Sei passi per l’assassino

SEI CASI DI SERIAL KILLER ITALIANI POCO NOTI

1 – VERZENI – IL VAMPIRO DELLA BERGAMASCA

Prima di iniziare a uccidere, Verzeni aggredì diverse ragazze, tra cui una cugina, che si salvarono solo dopo una faticosissima lotta. La cosa di per sé non impensierì troppo i famigliari e le autorità, anche se, come era evidente dai segni, Vincenzino aveva cercato di strangolare ognuna di loro; solo che forse le aveva scelte troppo robuste.

Nel 1870, il Verzeni riuscì finalmente a compiere il suo primo delitto: Giovanna Motta, una compaesana. Nascose il corpo e la passò liscia per 9 anni, tempo che gli ci volle per decidersi ad ammazzare di nuovo qualcuno. Lo arrestarono subito dopo, ma non per il secondo e né per il primo delitto: stava solo cercando di far fuori una terza donna ma qualcuno lo fermò in tempo.

Nelle mani dei carabinieri dichiarò subito i due delitti e chiese di essere tenuto dietro le sbarre per il resto della vita, altrimenti avrebbe continuato a uccidere.Non riusciva a reprimersi quando vedeva una donna, l’unica cosa che desiderava era strangolarla, strangolarla e ancora strangolarla.

Tutto qui? No. C’era dell’altro. La morte della vittima non era il fine ultimo dei suoi sforzi. Verzeni desiderava raggiungere il ‘godimento’. Se questo avveniva appena iniziava a strizzare il collo della donna, allora poteva anche fermarsi lì ma, se non succedeva subito, avrebbe continuato ancora e ancora, fino a quando la malcapitata non avesse smesso di agitarsi, inseguendo quel piacere “venereo” oltre i cancelli della morte stessa. Ecco perché le mutilò, le tagliò in due, per lungo; trafugò le viscere e le nascose intorno a casa e non si poté dire che le avesse stuprate soltanto perché asportò i loro organi sessuali e fu impossibile stabilirlo.

Di tutta quella mattanza, ci fu un particolare fisso a cui il Verzeni non riuscì mai a spiegare il senso: la presenza di lunghi spilli sul corpo delle sue vittime o nelle loro vicinanze.

Poco si capì di tutta la vicenda, anche se l’assassino si lasciò studiare dai dottori e cercò in più di un’occasione di descrivere l’oscuro mondo che aveva dentro di sé, i diavoli che lo spingevano al male. Spesso annacquò tutto con un’infinità di bugie, ritrattò, spergiurò e negò, fino al punto di non far capire più nulla a nessuno. Sul perché delle sue azioni scellerate però Vincenzo fu sempre coerente e chiaro: “Io” diceva “ho veramente uccise quelle donne e tentato di strangolarle perché provavo in quell’atto un immenso piacere”. Punto.

I graffi che trovarono sui corpi delle vittime erano opera sua. Non li aveva provocati con le unghie, come gli inquirenti ipotizzarono subito, ma con i denti. Il Verzeni mordeva la carne e succhiava il sangue. Tecnicamente era un vampiro.

Ecco il particolare che inorridì l’opinione pubblica, quello a cui nessuno era stato preparato.

“Godei moltissimo, quando lo feci!” così disse.

In Italia, a quel tempo esisteva ancora la forca, ma Vincenzo la scampò per un solo voto della giuria. Trascorse tutti gli anni che gli restarono sotto chiave, come aveva chiesto, in compagnia delle sue sanguinose smanie mai più soddisfatte.

Lombroso, il celebre psichiatra credente nell’atavismo e nella fisionomia del crimine, lo studiò personalmente, definendolo un tipo molto intelligente, anche se si applicava poco, il che è quello che di solito dicevano a molti di noi, ai tempi della scuola, nevvero?

