Passi nella notte

William Castle era un regista geniale. No, non nel fare film ma in tutte le trovate curiose che si inventava per trascinare il pubblico in sala a vederli. Fu sua la trovata della polizza da 1.000 dollari sulla vita degli spettatori morti durante la proiezione di Macabre, un modesto noir girato in sei giorni. Le locandine avvertivano che il film era così spaventoso da risultare fatale ai deboli di cuore. Inutile dire che nei cinema ci fu il pienone e ovviamente non morì nessuno. Fu sempre lui a ideare tutta una serie di effetti “disturbanti” durante le proiezioni di altri suoi mediocri prodotti tipo The Tingler – Il mostro di sangue, 13 Spettri o La casa dei fantasmi. Poltrone vibranti, scosse elettriche sotto al sedere, lenti colorate distribuite all’ingresso in grado di permettere al pubblico di scorgere fantasmi che non si sarebbero visti a occhio nudo. Joe Dante si ispirò a lui per uno dei suoi film più riusciti e meno noti, Matinée (1993), dove il corpulento John Goodman rende assai bene il misto di cialtroneria, bonarietà e spregiudicatezza del grande Castle.

The Night Walker, uscito in Italia col titolo Passi nella notte (1964) da il via a un altro capitolo artistico del regista. Forte del coinvolgimento di Robert Bloch ( ormai famoso e rispettato scrittore, grazie al successo di Psycho) alla sceneggiatura, il regista iniziò tutta una serie di lavori più sperimentali e raffinati, in bilico tra psychotriller e horror, sempre nell’ambito della serie B, ma di quella buona, che col tempo migliora e si mantiene carica di spunti interessanti su cui ragionare.

Il film è un dramma onirico che si muove in maniera a tratti piuttosto convenzionale e in alcuni momenti con audacia, nello scivoloso territorio dell’onirico e del surreale.

La protagonista, Irene Trent (Barbara Stanwyck), signora attempata ma ancora molto sensuale, perde il ricco, cieco e gelosissimo marito Howard (Hayden Rorke) in uno strano incidente domestico. Non c’è stato amore tra i due e la scomparsa dell’uomo viene vissuta quasi con sollievo dalla donna. Peccato che la sua nuova vita da vedova si trasformi presto in un incubo costante fatto di spettri vendicativi, amanti diabolici, minacciose statue di cera e livelli di paranoia sempre più difficili da gestire.

Il marito di Irene, prima di morire comunica al suo avvocato di fiducia Barry Morland (Robert Taylor) i sospetti che sua moglie lo stia tradendo con un altro. L’ha registrata mentre mormora nel sonno uggiolanti suppliche a un amante misterioso e questo secondo l’uomo è un indizio fatale. Dopo la tragedia, Irene cade sempre più spesso in involontari sonnellini che si protraggono per ore e ore, al punto da confondere la veglia con le visioni in stato d’incoscienza. Il sonno è indiscutibilmente uno dei personaggi della storia. Ogni volta la possiede a tradimento, la domina, conducendola attraverso un amante sinistro in luoghi misteriosi, costringendola a presiedere sebbene stordita e spaventata al suo matrimonio in una cappella abbandonata. A poco a poco, grazie all’aiuto dell’avvocato di famiglia, lei scopre che non si tratta solo di sogni, ci sono elementi dannatamente reali che conducono a quel detective privato assoldato dal marito geloso, il quale ha un viso assai simile all’amante irraggiungibile delle notturne sedute orgasmiche di Irene.

Non svelo altro, per carità. Dico solo che a parte alcune dissolvenze pacchiane e una recitazione fin troppo teatrale degli attori, il film funziona bene e sorprende per carica visionaria, almeno fin quando non inizia a spiegare tutto, togliere le maschere e razionalizzare come in un qualsiasi episodi di Scooby Doo. Il continuo frapporsi del sogno alla realtà trasformano un lutto condito da senso di colpa galoppante in una tenebrosa discesa nella follia. Il matrimonio con le statue di cera, mentre una musica da un altoparlante gracchia un rintoccante passaggio d’organo e la voce di un prete riecheggia nella piccola cappella, con le ombre delle candele che condiscono di minaccie i volti impassibili dei manichini, è un gran pezzo di cinema del terrore. L’uso della colonna sonora è anch’esso piuttosto “moderno”. Non si tratta di uno score impalpabile e funzionale alle immagini, come nel più classico cinema d’intrattenimento americano. I due o tre motivi principali, interpretati ogni volta in modo differente, sono assai invadenti e ricordano molto lo stile italiano nel cinema di genere. Di contro, ai motivi squillanti e reiterati fino allo sfinimento e l’irritazione dello spettatore d’orecchio più sensibile, si notano anche i silenzi pesanti e inquieti, dove tra i dialoghi dei personaggi si sente giusto il sommesso rintoccare dei numerosi orologi appesi lungo la scalata principale della grande villa.

Se vi piacciono i vecchi film “de paura” allora prendetevi una confezione di salatini, una bottiglia di coca-cola e gustatevi questo piccolo e assai gustoso del William Castle più serio e oscuro.