L’angelo sterminatore

“Questo ho sempre odiato nella vita, la maleducazione, la violenza, la sporcizia e adesso sono nostre compagne inseparabili. È preferibile la morte a questa abbietta promiscuità”

La cosa che mi sento rivolgere, quando qualcuno viene a sapere che sono un grande fan di film dell’orrore è “dimmene uno che ti ha fatto davvero paura” Di solito rispondo La casa delle finestre che ridono o magari Suspiria, ma solo perché dopo tanti anni ho la risposta pronta.

Le prime volte non era semplice decidere, e non perché ci siano tanti film horror che mettono paura ma il contrario: ce ne sono pochi. Pochissimi e siccome la paura è un sentimento molto personale e variabile, viene da sé che un titolo da farmi cagare nelle mutande potrebbe essere un’insopportabile rottura di coglioni per chi sta leggendo. Ci sono film che in linea generale spaventano parecchio e altri che magari suscitano un vero terror panico nonostante le reali intenzioni di chi li ha fatti: Sposerò Simon Le Bon, nel mio caso.

Però ribadisco: dei 1000 titoli horror che ho in casa saranno tre quelli che non riuscirei a vedere di notte, in casa da solo, mentre fuori piove quasi con odio ultraterreno.

Mi si obbietterà che il cinema horror deve, come dice la definizione stessa, inorridire, disgustare e non mettere paura, ma in fondo è quello che la maggior parte delle persone cerca quando va al cinema a vederne uno: spaventarsi. Ed è quello che i registi tentano di fare, almeno in parte. Vero, ci sono le frattaglie, la violenza bruta, la sordidezza di certe situazioni, la perversità, ma anche il benedetto corridoio infinito da percorrere al buio mentre un sommesso rantolio di violini accompagna la ragazza nuda e indifesa che ha sentito un rumore vuole consumare il suo sacrosanto orgasmo di nervi.

C’è anche da dire che dopo tanti anni di film horror lo spettatore diventa smaliziato e certe situazioni le conosce talmente bene da non subire più alcun contraccolpo. Per quanto il buh!, possa fare effetto smuovendo il culo di qualche centimetro sulla sedia, è una cosa che dura molto poco, piccoli spasmi involuti, mentre il ritorno a casa, parcheggiando la macchina nel garage, attraversando il cortile buio e salendo le tre rampe di scale del palazzo in cui si vive, di solito non sono mai tanto difficili da affrontare, a meno che il film non sia riuscito a insinuare nella mente dello spettatore “orrorofilo” qualche elemento inaspettato che gli si ripropone nella mente con la stessa insistenza di una peperonata all’esofago.

Tutto questo preambolo per dire che la rubrica di film horror che terrò personalmente e in modo saltuario sul blog, non si occuperà di film “horror tout court”, intesi come l’espressione di un genere con i suoi stereotipi, luoghi comuni, sequel, logiche industriali eccetera, ma di quei titoli che spaventano sul serio, rendono difficile il sonno e l’attraversamento della casa per raggiungere il bagno, alle 3 di notte.

Tornando alla domanda dell’inizio, “qual è il film che ti ha davvero spaventato, il più pauroso che tu abbia mai visto” non è un caso che di certo risponderei The Ring (quello giappo, ovviamente) ma anche In cerca di Mr Goodbar, La morte corre sul fiume, il biopic su Ligabue (il pittore, il pittore), L’ora del lupo di Bergman o I Vitelloni di Fellini. Lo farei se non dovessi poi trascorrere un’ora a “spiegare” che l’horror, proprio per la sua dichiarata intenzione di farci paura (e suscitare tutta una serie di altre emozioni sgradevolmente piacevoli) perde quasi sempre in partenza e non perché si misuri con un pubblico avvezzo allo spavento, che ne ha viste davvero tante e si è desensibilizzato (i pornofili hanno il pene già dritto ai titoli di testa) ma per via del fatto che lo spettatore soprattutto si aspetta ‘sto benedetto spavento.

Il cinema che fa paura non dovete cercarlo nell’ultimo slasher sfavato di Wes Craven o nella filmografia sterminata di H.G. Lewis (non solo). Spesso i veri film del terrore si trovano nei posti più impensati, quelli che nella scheda di presentazione vengono definiti drammatici o addirittura commedie. È lì che si nasconde l’orrore inteso come percussione annichilente dell’anima e non tanto nell’accezione emetico-biliare.

Di conseguenza troverete poco horror in questa rubrica. Del resto è così pieno il mondo internettaro di blog che recensiscono questo genere, che sarebbe poco stimolante cimentarvisi pure qui. Quante cacchio di volte volete leggerla una rece sul remake di Evil Dead? Scopriamo invece quali sono i film che davvero fanno paura.