Il Verzeni però non fu giudicato pazzo, né dal Lombroso né da nessun altro esperto della psiche che si cimentò con quel suo cranio bacato. Questo perché si era sempre mantenuto perfettamente lucido prima, dopo e soprattutto durante quei momenti infernali in cui sbranava, saccheggiava, mutilava e suggeva quei corpi inermi. La gente rimase davvero colpita, ma non solo per il vampirismo confessato con grande compiacimento, tanto meno per via delle atrocità, di omicidi barbari e assassini spietati erano piene le strade della Storia d’Italia. Fu la totale mancanza di movente razionale (a parte l’egoistica bramosia di soddisfazione vampirica troppo contorta per essere solo vagamente capita) e l’assenza di pentimento sul viso simpatico e sbarazzino di quel tipo vestito come un contadino arricchito, biondo e con il baffetto paraculo. Vincenzino, lo strangolatore di donne; il vampiro della Bergamasca.

2 – PICCHIONI – IL MOSTRO DI NEROLA

Picchioni Ernesto, noto tra la gente di Nerola come “Bruttafaccia” e “Sparafacile”. Il primo Mostro del dopoguerra. Un tenebroso “ladro di biciclette”, ma molto peggio di quelli di cui parlava De Sica nel famoso film neorealista. Era un contadino, scarpe grosse e cervello fino, sì, ma neanche tanto. Era un brutale predone, assassino per pochi spicci, mosso dal bisogno, che tutti abbiamo anche oggi, di trovare un sistema per arrotondare, giungere sani e stremati ma salvi, alla fine del mese.

Dopo la guerra c’era la fame, ce ne parlavano tanto i nostri poveri nonni, ricordate? Che cosa inventò quindi il Picchioni per risolvere il problema della fame? Una cosa semplice semplice. Nei paraggi del casale dove viveva con la sua famiglia, spargeva in terra dei chiodi. I viandanti in bici (allora ce ne erano davvero tanti, l’automobile era ancora un lusso che non poteva permettersi quasi nessuno) bucavano una ruota e chiedevano aiuto a lui, unico residente nell’arco di chilometri. Una volta entrati in casa, i malcapitati si beccavano una botta in testa e poi un’altra e un’altra ancora fino a quando non crepavano. Dopodiché, Picchioni prendeva tutto quanto: vestiti, portafogli, mezzo di locomozione. Soprattutto quello. La bicicletta per l’assassino era quasi un’ossessione mentre il resto, cioè il corpo, lo nascondeva senza neanche tanto scervellarsi nell’orto dietro casa, sotto terra. Avanti il prossimo. Tutto questo davanti agli occhi della sua famiglia: i figli e la moglie erano testimoni di quelle atrocità ma non erano un problema perché se ne avessero parlato in giro, li avrebbe uccisi e c’era da credergli.

Picchioni andò avanti per anni, indisturbato fin quando i parenti, approfittando di un raro viaggio in un paese vicino, stanchi di vivere sotto il gioco violento di quell’essere spietato e sanguinario, si precipitarono dai carabinieri, chiedendo asilo. La moglie di Picchioni raccontò tutto quanto ma non fu facile crederle subito. Era troppo inverosimile: un massacratore di viandanti in quel posto così tranquillo e noioso? Come è possibile? Il maresciallo decise comunque di andare ad aspettarlo a casa, tanto per vederlo in faccia, questo ‘mattatore’, poi decidere cosa fare.

Picchioni tornò alla guida di una specie di bicicletta motorizzata altresì nota come “Cucciolo”, ultimo ridicolo bottino derivato dall’omicidio di un commerciante, tale Alessandro Daddi.

Il mostro capì subito, appena vide il maresciallo e i suoi uomini davanti alla porta di casa.

Non fu facile catturarlo: anche se era piccolo Picchioni era tozzo e si dimenava moltissimo. Alla fine riuscirono comunque a portarlo in questura. Il mattino dopo, tutti i giornali raccontarono una storia che sconvolse l’Italia come non capitava dai tempi di Girolimoni.

Le forze dell’ordine iniziarono a scavare nell’orto, davanti a tutti – l’intero paese era accorso a vedere lo spettacolo atroce e con esso c’erano giornalisti da ogni dove.

