Ricordo che la prima cosa a farmi morire di paura, da piccolo, fu il videoclip di The Wall dei Pink Floyd. Ogni volta che lo passavano in TV, cioè durante la trasmissione Fininvest Superclassificashow, io scoppiavo a piangere e mia madre doveva coccolarmi per delle ore. Da grande ho visto l’intero film di Alan Parker e pur trovandolo abbastanza pretenzioso e noioso non ho potuto che dar ragione a quel bambino: ci sono un’infinità di elementi orrorifici e di certo il video non era adatto a essere trasmesso in orari di cosiddetta “fascia protetta”. Anche se nel 1981-82, non esisteva ancora questo concetto, non per le reti Fininvest. Ricordo di una causa fatta da una mamma a Mediaset per aver passato durante il giorno uno spot su uno degli episodi di Nightmare o mi sa che era la pubblicità della serie in vhs L’enciclopedia del terrore. Insomma, il figlio di questa donna vide Freddie Kruger e il suo guantone per insalate e ogni notte si svegliava con degli incubi terribili. Non so come andò a finire e mi importa poco. Di certo però sono altri tempi. Mia madre pur vedendomi in preda al panico minimizzava tutte le volte, mi metteva sulle sue ginocchia sussurrandomi tante frasi dolci (che ripeté poi solo nel 1995, quando mi bocciarono per la prima volta). Il mio secondo contatto con l’horror che ricordi fu una sera. Dormivo con i miei genitori, avrò avuto cinque o sei anni (esatto, sono un tipo che lo svezzamento l’ha superato con mooolta calma). I miei avevano la televisione in camera e mio padre guardava qualche film, ogni tanto. Quella sera ricordo che vidi alla TV una donna orribile che sorrideva, delle bambole e pareti rosso sangue sullo sfondo. Mi strinsi forte a mia madre e iniziai a piangere anche lì. Stessa reazione o quasi che ebbi quando (in tempi di riscoperta del cinema Bis Italiano, mi imbattei nello stesso film, che scoprii essere: Tutti i colori del buio di Sergio Martino.
Al tempo delle elementari stetti alla larga dai brutti film. La cosa più vicina a un horror che vidi fu Cobra. Andai a vederlo al cinema insieme a un mio amichetto. Stallone era il nostro attore preferito e quando uscimmo dalla sala eravamo gasati entrambi. Io ero obeso e lo stesso mi sentivo un fico nella brezza settembrina piena di fragranze deprimenti. Cobra era un film perfetto per i piccoli fan di Sly. Lui aveva degli occhiali a specchio, capelli corti (lo preferivo con i capelli corti), jeans super attillati e stivali di coccodrillo. Nel film c’erano stupri, assalti sanguinari ai supermercati, una setta di teppisti folli che in una vecchia fabbrica incrociavano sulla testa delle asce seguendo una specie di mantra del carpentiere che scandiva i titoli di testa, come i rintocchi della morte e su tutto un’atmosfera malata da horror metropolitano che avrei ritrovato in roba tipo Cruising, I Falchi della notte o Il giustiziere della notte. E di morte quella congrega fissata con le asce ne seminavano tanta nel corso del film. Ma non voglio parlare di Cobra, almeno non ora. Io voglio dirvi del primo vero horror movie che vidi, quello che stuprò via la mia infanzia una volta per tutte, il primo battesimo di sangue e sesso della mia vita. Imparai molto di più sul mondo degli adulti guardando quello che in quattro anni di elementari.
Insomma, sto parlando di “Natale rosso sangue”. In seguito ricordo che lo ridistribuì la Avo Film con una copertina orribile che riciclava quella di L’Aldilà di Lucio Fulci mentre la locandina che c’era esposta nella videoteca del mio paese era con un babbo natale gigantesco, ascia in mano e volto in ombra. Titolo originale: Silent Night, Deadly Night. Meraviglioso, non trovate? Anche se ho scoperto che inizialmente volevano intitolarlo Slay Ride, “corsa assassina”, gioco di parole con Sleigh Ride che invece vuol dire “corsa con la slitta”. Ebbene, il film lo vidi a casa di un mio amico (lo stesso con cui andai al cinema per Cobra, esatto). Era il mio migliore amico, in quegli anni. Lui aveva il videoregistratore e io no. Questa era una delle cose che lo rendevano il mio favorito. Con noi c’erano un altro paio di compagnucci delle elementari. Avevamo circa 10 anni e la proprietaria della videoteca, che presto sarebbe diventata una presenza fissa dei nostri esercizi onanistici, non aveva problemi a farcelo portare a casa, anche se era specificato che potevano guardarlo solo i maggiori di 14 anni. Si vede che anche lei era per un’educazione rapida e definitiva seguendo l’adagio di Benedetto Croce: “i giovani hanno l’obbligo di invecchiare presto”.
