A vedere la vecchia locandina del film in vhs, sembrerebbe uno di quegli horror con i bambini posseduti dal demonio o un thriller parapsicologico all’italiana con tanto di casa infestata. C’è questo bambino in primo piano, con gli occhi bianchi e una maschera da mostro sulla testa. Anche il titolo, Scarlatti, nome di uno dei più importanti musicisti italiani del barocco, è fuorviante perché suggerisce qualche affinità con il filone “diabolus in musica” in stile Paganini Horror del simpatico Luigi Cozzi. Insomma, per chi scrive, quelli elencati sono tutti validi motivi che giustificano il fatto di non averlo mai noleggiato, nonostante la piccola videoteca del mio paese non disponesse di più di una cinquantina di titoli horror e che in tempi di magra sia arrivato a portarmi a casa roba come Mostriciattoli, La Casa di Helen, Incubus e Troll 1, quello di John Carl Buechler. Quando però arrivavo a Scarlatti passavo sempre oltre, non mi decidevo a vederlo. Al di là della confezione poco riuscita a opera dei distributori italiani, non so bene cosa me lo suggerisse ma ero convinto che il film fosse noioso, unico difetto che non si può davvero perdonare a un horror. Dopo averlo visto ho capito tre cose: Scarlatti è un titolo fuorviante e non ci sono demoni di compositori del ‘600 che imperversano in antiche ville nella campagna del nord Italia o in Svizzera, il piccolo protagonista non è un indemoniato e sì il film è lentissimo ma la metterei in un altro modo: ha un respiro diverso da un horror tipico degli anni 80 made in U.S.A.; ben più grande, rispetto ai ritmi di una ciurma di scolari al sabato pomeriggio, qui si tratta di un dramma corale sul lutto e le difficoltà di gestirlo e della scrittura come metafora spettrale. LaLoggia inoltre se ne frega dei generi, vuole solo raccontare una storia e si prende il suo tempo, alla faccia delle regole dell’intrattenimento usa e getta.

Frank LaLoggia è un regista che non ha avuto una gran carriera, anche se questo inizio prometteva parecchio. Sembra averci bruciato tutto quello che aveva da dare alle fiamme. Il suo nome e lo spaccato di italianità in un contesto profondamente americano, con i due fratelli Scarlatti che sfrecciano in bicicletta creando scompiglio per il paese, i duetti divertenti tra i nonni, tutti in lingua italiana, vengono rappresentati in modo esuberante e coinvolto, come se il regista stesso stia raccontando della propria infanzia, della morte di un parente caro, della divorante ambizione artistica, la coltre protettiva della vita di paese, i bisticci continui in casa, la ricotta messa a mo’ di pecorino su chissà cosa, la trasmissione di musica italleana alla radio e ascoltata dalla famigghia in silenzio liturgico, tutto questo è un pezzo di storia dell’autore e gli spettri, l’horror sembrano un pretesto per parlare di queste cose, dei suoi fantasmi.

“Scarlatti” è un film pieno di metafore ed è raccontato in modo estremamente elegante e consapevole, con raccordi costanti tra gli oggetti, una resa quasi fiabesca, espressionista. Potrebbe essere l’unica via all’horror di Giuseppe Tornatore, se vogliamo, ma la parentela autoriale più spiccata il film ce l’ha verso il sottostimato “Amabili resti” di Peter Jackson che in un certo senso è il remake non voluto al film di LaLoggia. Anche quello è una storia che parla di perdita, del sottile legame tra vivi e morti e l’interazione spirituale veicolata dalle emozioni, con una visione euforica e leziosa dell’aldilà e il continuo andirivieni di luci e tenebre, follia e poesia, beatitudine e sofferenza delle anime dei morti, costrette a vagare in un limbo di solitudine e atroci ricordi, in attesa che qualcuno renda giustizia al delitto che li ha condannati a quello stato di terribile ed estenuante transizione.