Tirarono fuori i resti di otto persone, anche se qualcuno pensa che ce ne fossero almeno il doppio e che probabilmente diverse altre vittime erano sparse per la campagna, in cimiteri improvvisati dal Picchioni stesso. Quando lo condannarono ufficialmente, l’intero paese assaltò la sua casa, distruggendola. E si dice anche che negli anni successivi, i ruderi dell’abitazione furono (e forse lo sono ancora) lo scenario di riti satanici e altre oscenità irriferibili.

Il mostro di Nerola non fu ucciso sulla sedia elettrica o impiccato; siamo in Italia, mica in Texas. Passò il resto dei suoi anni a fare le ragnatele in una cella sorvegliatissima, a spese dello stato. Per molto si lavorò a un tentativo di riconciliazione tra lui e i suoi famigliari: dopotutto era un papà e un marito, il sangue è sempre sangue e qualche prete pensò bene che uno come lui fosse comunque una creatura di Dio e che quindi dovesse avere dei sentimenti da far germogliare. Di certo i figli lo amavano e la moglie desiderava stargli vicino. Tante speranze però bruciarono quando Picchioni tentò di far fuori tutta la famiglia insieme, a mani nude, durante una delle numerose riunioni “riappacificanti”.

Non solo i famigliari. “Sparafacile” se la prese persino con il papa Pio XII. In visita a Regina Coeli, sua santità subì un’aggressione dal mostro di Nerola, evidentemente in vena di anticlericalismo. Per questo Picchioni venne spedito nella prigione di Porto Azzurro sull’Isola D’Elba, dove morì d’infarto poco tempo dopo.

Le cronache di quegli anni lo definirono Mostro. Il primo di tanti assassini battezzati così dalla Stampa italiana allo scopo di trasformare dei volgarissimi criminali quasi in eroi negativi, esaltando i loro omicidi fino a trasformarli in autentici spauracchi per le notti insonni dei fidi contribuenti statali. Rispetto ai Serial Killer anglosassoni o russi o anche italiani che seguirono, Picchioni non aveva certo l’aspetto e lo spessore di un vero ‘villain’ da grande schermo. Non era un Salvatore Giuliano, per intenderci. Era troppo brutto e piccolo. Era anche ignorante e grezzo, per quanto poi si fosse dichiarato a più riprese comunista, causando non so quanti problemi alla sinistra in quegli anni di inizio Repubblica. Spaccava crani con la facilità con cui avrebbe tirato il collo ai polli e i pochi spicci che scuciva ai cadaveri, li investiva giusto in qualche bevuta nociva all’osteria di Nerola. Oppure ci ricomprava i copertoni delle biciclette su cui gli sfortunati viandanti stavano andando chissà dove, prima di cadere nelle sue grinfie. Tra le vittime accertate, ritrovarono anche un ragazzino.

Insomma, feroce, spietato, ma abbastanza modesto nelle pretese e del tutto privo di una qualche morale. L’Italia massmediologica partorì ben altro, uno spettacolo catodico di “bestie umane” assai più affascinanti e coinvolgenti. La vicenda di Picchioni è solo il rozzo inizio di un nuovo genere di intrattenimento.

3 – IN CINQUE PEZZI. ANDREA MATTEUCCI

Villeneuve (Aosta). Andrea si ferma con il furgone a una stazione di servizio per fare il pieno. Ha un mucchio di lavoro da sbrigare ma prima deve passare dai carabinieri per firmare il registro presenze. Tempo prima è stato fermato con un furgone rubato e da allora deve rimanere in paese e passare alla stazione, ogni giorno. Lui però è puntuale. Poi esce e risale sul furgone. Anche questo è rubato, ovviamente. Si dirige a Mecosse, in un posto isolato che conosce bene, tira fuori il cadavere da sotto il sedile e lo brucia. Mentre le fiamme gli illuminano il viso lui pensa a sua madre. Come tutte le volte. Anche questa era come lei. Puttana. Disinteressata a parlare con lui, a starlo a sentire. Albana si chiamava. Dopo diverse ore Andrea torna a casa ma è troppo stanco per salire. Inoltre nessuno lo attende. Solo i morti e un mucchio di calze a rete e riviste di armi sparse ovunque. Così si addormenta nel furgone. Quando i carabinieri lo svegliano e lo fanno scendere notano subito sotto il sedile una pozza di sangue.