Ma scusate la digressione. Silent Night, Deadly Night è la storia di un tipo che da bambino, la notte del 24 dicembre, assiste all’omicidio dei suoi genitori. Il cado desidera che l’assassino sia vestito da babbo natale. Per sfortuna, a condire il fatale equivoco sulla natura violenta e risolutoria del povero Santa ci si mette il vecchio nonno scemo, che il bimbo e la famiglia vanno a trovare in ospizio prima di incappare in questo natalizio e scatenato emissario della morte. Il nonno sembra innocuo, guarda il vuoto con una specie di sorrisetto malizioso. Quando i genitori lasciano il protagonista solo con lui per non ricordo quale motivo, il vecchio si rianima e a solo a solo col nipote gli dice che babbo natale ai bambini buoni porta regali ma a quelli cattivi li ammazza tutti come cani. Palla. Il criminale vestito come Santa non si sa che fine faccia ma il piccolo protagonista fugge per il bosco e il suo fratellino è un neonato e quindi può rimanere in auto a piangere aiuto per tutta la notte. Entrambi finiscono in un orfanotrofio, dove li troviamo appena concluso questo antefatto micidiale. L’istituto è abbastanza dickensiano, gestito da una suora nazista fanatica della frusta. Lì il protagonista assiste ad altre scene performative: su tutte quella in cui la madre superiora sferza a sangue due giovani sorpresi in una stanza a copulare e che il bambino stava spiando dal buco della serratura. Quindi le fustigate sui lombi se le ciapa anche lui.
Insomma, dopo venti minuti io e i miei amici avevamo saputo tutto quello che c’era da sapere sulla cruda, violenta, spietata natura degli uomini e tutto questo filtrato nella stridente atmosfera calorosa del giorno preferito dai bambini, quello in cui si attendeva l’arrivo del primo grande eroe della nostra infanzia. Sto parlando della vigilia di natale e del vecchio che portava i doni (anche se a mano a mano che crescevo la sensazione di questo estraneo che doveva passare in casa mi spaventava sempre di più). Il rapinatore vestito da babbo natale non solo uccide senza remore il padre e la madre del protagonista davanti agli occhi del piccolino, ma prima di accoltellare la donna, le strappa via la camicia mettendo all’aria la carrozzeria. I seni. Quel poverino guarda l’oasi mammaria della sua prima infanzia in balia di un maniaco che prima di affettarglieli si lascia andare a qualche riprovevole grugnito di famelica lussuria. Dopo anni seppi che il povero James Ellroy, il grande scrittore di noir metropolitani, vide dal vero una scena del genere, anche se l’assassino era in borghese e mi sa che la mamma gliela violentò pure davanti agli occhi prima di ucciderla. Comunque a dieci anni avevo visto un esempio di quanto potesse essere terribile il mondo dei grandi, altro che le zuccherose lagnosità di Stand By Me.
Poi arrivò la scena della suora (altra figura agghiacciante) e poco prima quella del soffuso amoreggiamento dei due giovani che a noi piccoli spettatori suscitò una strana irrequietezza in mezzo alle gambe. Vedere quei corpi fustigati dalla pinguina repressa e il sangue schizzare dalle gambe nerborute di lui o il seno di lei ci insegnò in un colpo solo tutto quello che dovevamo sapere sulla Chiesa Cattolica. Ma la cosa più spaventosa di quei primi venti minuti non furono il criminale o la monaca. Il demone con cui feci i conti nelle notti successive fu il vecchio nonno.Vederlo animarsi improvvisamente e parlare (con la voce del doppiatore del nonno dei Simpson) e dire che Babbo Natale ammazza i bambini cattivi fu la vera e unica bordata dolorosa e terrorizzante e sapete perché? Ecco, il vecchio scemo non aggiungeva cose nuove: violenza metropolitana, sesso, sado-masochismo, ma colpiva il piccolo nido di illusioni delle notti di Natale. Immaginare il vecchio barbone con armi da taglio fare a pezzi i bambini cattivi e lasciarli appesi nel camino come regali per i genitori che li avevano educati male fu la cosa che bruciò via ogni residuo della mia infanzia candida e spaventosa allo stesso tempo. Ricordo che a otto anni, la notte di vigilia non riuscii a dormire perché appena chiudevo gli occhi mi sembrava di sentire il vecchio babbo natale arrivare nella mia stanza e per un momento credetti addirittura di vederlo, con la sua barba grigia e gli occhi bianchi da cadavere, fissarmi da sopra