Lo scetticismo di Luis Buñuel si esprime contro tutti quelli che hanno un ruolo sociale troppo preciso, tutti quelli che sono animati da una convinzione qualunque. Come gli scrittori del Settecento lui ci da lezioni di dubbio. (François Truffaut)

L’Angelo Sterminatore di Luis Buñuel potrebbe essere uno di essi. Per quanto mi riguarda non è una delle vette toccate dal regista nella sua lunga carriera, ma è uno dei suoi rari momenti in cui la ferocia perculatrice nei confronti della borghesia e il cattolicesimo si arricchisce di un serpeggiante afflato terrorifico.

La storia è infatti uno dei peggiori viaggi surrealistici mai ideati e rappresentati. Luis Buñuel è celebre per la scena dell’occhio tagliato dal rasoio (senza stacchi) nel cortometraggio Un Chien Andalou (fatto in coppia con Salvador Dalì) e tutto il suo cinema (se escludiamo la parentesi alimentare messicana) è un continuo attacco profondamente moralistico alla morale imperante del mondo occidentale.

Molti dei suoi film furono censurati, osteggiati e interpretati nel peggior modo possibile ma ciò che gli spettatori si trovarono a gestire, al ritorno dal cinema, dopo aver visto L’angelo sterminatore non fu il consueto senso di vergogna, repulsione, disgusto per una visione della realtà sardonica, crudele e piena di stimoli, ma lo stress di aver partecipato a un incubo collettivo.

E come per Gli Uccelli di Hitchcock vale la stessa regola del non spiegare le cause di quello che succede. In uno splendido palazzo borghese, i camerieri, i cuochi, tutto il personale se ne va. Lo fa accennando poco o nulla alle cause e rimediando un licenziamento. L’unico a rimanere è il maggiordomo, scandalizzato dal comportamento generale dei colleghi servitori. Proprio la sera che i signori hanno venti invitati a cena tutti se la battono?

E nonostante le lagnanze della padrona, le minacce nessuno può esimersi dal fermarli. Perché avviene ‘sta roba, ci si chiede? Cosa sanno i camerieri che i padroni e il maggiordomo non immaginano avverrà nel palazzo? Sta per esserci una retata di qualche esercito dittatoriale? Una sommossa popolare con le falci e i martelli? Non si sa. Ma tutti se ne vanno in fretta, dopo aver ultimato i preparativi per la cena, il cibo, la tavola apparecchiata e dopo aver servito le portate principali.

Succedono altre cose strane: una delle eleganti invitate alla cena ha due zampe di gallina nella borsetta. Un’altra prende un posacenere e senza un motivo plausibile lo scaraventa addosso alla finestra frantumandone un vetro. Un cameriere inciampa clamorosamente mandando all’aria la prima portata della cena. Oltre a questi elementi inspiegabili ci sono le solite cose fini e maligne che Luis Buñuel e lo sceneggiatore Luis Alcoriza tratteggiano in poche battute e movimenti dei venti invitati, i quali nel salotto si appartano, si scrutano, si complimentano e si pugnalano a vicenda.

Sappiamo subito che la padrona ha una tresca con un colonnello e che suo marito, con molta probabilità lo sa ma tollera, così preso dal buon decoro, l’etichetta, le moine e gli oneri dell’ospite di casa.

Scopriamo che una bellissima donna definita sottovoce “La Valchiria” è vergine. Che un direttore d’orchestra anziano ha un instancabile appetito sessuale che sfoga sulla giovane moglie e lei ne parla come se fosse un problema di dolori reumatici ricorrenti.

In generale sentiamo che non è il consueto dramma satirico sulla borghesia ma qualcosa di più satiriaco, di panico. C’è un sottile senso di angoscia che cresce a mano a mano che gli elementi inspiegabili aumentano.

La notte prosegue con gli scambi di convenevoli, gli sguardi indagatori, seduttori fino a quando gli invitati non iniziano a levarsi la giacca, mettersi più comodi, con gran disappunto dei padroni di casa. È tardi e invece di andarsene, come molti di loro non fanno che ripetere, tutti continuano a ciondolare nel salotto, sdraiandosi, addormentandosi sui divani, fino a ridurre la stanza in un accampamento offensivo verso qualsiasi protocollo bon ton della bella società.