Interrogato cerca di difendersi ma non ci mette neanche tanto impegno. Poi confessa tutto e puntualizza. Ne ha fatte fuori quattro, non una. L’ultimo delitto è un po’ diverso dagli altri, però. E’ avvenuto perché lei lo ha fatto arrabbiare. Le altre prostitute, dopo averle uccise, lui le porta in casa, si diverte con i corpi e poi li taglia in cinque pezzi. Necromania, Necrofilia, a lui non importa come la chiamano. Questo è ciò che gli piace fare. Una volta che i corpi non gli servono più li avvolge in sacchi di plastica che carica nel furgone e va a bruciare in una specie di forno rudimentale ricavato da un bidone, nel cantiere dove lavora la pietra. Non è il suo unico impiego. Ruba furgoni che poi consegna al padre, il quale li ricicla. È proprio il papà ad averlo istigato a questo passatempo criminale. Ma se pensate che il genitore sia un poco di buono, non avete presente la madre di Andrea.

La donna è una prostituta. Lo è sempre stata, anche durante gli anni di matrimonio. Quando è piccolo, lei lo costringe a guardarla mentre si lavora i clienti e nei momenti di tranquillità gode a raccontare al piccolo Andrea di come ha evirato un uomo, suo convivente. La donna non è solo perversa. Ha precedenti penali di vario tipo. Su tutti la morte della madre, la nonna di Andrea, deceduta a causa delle percosse inflittele dalla figlia. Quando Andrea uccide la prima prostituta, nel 1992, è reduce da una brutta lite con la moglie. I due sono separati da poco, dopo un matrimonio di 9 anni in cui il maniaco si è illuso di avere una vita normale, una famiglia normale, anche se già da allora con un omicidio alle spalle. Un omosessuale colpevole di aver tentato di adescarlo.

E così, nel 1992, va con quella puttana e l’ammazza usando una sparachiodi. Seppellisce il cadavere ma alcuni giorni più tardi lo recupera e gli da fuoco. Tagliandolo in cinque parti. Bruciandole nel bidone, per ore e ore. Dopo la separazione, il suo unico figlio va a stare con la madre e Andrea si trasferisce in un’abitazione da solo, dove oltre a ritrovare i vecchi fantasmi castranti dell’infanzia materna, ne scopre di nuovi. Riempie il suo covo di indumenti intimi femminili, armi giocattolo, borsette da donna e follia. Uccide altre due prostitute straniere e brucia i loro corpi al cantiere. E agisce ogni volta senza prendere grandi precauzioni, come se non gli importi di essere fermato e finire in galera. Quando si aggira per la città con l’ennesimo furgone rubato, un testimone ha già indirizzato i carabinieri su di lui, accusandolo della scomparsa di una donna; il mezzo su cui si sposta ha una targa non del posto, ideale per destare dei sospetti. A casa ci sono armi sporche di sangue secco, messe in un angolo. Andrea le mostrerà alle autorità dopo che avrà ammesso i delitti. Conserva i gioielli delle sue vittime e li regala alla nuova fidanzata dicendole di averli trovati. “Ho ucciso quelle donne perché loro non dovevano guadagnarsi da vivere facendo certe cose. Odio le donne perché loro vogliono solo fare sesso e non hanno tempo di parlare con me, di darmi retta”4 –

Alla fine gli danno 30 anni, riconoscendo socialmente pericoloso e in parte, malato di mente. Uscirà nel 2027.

4 – GIUSEPPE BELLOLI – IL MOSTRO DI TREVIGLIO

Giuseppe Belloli. Lo definirono il mostro di Treviglio, un bel paesetto in provincia di Bergamo perché era di lì ma quei poveri bambini li ammazzò in altri luoghi. Di lui si sa poco, a parte che nacque nel 1948 e già da bambino sua madre lo portò a far vedere da un dottore perché “aveva strane idee che gli giravano in mente”. Interruppe presto gli studi per lavorare in un forno, poi fece il muratore e infine il meccanico.

