare a subire umiliazioni tremende, scendere a compromessi tali che neanche si accorgono di lasciarsi trasformare in prede spaventate. Allora finiscono per ritirarsi nel loro piccolo rifugio e da lì aspettano tremanti che scorra, come una notte desolata, la propria intera esistenza.

Trelkovsky è un uomo dal passato oscuro il cui cognome evoca gli scenari tragici della guerra e dei campi di concentramento. Nel libro non se ne parla mai, ma siamo negli anni 60 e per un polacco sui quarant’anni che è sempre vissuto in Europa bisogna immaginare dei trascorsi piuttosto difficili. Lui non lo dice e più prova a ricordare la sua esistenza passata, meno gli torna in mente. È un solitario che ha trascorso la vita soffrendo per una presunta e confusa diversità che continua a farlo vivere in mezzo alla gente impedendogli di avvertirne il calore, la comprensione, l’affetto ma solo l’aggressività e la cattiveria dei forti sui deboli. E lui sente di essere un debole e che prima o poi verrà spazzato via. In apparenza le condizioni che il padrone di casa, il signor Zy, gli impone (niente figli, né amanti, né cani) sono gli amati e sicuri confini della sua vita di sempre, ma dopo che lui ha varcato la soglia del nuovo appartamento, ecco che quei limiti sociali diventano improvvisamente le sbarre di una prigione da cui è impossibile fuggire e tanto meno esserne salvato, perché Trelkovsky si renderà conto che nessuno lo cerca, nessuno si preoccupa di lui, nessuno lo ama e per il palazzo degli spettri questo è il requisito necessario a ingurgitarlo nella propria eterna famiglia rancorosa.