Primo seguito apocrifo della saga di Sam Raimi a opera di due simpatici artigiani truffaldini, Umberto Lenzi e Joe D’Amato che per sfruttare l’onda del successo del secondo Evil Dead, decidono di distribuire il film in Italia cambiando il titolo Ghosthouse in La Casa 3. Lenzi firma la regia e il soggetto con lo pseudonimo Humprey Humbert e D’Amato la produzione. Inutile dire che non c’è il minimo legame con il cottage invaso dai demoni candariani e che il film è piuttosto una classica storia di spettri all’italiana con i bambolotti demoniaci, nenie infantili, gatti morti ammazzati, bambine spettrali vestite di bianco, brutali omicidi all’arma bianca e colonna sonora chiassosa e incalzante. L’unico film di successo americano che D’Amato e Lenzi prendono in considerazione è The Witch Superstition di James Robertson, uscito in Italia con il titolo La Casa di Mary, un piccolo cult che in fondo è un minestrone di idee Baviane e Argentiane e quindi in un certo senso non possiamo neanche parlare di scopiazzatura ma di un rimborso morale da parte di due volponi. La trama parte da uno spunto neanche tanto malvagio, un radioamatore e studente di informatica, Paul (interpretato da Greg Scott) capta voci di gente terrorizzata che implora pietà e lancia urla laceranti. Temendo si tratti di un omicidio decide di rintracciare il luogo da cui proviene la trasmissione misteriosa.
Lui e la sua ragazza Martha (Lara Wendel) iniziano una ricerca che li condurrà a una casa abbandonata nel bosco. Nei pressi vi trovano alcuni ragazzi in villeggiatura con un camper, le cui voci sembrano le stesse della frequenza misteriosa. Anche la rivelazione finale, che qui non svelo per ovvi motivi, è piuttosto intrigante, d’effetto e molto vicina al timore superstizioso che abbiamo noi italiani per i morti, peccato però che nel mezzo vi siano buchi di sceneggiatura incolmabili anche per il più generoso degli spettatori e tutta una serie di ingredienti commerciali buttati lì alla rinfusa come il villano scemo e violento che sa ma non dice e si aggira intorno alla casa vestito più da redneck che da contadino del New England; un dobermann (cane piuttosto demonizzato dal cinema degli anni ’80) che spunta dal nulla senza una spiegazione logica o paranormale che sia; e poi una vasca piena di acido; le bottiglie che si gonfiano fino a scoppiare; il sangue che esce dai rubinetti; una testa che gira nella lavatrice e altri ingredienti da baraccone.
Per non parlare dell’incoerenza dei personaggi che nonostante gli omicidi e i fenomeni incontrollabili insistono a non voler chiamare la polizia o a squagliarsela e preferiscono dirigersi in bocca al pericolo, possibilmente da soli. Paul, esperto di computer decide con grande disinvoltura di abbracciare la parapsicologia e diventa un esperto di case infestate e possessioni; una delle ragazze visto che non c’è acqua nel camper decide di andare a darsi una lavata nella casa infestata e abbandonata da 30 anni, proprio dove poche ore prima qualcosa le ha sterminato il ragazzo e quasi tutti i suoi amici. In più mettiamoci gli effetti speciali di pessima qualità, un doppiaggio sfasato che accentua, anziché lenire la triste recitazione degli attori, la somiglianza del pupazzo demoniaco con Davide Mengacci e l’apparizione finale della morte in persona con un grosso paio di forbici e un aspetto più vicino a Skeletor de “I Dominatori dell’Universo” rispetto alla classica rappresentazione medievale e Bergmaniana, insomma, il film nel suo insieme finisce per provocare più risate che spaventi. Bisogna comunque riconoscere a Lenzi un piglio narrativo ancora scaltro e sicuro di sé, il gusto di qualche inquadratura molto suggestiva e un finale di puro ritorno al gotico italiano: rivendicazione patriottica in un contesto slasher che nel 1988 aveva davvero stufato anche le lapidi dei cimiteri del Massachusetts.