Al paese aveva la nomina di essere scemo ma nessuno diede troppo peso al suo modo di comportarsi e nemmeno quando tentò di rapire un ragazzino con la scusa di offrirgli un passaggio in bicicletta. Qualcuno ci rise, altri scossero il capo. Nessuno a Treviglio pensò che fosse pericoloso. Neanche quando attirò con l’inganno un altro bambino, sulla riva del fiume Serio. Tentò di violentarlo ma il piccolo lottò e anche se Belloli lo colpì con una pietra in testa, qualcosa gli impedì di continuare e lasciò andare la sua vittima.

Erano altri tempi. Di certi argomenti scabrosi neanche si parlava. Casi di violenza, specie nelle provincie, venivano messi a tacere in primis dalle vittime. Il bambino non parlò dell’episodio. Non denunciò quel matto, temendo magari di essere accusato dalla gente di esserci “stato” almeno in un primo momento. Se fosse andato dai carabinieri, probabilmente non sarebbe nemmeno iniziata. Non quindici giorni più tardi. Sempre sulla riva del Serio, sempre un bambino, ma Stavolta Belloli non si fermò a una sassata. Si chiamava Mario Boris, aveva sette anni. Accadde il 25 marzo 1964, in località Ghisalba. L’omicida lo violentò e strozzò. Poi fuggì fino a Cologno al Serio, dove incontrò il piccolo Erminio Merisio, sempre di sette anni. Anche per lui stessa sorte. L’assassino lo condusse in un posto isolato, lo violentò e lo strozzò con una cordicella. Stavolta però non si limitò a fuggire. Fece a pezzi il cadaverino e lo gettò dentro un tombino. Nella confusione lasciò un’infinità di tracce. Lo arrestarono pochi giorni dopo.

Era per strada, confuso. Confessò i delitti subito anche se non era colpa sua: una forza “sovrumana” l’aveva spinto a farlo. La perizia psichiatrica fu chiara: il poveraccio era incapace di intendere e volere. Così lo misero in vari manicomi: a Reggio Emilia, a Vedano al Lambro. Scappò più volte, sempre riacciuffato subito. Tranne per l’episodio del 1971. In quel caso ci misero un po’ a prenderlo e Belloli colpì ancora. La piccola vittima si chiamava Giampietro Piemonti e aveva dieci anni. Strozzato ma non violentato. Quando lo arrestarono, il mostro manifestò segni di pentimento che alternava a un improvviso, glaciale distacco. Di sicuro i segni che il povero scemo di paese fosse un pedofilo assassino, si presentarono, graduali, sempre più inequivocabili, ma i famigliari, i vicini di casa non gli diedero importanza. Dopo i primi due delitti, Belloli passò in mano allo stato, agli ospedali, sottoposto a un programma di recupero fallimentare che per molti anni fu preso a esempio lampante di quanto fosse inutile provare a riabilitare un maniaco: per quanto faccia dei progressi, appena fuori dalle sbarre o dallo sguardo più o meno solerte di un inserviente nerboruto, torna a fare quello che più desidera, massacrare vittime innocenti spinto da una forza superiore a cui proprio non gli riesce di ribellarsi.

5 – GIULIO COLLALTO – IL MATTO DI LIMBIATE

Papà non abbandonarmi. Dillo anche alla mamma. Vi ho detto una bugia quando vi ho raccontato che mi erano caduti gli occhiali. Ma ora non sarà come prima. Mi cureranno, vedrai. Guarirò”

15 agosto del 1979. Cremona. Il piccolo Luca è diretto ai giardinetti. Lui e la sua famiglia abitano nelle vicinanze. Ha avuto il permesso della mamma di andare a giocare con i suoi amichetti. Il bambino però ha mentito e una volta raggiunto il cancello del parco pubblico prosegue oltre. Ha appuntamento con qualcuno che i suoi genitori non conoscono. Nei giardini malmessi del vecchio ospedale abbandonato, il Giovanni XXIII, c’è infatti un ragazzone dall’aria simpatica, con un paio di occhiali dalle lenti molto spesse. Luca lo trova simpatico. Di nome fa Giulio ed è il custode dei costumi usati nelle riprese di un film per la TV, uno sceneggiato su Giuseppe Verdi.

