Vampiri amanti (Roy Ward Baker, 1968)

“Tu non vorresti che qualche bel giovanotto entrasse nella tua vita?”

“No, e nemmeno tu, spero!”

Inizio niente male. Il vampiro avvolto in bianche lenzuola che si erge dalla tomba mentre tutto il fumo da concerto rock lo avvolge e gli sbuffa d’attorno, davvero molto impressionante. Quasi quanto la capigliatura del cacciatore di vampiri che scruta la creatura delle tenebre da una delle finestre del vecchio castello. Ed ecco Peter Cushing, che in questo film non è esperto e determinato impalatore e tanto meno un infido cattivo ostinato e irritante, è solo un confuso padre che si vede succhiar via la vita della sola, adorata figlia da sotto l’adunco naso. Non c’è niente di più languido del suo pensoso smarrimento, in aggiunta alle rughe, gli scavi cospicui che il tempo ha praticato sul suo viso nel giro di una quindicina d’anni fatti di paletti nel cuore, esperimenti scientifici con cose morte e il male incurabile di una moglie adorata.

Oltre a lui c’è un altro volto noto della scuderia Hammer, Ingrid Pitt, la Contessa Bathory di La morte va a braccetto con le vergini. È lei che si occupa di impersonare una delle più sensuali e puttanesche vampire della storia del fantastico letterario: Mircalla o Carmilla o Marcilla o come riusciate a cavarvela durante una partita a Scarabeo. Esatto perché tutte queste ridicole varianti che sembrano concepite più per sfuggire ai diritti d’autore dello spettro di Le Fanu, in realtà sono confermate dall’imprescindibile romanzo dello scrittore irlandese, che come tutti sanno (e forse anche voi) è la maggior fonte d’ispirazione per il Dracula di Stoker. La vampira nella storia originale può vivere in eterno e spacciarsi per qualcun altro al fine di sfuggire ai paletti, le sciabole e agguantare più colli possibile ma dovrà usare sempre lo stesso nome, anagrammandolo quanto voglia ma senza cambiare una lettera.

Dicevamo di Ingrid Pitt… è bella, è porca e malevola ma un po’ vecchiotta per essere una credibile, eterna ragazza, è più una milf, anche se in tutti e tre i film che ruotano attorno alla schiatta dei Karnstein di certo è la più brava e incisiva (scusate il gioco di parole odontoiatrico). Se c’è una cosa che adoro dei film in costume è la variante temporale che si evince dalle pettinature. In pratica qui siamo alla fine degli anni 60 e tutte le graziose e diafane donzelle hanno tagli stile Piper davvero niente male.

La cosa che preferisco in assoluto è però la straordinaria vestaglia orientale color verde scuro di Cushing. Confesso che il suo ingresso in scena mentre si stringe attorno al bacino con eleganza ballerina la veste è così suadente da distrarmi e costringermi poi a riavvolgere di qualche secondo il film per non perdere qualche significativo particolare della messa in scena. Quello che stupisce nel romanzo, ovvero il lesbismo della vampira trova nelle grinfie della Hammer e nel suo bravo regista Roy Ward Baker la perfetta cassa di risonanza.

È tempo infatti per la casa di produzione inglese di aggiungere carne e sangue se si vuole continuare ad attrarre gente in sala. Il testo di Le Fanu è una nobilissima fonte per inaugurare un ciclo più zozzone e sensazionalistico ma che non perda in eleganza formale e atmosfera. Tanto più che la trama del film è fedele a quella letteraria quasi a voler scaricare la colpa di tante oscenità direttamente su uno che non c’è più e che non ha nemmeno preso un soldo per questa trasposizione cinematografica non autorizzata.

Ah, la Hammer… Il castello grigio che da sullo strapiombo, le foglie che volano sul balcone di notte, mentre la telecamera aggredisce la ringhiera con la foga di un grosso gatto (lo stesso che la protagonista vede tutte le notti entrare nella sua stanza) i cavalieri che attraversano il bosco cupo e spento dove la famiglia Karstein da troppo tempo aggredisce poveri viandanti e se ne ciba… è lo stesso bosco extra-diegetico dove anche Dracula, la creatura di Frankenstein, la Gorgone e i pirati contrabbandieri e spettrosi del Capitano Clegg si sono accapigliati: i crocicchi, tutto è sempre al suo posto, sempre così famigliare, come lo sono i costumi e i sentieri, la taverna e le lussuose abitazioni e persino le carrozze. La Hammer sfrutta il suo mondo filmico che è sempre la stessa microtopografia da fiaba nera che ci rassicura, ci consola e ci fa sentire a casa, al sicuro dentro i nostri incubi.

Non che ci sia tutto ‘sto porcellame da vedere: abbiamo un paio di tette, anzi due paia, un nudo integrale ma in ombra, qualche lieve carezza, baci sul collo accennati appena e sguardi ardimentosi e affamati che affondano dentro occhi scombussolati e terrorizzati che di certo non te la daranno tanto presto. Però bisogna tenere presente che parlare di lesbiche, anche se in vesti e vestali fantasiose, con denti appuntiti e veli funebri era sempre una roba troppo sconcia per quegli anni. Un solo film aveva affrontato in modo esplicito questa tendenza sessuale, ancora più censurata dell’omosessualità: L’assassinio di Sister Goerge, gran bel capolavoro di Robert Aldrich mutilato senza pietà alcuna dalla censura di allora. Insomma, non era semplice riuscire a cavarsela con un soggetto del genere ma la Hammer se la cavò proprio appellandosi al fatto che anche nel romanzo avvenivano quelle cose.

 La Pitt è splendida ma c’è qualcosa che non torna nell’interpretazione. A tratti sembra infatti quasi triste e intorpidita e non è quasi mai civetta quanto la Carmilla del romanzo (ma forse questo ve l’ho già detto). Harvey Hall è il solo attore presente in tutti e tre gli episodi e fa usualmente una parte da idiota e una fine orribile. Anche Pippa Steel, (nome meraviglioso che è una combinazione incredibile tra due mie grandi passioni, l’onanismo e l’heavy metal classico), è presente in due film della trilogia, questo e il successivo Mircalla, l’amante immortale, di cui parleremo presto, anche se non sarà molto piacevole.

Alle musiche c’è Harry Robertson, autore fidato di molti altri film della Hammer e pure di La Rossa Maschera del terrore, recensito qui. Tudor Gates è lo sceneggiatore di tutti e tre i film. Bellissima la decomposizione del vampiro che non avviene nella tomba ma sul quadro in cui è ritratto. Tipo Dorian Grey. E ci sono un paio di decollamenti davvero niente male, fidatevi.