La maschera di Frankenstein

“Semplicemente, per contratto,mi restava da dirigere ancora un film per la Hammer, La maledizione di Frankenstein” Terence Fisher

Che poi i distributori italiani optarono per intitolare “The Curse of” come “La maschera di” e “La maledizione di” invece lo usarono per uno dei capitoli successivi della saga Hammer del barone necroidealista. La cosa genera confusione da quel dì, ma pazienza. Per chiarire, il film di cui parliamo oggi, miei piccoli zombi, è il primo vero esperimento horror della casa di produzione inglese, quello il cui clamoroso successo aprì l’irripetibile stagione dei mostri classici degli anni ’60, riesumati letteralmente in terra albionica e riletti da nuovi istrioni del terrore quali Christopher Lee, Peter Cushing e Terence Fisher.

La versione di Frankenstein della Hammer rispetto a quella della Universal è meno iconizzata (si potrà dire iconizzata?). Karloff rimane la creatura più celebre e lampante nell’immaginario carnascialesco condiviso. Al contrario, il Dracula dell’attore inglese Lee spazzò via la versione senza canini di Bela Lugosi/Browning. In entrambi i casi, le creature si vedono poco e parlano ancora meno. Lee ha un monologo di quaranta secondi nel primo Dracula, il vampiro (1958) e si vede una decina di minuti in tutto il film. Nel seguito Dracula, il principe delle tenebre (1966) appare qualche sequenza in più ma è completamente muto. La creatura, lo zombie pasticciato di Frankenstein di contro muggisce e si lamenta parecchio ma in un minutaggio che non sfora il quarto d’ora e suscitando più compassione che paura.

Rispetto alla versione di Whale, infatti il vero mostro su cui Fisher dirige tutta la nostra attenzione è Victor, il creatore, lo scienziato tignoso che non si accontenta di aver ridato la vita a un cagnolino morto, ma che vorrebbe comporre, selezionando le parti più pregiate di vari cadaveri, un corpo nuovo, per un prototipo umano vergine, perfetto, depredato alla putredine, rinato dal nulla.

L’amico, ex-maestro e poi declassato ad assistente Paul Krempe (Robert Urquhart), si distacca presto dalle intenzioni apocalittiche dello scienziato e finisce per impedirgli fisicamente di andare in fondo a una simile scempiaggine, ma (come uno sberleffo del troppo sottovalutato sceneggiatore Sangster), diventa lui il vero responsabile dei limiti evidenti della creatura. Il buono della situazione guasta il cervello prima che Victor possa introdurlo nel cranio del suo campione di carne. In seguito gli gli sparerà persino un colpo di fucile per annientarlo.

Di sicuro la sceneggiatura non è impeccabile. Ci sono diverse incongruenze, tipo la decisione del barone di procurarsi un cervello spiaccicando il cranio di un luminare giù da un ballatoio e rischiando così di raccogliere una frittata inutilizzabile… non era più prudente un veleno? Poi non si capisce come mai dopo la prima rianimazione del mostro, complicata e quasi vanificata dall’assenza di Paul al macchinario e poi avvenuta per intervento divino (un fulmine), la seconda volta il barone ci riesca da solo e senza grandi difficoltà. Però ci sono momenti di prosa meravigliosa e un ritmo davvero inarrestabile. Su tutto, come saggio di scrittura felice, rimane impresso il discorso del professore emerito, pochi minuti prima che il barone lo spinga giù dal ballatoio fingendo un incidente. Il vecchio luminare parla di come gli scienziati perdano presto interesse nelle proprie scoperte e le abbandonino all’umanità troppo impreparata per usarle come si deve, mentre loro, gli scienziati, si rituffano nella pece dell’ignoranza, smaniosi di scoprire nuove robe che poi abbandoneranno in una catena di macelli e insoddisfazione. Il barone lo guarda torvo perché l’anziano prof. sta parlando proprio di lui.

Da notare come la Hammer non usi i pupazzi (baffi finti sì, capelli cosparsi di farina pure). Per le cadute c’è invece il povero Jock Easton, unico, bravissimo stunt che sostituisce Lee in tutte le scene più pericolose, inclusa quella in cui Frankenstein e l’assistente fanno cadere il corpo di un assassino giustiziato e lasciato appeso a una forca (il telaio per il nuovo esperimento), quattro metri più giù, direttamente dentro un carro. Ahio!