Il materiale è nel sotterraneo dell’ospedale e bisogna quindi scendere, attraversare corridoi bui e pieni di sporcizia prima di arrivare nella “sartoria”. Il bambino vuole vedere gli abiti del film, si fida di Giulio che glieli mostrerà. Più tardi, quello stesso giorno, due sarte della troupe televisiva ospiti in alcune stanze della struttura ospedaliera raccontano di aver incontrato il giovane custode aggirarsi per le stanze in mutande e un po’ più confuso del solito. Tiene i vestiti bagnati in mano. Le donne si offrono di metterglieli ad asciugare. Alle loro domande lui risponde ripetendo di essere caduto.

Due giorni più tardi, i cani poliziotto, al culmine di una indiavolata ricerca del piccolo Luca, troveranno il corpicino dietro un montacarichi, nel seminterrato dell’ospedale. La testimonianza delle sarte indirizzerà i sospetti sul custode degli abiti di scena. E i sospetti aumentano appena si scopre cosa c’è nel curriculum del giovane.

Giulio Collalto preferisce la compagnia dei bambini a quella dei suoi coetanei. Ha un’infanzia durissima nel collegio per orfani di Santa Rita di Grottaferrata (presso Roma), dove rimane fino a quattordici anni, quando l’istituto viene chiuso dopo essere finito al centro di un’inchiesta scandalosa per maltrattamenti a bambini e ragazzi.

Quando il giovane esce di lì la sua salute mentale è già abbondantemente compromessa, al punto che per lui un reinserimento nella vita sociale è quasi impossibile. Soffre di epilessia, probabilmente causata dalle ripetute bastonate che ha preso in testa nell’istituto e a volte tenta di farsi male lanciandosi lungo le scale o addosso ai muri. Viene ricoverato al Paolo Pini ma fugge presto anche da lì portando sul corpo i segni di nuovi e ancora più violenti maltrattamenti. Una volta fuori, in strada, finisce nelle mani di qualcuno che lo obbliga a pratiche omosessuali. Quando riesce a scappare anche da quel nuovo inferno si riduce a vivere come un barbone. Lo raccoglie dalla strada un commerciante di Milano, un signore sulla cinquantina. Il ragazzo gli si affeziona e chiama l’uomo “zio”.

Lo zio fa ricoverare Giulio all’ospedale di Limbiate. Lì conosce Roberto Auglia, bambino di dieci anni. I due entrano in confidenza. Nonostante la differenza di età, il bambino e il ragazzo legano subito parecchio perché hanno gli stessi problemi di inserimento, si sentono diversi, incompresi, soli. Robertino è giudicato strano, pazzoide… nessuno dubita che sia morto suicida quando trovano il corpo in casa sua, sdraiato sui fornelli della piccola cucina a gas.

Giulio al suo funerale piange tantissimo, tiene stretto un mazzo di garofani bianchi gualciti e segue il feretro costantemente, ripetendo in continuazione che “era innocente, non meritava di morire.”

L’autopsia effettuata prima della sepoltura però prova che nei polmoni del piccolo non c’è abbastanza gas da causarne il decesso e sono in corso le indagini per scoprire l’omicida. La madre di Robertino parla di Giulio alla polizia. L’amichetto grande di suo figlio.

Giulio nelle settimane successive alla morte del bambino va in depressione e tenta due volte di togliersi la vita. Forse è solo senso di colpa o magari paura perché sente che la polizia è vicina a scoprire chi ha strangolato Robertino e aperto il gas per depistare le indagini. I suoi timori si concretizzano. Le guardie lo arrestano. Lui nega ma viene condannato a 6 anni.