Il giorno dopo, al risveglio generale si capisce quale sia il problema. Nessuno degli invitati riesce ad andarsene da lì. Una forza gli impedisce di varcare la soglia della stanza e tornare a casa. Passa ancora un bel po’ prima che i protagonisti inizino ad ammettere a se stessi e agli altri di essere trattenuti lì dentro contro la propria volontà, di ritrovarsi in una sorta di trappola dimensionale. Loro e il maggiordomo.

I camerieri se ne vanno la sera prima anche se nemmeno loro sembrano conoscerne il motivo. Gli invitati restano in salotto senza ragione. C’è qualcosa o qualcuno che ha architettato tutto questo? Dio? L’angelo sterminatore del titolo? Non si sa. Per Luis Buñuel a quel punto è una festa. Sentiamo lo sfregolìo delle sue mani all’idea di poter massacrare quei pinguini impettiti e quelle dame fasulle e starnazzanti, chiuse in un ambiente sempre più stretto e asfissiante da cui è impossibile continuare a rispondere alle regole dell’educazione e dell’etichetta.

Il cibo scarseggia, un uomo piuttosto anziano e già in precaria salute peggiora sempre più fino a morire. L’acqua finisce e con essa le remore dei presenti a rispettarsi e aiutarsi a vicenda. Le signore ricevono spintoni, i maschi si insultano e accusano. La gente inizia a usare un ripostiglio come cesso e due amanti conosciutisi la sera prima, durante un garbato ballo del dopo cena, prima fornicano nello stesso stanzino e poi presi dalla disperazione ci si ammazzano.

In giro per casa si aggira un orso. I padroni l’hanno allontanato dal salotto perché non volevano importunare gli invitati ma il cucciolone è il loro animale domestico e presto, si capisce che non nutrirlo potrebbe trasformarlo in un bel pericolo. I lamenti dell’orso diventano i ruggiti di quell’entità terribile che ha voluto l’inferno per i venti invitati.

Poi le cose precipitano sempre di più. Il padrone di casa dispensa per intercessione del medico (ultimo baluardo di razionalità e tolleranza) pasticche di droga allucinante che lui, la moglie e qualche amico intimo usavano prendere in quella stessa stanza, denominata licenziosamente “il paradiso di Tebe”. Il ragazzo irrequieto svela la sua nevrastenia. Il direttore d’orchestra arrapone salta addosso alle donne durante la notte, mentre dormono. Gente si sfida a duello.

Qualcuno scopa dietro una tenda e qualcun altro ritiene sia il caso di vendicare quella mancanza di tatto con l’omicidio. Una delle signore tira fuori dalla borsetta le già citate zampe di gallina e improvvisa un rituale satanico che liberi tutti dall’incantesimo. Due degli invitati, massoni, si mettono in piedi davanti al limite invalicabile della stanza e urlano la “parola impronunciabile”.

C’è chi vaneggia promesse al demonio e chi propone un rosario collettivo. Ma se da una parte vedere una donna (che durante la prima parte del film ha mantenuto il suo comportamento decoroso e allo stesso tempo conforme in tutto) trasformarsi in una puzzolente che vaneggia di darla al diavolo, chiedendogli di sbrigarsi a venirla a prendere, se questo può farci sentire forte la risata cinica di Luis Buñuel, dall’altra nominare il diavolo mentre nel salotto è tutto buio e i corpi sdraiati in terra sembrano quelli di tanti cadaveri fa correre brividi lungo la schiena e subito dopo una porta che si apre e una mano (come quella de La Famiglia Addams e di Evil Dead 2) percorre il pavimento fino a raggiungere l’invocatrice satanica per strozzarla, ecco che questo mette a tappeto ogni resistenza al terrore puro. Sentiamo le dita lungo la schiena, la pressione sul collo,

Quando la mano esce strisciando in terra non è l’immagine in sé a spaventare (è abbastanza buffa a dire il vero) ma il profondo silenzio rotto solo da un ritmico ticchettio di orologio. C’è come un senso di sospensione tipico dell’incubo che invade in tutto e per tutto la realtà sempre più esasperata e ridicola e si ripensa al diavolo, che viene, chiamato sotto forma di mano e invece di prendere il corpo della sua adoratrice finisce per strangolarla. La donna si riprende dall’incubo a occhi aperti, capiamo che non era vero, ma ormai il nostro sistema nervoso è stravolto del tutto. Da lì un canto liturgico si leva e fa tanto messa funebre, aggiungendo un senso di ineluttabile tragedia molto simile a quello ne Il settimo sigillo di Bergman.

Quando alla fine Luis Buñuel sente di aver maltrattato abbastanza i suoi personaggi, che detesta, disprezza e non compiange, li lascia andare con una trovata da film di genere che non svelo. Ma non finisce qui, ovviamente. Come ogni buon horror che si rispetti…