Lo sguardo che uccide (Terence Fisher, 1964)
Questo film della Hammer non è molto conosciuto ma di sicuro uno dei più intriganti, almeno fino a quando si limita a suggerire ed evita di mostrare. Il problema è tutto lì. Già la storia è difficile da credere: un essere mitologico che vive in Germania, (invece un tizio immortale che succhia il sangue dal colle delle vergini, no?) ma la messa in scena, così elegante, espressionista, poetica, riesce a farcelo dimenticare e come una favola ci cattura fino quasi alla fine. Non parliamo di Medusa, che come di certo il mio brullo uditorio saprà, morì decapitata per mano di Perseo. No, qui il mostro è Megera. Megera non è solo il modo di definire una suocera sulle vignette umoristiche de La Settimana Enigmistica, ma anche un antico mostro della mitologia classica. (Non voglio fare il saputone, l’ho scoperto grazie al film e poi sono andato ad approfondire). Lei pure ha dei serpenti in testa e il suo sguardo tramuta in pietra. Al contrario di Medusa però nessuno la uccise o le impedì la fuga verso l’attuale Germania. Nello sperduto villaggio tedesco, in certe sere di luna piena, capita infatti che qualche sventurato viandante diventi una statua. Le autorità si limitano a registrarli come decessi naturali e passano oltre, seppellendo tutto sotto la classica coltre di silenzio, fino a quando non muoiono un pittore e la sua promessa sposa. L’uomo è trovato impiccato a un albero, lei è pietrificata. Le autorità cercano di dare la colpa a lui, ma il padre dell’artista, illustre professore universitario, giunto dalla città per riconoscere la salma di suo figlio, non ci sta e tenta di provare che c’è qualcun altro, qualcosa, un essere sovrannaturale o il diavolo stesso dietro quel doppio delitto e la catena di altri precedenti. Il resto della storia non ve lo racconto. Vi dico solo che il prof diventa anche lui una statua ma prima lascia una lettera al suo altro figlio, Paul, che giunge presto al paesucolo e lo mette sotto sopra pur di sapere cosa abbia ammazzato nel giro di pochi giorni la sua famiglia al completo.
Eppure, la paura delle donne diaboliche, demoniache, intraviste nell’ombra, mentre vi fissano con un lieve sorriso e due occhi rossi peggio di un afflitto consumatore di cannoni sono piuttosto efficaci non trovate? Specie in chi ha passato l’infanzia all’asilo dalle suore come il sottoscritto. Le scene in cui Megera incontra le sue vittime sono tutte molto sinistre e suggestive, bravissimo Terenzio Fisher, davvero in gran forma. Le scenografie barocche poi coadiuvate da una colonna sonora martellante di violini e percussioni in classico stile Hammer Production sortiscono effetti sicuri di angoscia rabbrividosa. Vi consiglio di guardarlo, di notte, sdraiati a letto, sotto le coperte e con una bella tazza di latte caldo su comodino. Vi addormenterete senza dubbio prima di arrivare alla metà del film ma ammetterete che finché siete rimasti svegli avete rabbrividito in preda a uno strano senso di ansioso conforto. Ah, lasciatemi perdere… non so neanche se ho coniugato bene i verbi delle ultime quattro righe. Torniamo al film che è meglio.
C’è infatti l’altro aspetto fastidioso delle produzioni della casa inglese con cui fare i conti: è tutto terribilmente posticcio e si vede. I baffi, le barbe, le scenografie, il sangue, l’eccessiva drammaticità di certe interpretazioni… basti guardare come hanno ridotto Christopher Lee ! Cushing e Lee sono entrambi in ottima forma, anche se è il secondo a rubare la scena, entrando nella ripresa e dando nuovo vigore al gioco, dopo la manovra sempre più farraginosa di Paul (Richard Pasco) che arriva con i suoi bei capelli impomatati, da figlio mancato della famiglia Carradine e poi smagrisce, svigorisce, imbianca (i capelli perdono colore per lo spavento di aver incontrato Megera) fino a diventare davvero brutto e antipatico… come un Pandoro Bauli dopo lo spolvero dello zucchero in capa. Avete presente, no, il Pandoro Bauli, grasso e gradasso, fiero, presuntuoso, sdegnato di stare in mezzo a tanti pandori di sottomarca recuperati da qualche scaffale dell’Eurospin… Va beh, perdo ancora la strada, mi sa.
Insomma, Lee ha giuco facile con questo comprimario mentre Peter Cushing, dottore di grande prestigio e acume, piano piano perde lucidità e impossessato da un insano amore per la sua assistente (che preferisce il rachitico e incazzoso Paul) finisce per degenerare in uno stato emotivo sempre più confuso che lo spinge a un livello morale discutibile, diventando la vera figura tragica del film, mentre Lee alias il prof. Karl Meister e la sua aria da uomo con le palle quadrate e il passo di un investigatore provetto, in fondo è un personaggio secondario. Pasco e l’assistente hanno un flirt che presto si trasforma in una castissima e turbinosa storia d’amore che poco interessa lo spettatore di oggi (io) . Il finale non lo riveliamo, anche se vi avvertiamo che quegli orridi effetti speciali rovinano praticamente tutto.