Grazie alla perizia psichiatrica da cui risulta ritardato e socialmente innocuo, con l’aggiunta dell’attenuante di una condanna non basata su prove incontestabili, l’assiduo lavoro degli avvocati ottiene la scarcerazione di Giulio dopo appena un anno e due mesi di reclusione. Lui si trasferisce in vari istituti fino ad arrivare a Cremona dove due coniugi lo prendono in affidamento. Li chiama mamma e papà. Gli vuole bene e sembra finalmente felice e sereno. Inizia a frequentare l’oratorio di Sant’Abbondio e inizialmente conquista la fiducia del parroco e di molti bambini. “Sembrava inoffensivo” dicono tutti. Poi però un giorno, don Giulio Spoldi gli chiede di stare alla larga, per non specificati motivi. Questo poco prima che lo assuma la televisione.

Dopo il ritrovamento del corpo di Luca Antoniazzi, Collalto viene incastrato dalle testimonianze e dai precedenti. Ci vogliono altri due anni ma nel 1981 è condannato all’ergastolo. Omosessuale latente, ha tentato in entrambi gli omicidi di abusare sessualmente delle vittime e li ha strangolati dopo che i bambini hanno opposto resistenza.

6 – FERDINAND GAMPER

Il 5 gennaio del 1996, in uno studio notarile di Bressanone, provincia di Bolzano e città di nascita del noto “re delle evasioni” Max Leitner, un contadinotto dall’aria strana sta per cedere tutti i suoi averi al fratello. Ecco l’elenco della sua eredità: una BMV rossa, un vecchio casolare dove abita, un’altra casa.

Perché lo fa? Magari sta per morire? In un certo senso sì, anche se fisicamente è sanissimo. Particolare non da poco: prima di lui se ne andranno cinque persone, tutte in perfetta salute e per nulla vogliose di lasciare questo mondo.

Il problema è che il contadino le odia troppo per concedergli un’esistenza tranquilla. Perché? La sua morte improvvisa impedirà alla polizia di capire le vere cause di un massacro organizzato nei dettagli e con profonda determinazione.

Le prime due vittime sono una coppia che si sta godendo un po’ di intimità in uno dei luoghi più romantici di Merano, sempre in Alto Adige. Lui è tedesco e si chiama Hans Otto Detmering, è un uomo importante, funzionario della Bundesbank e residente in Germania con moglie e figli. Lei invece è italiana, delle Marche, si chiama Clorinda e fa l’impiegata. I due sono amanti e almeno secondo le scarse informazioni rimaste non hanno mai avuto alcun legame sociale con il tipo curioso, alto e un po’ stempiato che gli si sta avvicinando. Ha uno zainetto blu in braccio. Prima che possano capire cosa stia succedendo, sono entrambi in terra morti con un foro in testa. È l’8 febbraio.

Poco meno di una settimana dopo, Umberto Marchioro, un contadino, è a terra, privo di vita. Il medico legale scrive collasso circolatorio ma poco dopo, da un esame più attento in obitorio, viene fuori che il poveretto, invalido e apparentemente in buoni rapporti con tutto il vicinato è stato ucciso da un piccolo foro in fronte.

L’arma è la stessa che ha ammazzato la coppia adulterina più sopra. I giornali iniziano a parlare di serial killer. La gente di Merano si chiude in casa prima che faccia buio, dato che anche il tempo è una costante. Qualche giornalista perspicace fa osservare che i tre delitti sono avvenuti tutti intorno all’ora di cena.

Poi, il 22 febbraio la polizia arresta un tipo che non la racconta chiara: un giovane che pare abbia un curriculum ideale per macchiarsi di un delitto o anche tre: senza fissa dimora, con problemi di tossicodipendenza e una certa incapacità a ricostruire i suoi spostamenti degli ultimi giorni. Per di più il ragazzo sostiene di essere innocente, quindi figurarsi. Tutti gli assassini dicono così, no?

Le indagini continuano ma secondo i giornali ci sono ottime possibilità che il “mostro” sia lui e per i cittadini di Merano pure. Tutti tornano in piazza, sollevati. Cinque giorni più tardi però c’è un nuovo delitto.

Paolo Vecchiolini, tecnico elettronico, sta passeggiando mano nella mano con la sua fidanzata, Ivonne Sanzio. I due stanno parlando magari del matrimonio imminente o si sforzano di non farlo, tentando di rilassarsi, liberare la mente, ma un tizio con uno zainetto li avvicina e poco dopo la donna è li che grida aiuto mentre il suo promesso sposo scivola sempre più a terra.