il letto. Insomma, il suggerimento di quel massacratore del polo nord colpì dove faceva già male. Se avessi visto Halloween probabilmente ne sarei uscito meno malconcio. Ma a dieci anni uno dovrebbe chiudere i conti con la vecchia leggenda di Natale e capire che al mondo solo i tuoi genitori, che ti vogliono bene, si prenderanno la briga di farti un regalo, aspettare che tu dorma per metterlo sotto l’albero o vicino al tuo letto. Non c’è nessun benefattore che arriva con le renne e se ne incontri uno potrebbe essere un assassino che uccide davanti a te, le uniche persone che ti vogliono davvero bene. Ed ecco quindi l’altro insegnamento fondamentale: papà e mamma non possono difenderti da tutti gli orrori del mondo (e il bosco nero potrebbe essere la tua salvezza, non il posto peggiore del mondo in cui correre). E di solito i nonni sono esseri spaventosi e pazzi con cui non bisognerebbe passare troppo tempo. Sì, so che voi avete avuto dei nonni meravigliosi e vi mancano tanto, ma se devo parlare della mia esperienza così non fu. Passai l’infanzia con due nonne, una sorda e con la testa danneggiata per via degli elettroshock ricevuti anni prima che nascesse mia madre e l’altra, la bisnonna, così vecchia e rude che se avessi passato i miei primi anni con Hulk Hogan ubriaco probabilmente non avrei ricevuto così tanti insulti. Per me quel nonno era attendibilissimo, credetemi.
Il resto del film, se volete sapere che altro succede, parla di ciò che capita a quel bambino una volta cresciuto. Dopo che il nonno gli ha distrutto il mito di babbo natale, dopo che quel maniaco travestito gli ha ucciso i genitori e dopo che la suora nazista gli ha mostrato che il sesso è sbagliato e va punito a sangue, lui, giovanottone dal fisico prorompente e la testa malata, sembra essersi integrato per bene. Lavora come commesso ai grandi magazzini e tutto scorre liscio, fino a quando non arrivano le feste e il capo-reparto ha la pensata di mascherarlo da babbo natale e fargli fare le foto con i bambini. Da lì il ragazzone fa tilt e a causa di un incidente: le molestie del capo-reparto alla collega carina su cui anche lui ha messo gli occhi (scena che in un colpo solo gli riporta alla mente la morte della madre e la suora fustigatrice), con il costume da santa ancora addosso e siccome siamo nelle vicinanze del reparto ferramenta, il protagonista afferra un’ascia e inizia la via crucis di mutilazioni che porta fino al vecchio orfanotrofio dove è vissuto e dove la suora ancora vive e fustiga.
Ci credereste però? Non è la sequela di omicidi in stile slasher a sconvolgermi perché l’inizio del film aveva già distrutto tutto quanto. Sì, la scena con i seni spappolati dalle corna di un cervo appese al camino è forte e anche lì fu un misto di eccitazione sessuale e repulsione e spavento, ma se posso fare una critica al film, dopo quell’inizio dirompente e traumatizzante si riduce tutto a un bodycount stucchevole che trascina la storia fino a una conclusione floscia e prevedibile, che comunque non rivelerò. La cosa peggiore di tutte non era tanto vedere un film del genere e alzarsi dal divano trasformati. Insomma, un bambino di dieci anni non torna a casa tranquillo dopo che ha visto una cosa che gli ha raccontato un mondo tanto diverso, ma attendibile. Il peggio era non potersi confrontare con gli altri ragazzini. Tutti facevamo finta di non avere paura, di non essere rimasti sconvolti da quelle scene. Al massimo dicevamo “fico”, oppure “che cacata”, ma nessuno di noi piagnucolava o esternava i dubbi su quanto aveva visto. Ci tenevamo tutto dentro e ce lo portavamo a letto. Quella notte rividi il seno della madre del protagonista, nella notte fredda, ventosa, con la gelida lama di un coltello a scatto pronto a colpire. Pensai a mia madre e al suo di seno e anche a mio padre morto e impotente sul sedile della macchina. Provai un senso di tristezza e solitudine siderali. Non erano perché il giorno dopo c’era scuola e io non ci volevo andare o per via del buio, istintiva, mentre finivo in balia delle visioni distorte di orrori a cui non sapevo dare una collocazione nel mondo reale, tipo ombre di sagome minacciose. No, pensavo al mondo fuori e a quanto fossimo in pericolo, tutti quanti. La cosa non mi spaventava, mi deprimeva. Fu la mia prima notte da adulto, quella.