Che poi Lee se la vide brutta in quello che ancora oggi viene ricordato come l’incidente di Kensington Gore. Durante la scena in cui Paul spara al mostro, Lee avrebbe dovuto portarsi al viso la sacca di sangue finto e spiaccicarsela contro la guancia o sulla fronte per simulare il proiettile che si conficca nella faccia. L’attore sbagliò la direzione e se la spappolò sull’occhio. La salsa Kensongton era abbastanza acida e quando il mostro nella sequenza si mette una mano sul bulbo colpito dal proiettile (in uno dei primi momenti splat della storia del cinema) il gemito di sorpresa e paura dell’attore è autentico.

Lee credette davvero di aver perso l’occhio, di certo quella roba faceva un male cane. Il poveretto ebbe una crisi pensando di averne perso l’uso. Solo dopo molti lavaggi scoprì che non era successo niente di irreparabile.

Per Chsritopher Lee questo genere di isteria era frequente durante la realizzazione de La Maschera. Tutti gli attori ricordano con piacere le settimane sul set, e Lee era il più entusiasta, quella parte era la più importante che avesse mai avuto in tutta la sua breve e difficoltosa vita d’attore. Era troppo alto per ottenere qualche ruolo decente. Il più delle volte doveva accontentarsi di cose secondari, insulse. Poi capitò l’occasione di fare questo ammasso di pezzi di carne e sebbene un attore meno bravo e ambizioso avrebbe potuto prendere il ruolo sottogamba, lui ci mise tutto se stesso, studiando bene cosa aveva fatto Karloff nella stessa parte anni prima e trasmettendo così tanta fragilità alla creatura che nonostante la sua evidente brutalità, lo spettatore tende a nutrire una profonda comprensione, specie dopo che Victor gli rapa via mezzo cranio per degli interventi lobotomizzanti che mirano a rendere l’essere più mansueto.

Incatenato a terra, con quel pastrano alla Max Schreck e l’aria da deportato appena abbandonato in un angolo dopo un trattamento particolarmente volenteroso del dottor Mengele, Lee tocca il cuore degli spettatori, rilanciando in coppa a Cushing le morti, la paura, la cattiveria di un film tra i più crudeli della storia del cinema.

Il barone è il vero protagonista, lui e il suo superomismo volto alla creazione di esseri perfetti, il cinismo, la spregiudicatezza stereotipata dello scienziato che metabolizza in pochi secondi l’essere riuscito a sfangare il peggior tabù della storia umana e passa subito alla messa in opera di un nuovo arianesimo ante. E Paul che vorrebbe usare la scoperta sulle vite umane in pericolo, divulgarla al mondo, mentre Victor non ne vuol sapere e insiste con le sue visioni anatomocreative.

I piani del barone (forse l’interpretazione migliore di Cushing) vanno talmente oltre da spazzar via il povero cerebro dello scienziato buono e razionale (Paul), che in fondo cova un senso di ammirazione, certo ma in tale abbondanza da superare i limiti accettabili dello spirito e incancrenirsi in un sentimento di invidia e odio. Victor è detestabile non per la sua cattiveria e aridità. Non solo. Lui è molto ricco, brillante come nessun altro, geniale… ha anche una sposa promessa davvero bella e ottusa Elizabeth (Hazel Court) che lui si limita a mettere in un angolo e surgelare per le nozze e nel mentre concedersi le sue brave scappatelle con la cameriera sensuale e avida, Justine (Valerie Gaunt, la stessa puttanona che in Dracula il vampiro farà la succhiasangue rinchiusa nel castello con Harker) .

Soprattutto Victor ha il coraggio (le palle) e la sfrontatezza dei veri grandi uomini: supera gli affetti, la morale, il miraggio dissuadente delle conseguenze e fa sentire tutti come tanti piccini ignobili attaccati alla sottana del Padreterno, che giudicano e desiderano bloccare l’uomo in grado di renderli finalmente dei immortali, liberi dall’opprimente loro eterno creatore.

Il film si conclude con il barone che viene accompagnato alla forca. Sappiamo che non accadrà. Ci saranno molti seguiti di Frankenstein, una vera saga, dove il barone apparirà ogni volta più appannato e malsano ma sempre determinato nei suoi intenti lazzaronistici.