La pistola è la stessa degli altri delitti. Merano è di nuovo con le mutande piene e barricata in casa prima del buio.

Le prenotazioni turistiche per le imminenti vacanze pasquali sono un pianto. Nessuno vuole trascorrere un minuto nella città del “mostro” e la gente è talmente spaventata che una fiaccolata indetta come protesta alle violenze anonime riesce a trascinare fuori dalle case appena trecento persone.

Il primo marzo poi c’è un altro corpo in terra. Si tratta di Tullio Melchiori. A trovarlo e denunciarne la morte è la moglie Anna. Nessun movente, stessa pistola.

Le autorità registrano la nuova vittima. Nonostante le pressioni generali e l’aiuto dell’appena costituita Unità Anti Mostro, non sanno cosa fare. E così i carabinieri iniziano il solito giro di domande tra il vicinato. Normale routine, tante seccature e un pozzo nero dove gettare domande vecchie e nuove. Poi, mentre si avvicinano a una delle case, partono dei colpi di pistola o qualcosa del genere. Il Maresciallo Guerrino Botte, con sorpresa di tutti, si accascia.

I colpi sono arrivati da un fienile appartenente a Ferdinand Gamper, contadino di 39 anni famoso nel circondario per essere un tipo abbastanza fuori di cervello. Uno schizofrenico dal passato fitto di problemi famigliari e legali.

L’assedio termina dopo due ore, con un incendio e un corpo annerito poi recuperato nello scantinato del fienile. Accanto al cadavere ci sono delle armi e alcuni messaggi pieni di errori grammaticali e scritti di fretta con una penna:

siete arrivati tardi”

Sono un italiano oppure un infanticida”

e altre farneticazioni razziste. Quale movente abbia spinto l’uomo a commettere i delitti non si sa con certezza. Si ipotizza un vecchio rancore verso il vicino Tullio Marchioro per una disputa immobiliare precedente, ma alla base della meticolosa striscia di sangue, eseguita con un’arma particolare (una pistola tedesca modificata, ridotta nelle dimensioni per non attirare l’attenzione delle vittime) il lascito al fratello pochi giorni prima di iniziare il massacro, fanno pensare che ci sia stato un piano. Folle, assurdo ma chiaro e preciso nella testa di Ferdinand.

Come Serial Killer, Gamber rientra a fatica nella categoria. Non c’è un movente sessuale e l’uomo non porta via nulla alle vittime: né parti del corpo e tanto meno oggetti personali. Le due coppie in un certo senso possono aver scatenato la sua gelosia di uomo solitario e magari impotente (alla stregua di un Mostro di Firenze) ma gli altri due contadini uccisi erano da soli. Il primo, invalido e mite, aveva tutto tranne una prorompente virilità da invidiare.

Il razzismo verso l’Italia è l’elemento costante ma resta il fatto che le vittime non sembra siano state scelte a caso. Oppure sì.

Oltre agli elementi “atipici” bisogna riconoscere che per quanto l’arma in sé rappresenti un aspetto “intrigante” e da fiction, in fondo è solo una pistola e il pubblico che ama i Serial Killer preferisce si usino armi da taglio. Niente sesso post-mortem, niente deliri religiosi. Solo gli sproloqui estremisti di un semi-analfabeta. Gamber è come tutti gli schizofrenici, un tipo abbastanza noioso perché incoerente e impenetrabile. Di certo va ricordato per essere uno degli assassini più spietati e l’idea che oggi, un uomo con problemi mentali possa buttar giù un piano per ammazzare tutti i vegetariani del suo villaggio, di sicuro inquieta. Diciamo vegetariani come potremmo citare qualsiasi altra categoria sociale, razziale, ideologica racchiusa nella mente folle di un vostro vicino. Le pistoline tedesche vendute in nord Italia per la caccia al capriolo, a quanto ci risulta, sono ancora facilmente reperibili e anche gli zainetti azzurri.