In effetti, i primi minuti, con questo afflato nostalgico verso l’infanzia italiana del protagonista su uno sfondo profondamente americano (la festa di Halloween), alla Stephen King, con la scena del bambino (il piccolo Lukas Haas, le indimenticabili orecchie a sventola di Witness) in cui legge una storia di mostri al resto della classe, dimostrando già quel talento preannunciato all’inizio (Stand By Me), con lo scrittore adulto, affermato, che torna al paese ma prima di raggiungerlo chiede al tassista di fare sosta in un piccolo cimitero e rendere omaggio a due tombe dimenticate.

Tutto questo è accompagnato da una colonna sonora, composta dallo stesso LaLoggia, che è chiassosa e a tratti indigeribile: tra campane, ottoni, violini, arpeggi elettronici, i cori di suore erogene alla Sister Act e un tocco di ironia generale che dispongono a una specie di E.T., in salsa horror, con l’amicizia tra un fantasma e il bambino, ma LaLoggia così facendo non ci sta preparando all’orrore crudo che vuole raccontarci, ci mette a sedere, dandoci una pacca sulla spalla, offrendoci dei graziosi dolcetti tradizionali della sua terra d’origine, abbassa la nostra guardia di spettatori smaliziati e ci travolge con una storia di pedofilia e omicidi seriali quando meno ce l’aspettiamo. La bambina fantasma che appare nello sgabuzzino in cui il piccolo Scarlatti viene intrappolato dai suoi compagni di classe, è strangolata da mani invisibili, in un rivoltamento curioso in cui il fantasma si vede e il vivo che la sta uccidendo no. La ragazzina che si torce e grida mammaaaa sprecando l’ultima scorta di ossigeno prima di cedere alla furia del maniaco è mostrata in modo pornografico, senza stacchi o ellissi, tutto fino in fondo, giù come una medicina amara ma necessaria che ci tramortisce e disgusta. A quel punto capiamo di non poterci fidare di Frank LaLoggia e la sua colonna sonora stile film natalizio tedesco.

Il problema di Scarlatti è lo stesso di Scuola di Mostri: un film ibrido, mascherato da film per famiglie si rivela troppo duro ma non lo è abbastanza per un pubblico adulto in cerca di forti emozioni. O meglio, ne offre fino a commuovere ma non è Halloween o Nightmare. Il film di LaLoggia potrebbe essere la versione tragica e sentimentale di quello di Dekker. I pupazzetti di Frankenstein, Dracula, l’uomo lupo e la mummia, vicini alla finestra aperta sulla notte, con la tenda svolazzante e la luce lunare che li trasforma in ombre minacciose , mentre la voce della bambina fantasma inizia a cantare lontano, conferma il parallelo tra i due lavori. Anche la piccola ruota che gira sul comodino del ragazzino è il passaggio narrativo per la pala a vento che ruota sopra la casa sfuggita da tutto il paese in cui la pazzia mormora nelle stanze vuote e scruta i bambini da dietro una finestra sporca. Scarlatti usa il lessico delle storie per bambini: è un film pieno di oggetti misteriosi (vecchi bauli, anelli, spille, coniglietti di coccio) e animali birichini, (topi, cuccioli di alligatore), ma racconta della perdita di una persona cara e la follia che ne può scaturire, della morte dell’innocenza e della brutalità del mondo adulto. Lo fa in modo a tratti crudissimo, alla Scorsese, (l’omicidio del nero) e a tratti, per come viene gestita tutta la parte degli spettri, si potrebbe parlare quasi di fantasy, soprattutto in riferimento alla planata finale della Lady In White, che accorre a far giustizia del cattivo nelle ultime scene.

Scoprire l’assassino non è per niente facile. LaLoggia anche qui ci inganna riempiendoci gli occhi e le orecchie di sentimentalismo proprio nell’unica scena che potrebbe suggerirci qualcosa, quella del toccante dialogo tra il papà di Scarlatti (Alex Rocco – il Moe Green di Il Padrino) e il suo fratello adottivo. Il passo sornione, a tratti snervante, aumenta la nostra vulnerabilità ai colpi di scena. Potremmo parlare di uno stile mafioso, mellifluo, falso, caciarone del regista, che ci distrae mentre sta portandoci in bocca al maniaco.