Nathanael West – Il giorno della locusta

Tutta la loro vita s’erano logorati facendo qualche squallido e duro lavoro, dietro scrivanie e banchi, nei campi o attorno a macchine tediose d’ogni specie, risparmiando centesimo per centesimo e sognando agi che avrebbero raggiunto quando avessero risparmiato abbastanza. E infine quel giorno veniva. Potevano contare su una rendita di dieci o quindici dollari la settimana. Dove andare se non in California, la terra del sole e delle arance?

Una volta laggiù, scoprono che il sole non basta. Si stancano delle arance, si stancano perfino delle pere avocado e dei frutti tropicali. Non succede nulla. Non sanno come passare il tempo. Mancano delle capacità mentali necessarie per godere dell’ozio, così come mancano del denaro e delle capacità fisiche per piacere. Hanno dunque sfacchinato per tanto tempo solo per partecipare a un occasionale picnic? Che altro c’è, laggiù? Stanno a guardare le onde che si frangono a Venice. Molti di loro vengono da luoghi dove non c’era un oceano, ma vista un’onda viste tutte. Lo stesso si può dire degli aeroplani di Glendale. Se soltanto un apparecchio precipitasse una volta ogni tanto, sì che potessero vedere i passeggeri consumarsi in un “fiammeggiante olocausto” come dicono i giornali. Ma gli aeroplani non precipitano mai.

(Il giorno della Locusta – Nathanael West)

Le ali delle cavallette dicono: spingi spingi!

Siamo i tuoi figli e nipoti

un esercito innumerevole!

Le ali delle cavallette dicono: lega, lega!

Si susseguono i tuoi figli e nipoti

in linea senza fine!

Le ali delle cavallette dicono: unisci, unisci!

Siano i tuoi figli e i nipoti

per sempre una sola cosa!

(Shin Ching – Libro di tradizionali canti cinesi)

Partiamo con queste due lunghe citazioni per tentare lo scardinamento di un libro groviglioso ed enigmatico. Una vista acida sulla Hollywood dei tempi migliori mescolata alle tragedie da Antico Testamento, più o meno sono queste le definizioni che potete trovare in giro e io mi accodo, però c’è di più.

Nathanael West è ormai un autore dimenticato, ridimensionato dal tempo. In Italia è uscito poco di lui e questo romanzo viene ricordato più che altro per via del film di John Schlesinger (1975), neanche annoverato tra i suoi migliori.

Oreste Del Buono, in una piccola nota introduttiva al libro di West prevede per lui un futuro prestigioso tra i grandi narratori nord-americani ma oggi sappiamo che non è andata così, salvo improvvise rivalutazioni strapostume.

Di sicuro Il Giorno Della Locusta andrebbe riscoperto, pubblicato ancora e in una edizione decente. Considerate che io sono riuscito a procurarmelo con grande fatica e spreco di soldi in una veste antologica dove Del Buono, per la Mondadori, aveva imbastito un Omnibus di romanzi su Hollywood intitolato sensazionalisticamente “I Delitti Di Hollywood”.

Assieme a gente come Raymond Chandler e il suo hardboiled classico, c’è questo ritratto grottesco, satirico e surreale di Hollywood che al lettore di Philip Marlowe deve essere apparso troppo strambo e indecifrabile. Cosa c’entrano le locuste con una sciacquetta che vuol fare carriera nel cinema e la dà a tutti tranne i due protagonisti? Beh, basta arrivare al finale, ma in effetti come abbinamento, il romanzo di West in un’antologia che chiude con la ricostruzione della vicenda Manson pochi anni dopo che è accaduta (il libro è del 1973) c’entra poco.

Trama: Tod è uno scenografo e lavora a Hollywood. Non è un bell’uomo e non ha tutto questo talento. Si imbatte in Faye e se ne innamora. Lei è figlia di un clown in pensione e pensa solo a diventare una grande diva. Non ha talento ma è una gran fica e ha uno stormo di uomini vogliosi che le girano attorno. Tod prova più volte a portarsela a letto ma per lui c’è solo una calorosa amicizia. L’altro contendente è il bestione e maniaco compulsivo Homer Simpson, stracotto anche lui di Faye e talmente sottomesso da spendere tutti i suoi risparmi per aiutarla nella carriera e servirla come un maggiordomo. Il triangolo insolito si rompe quando Faye si scopa un messicano lascivo e pezzente. Tod si ubriaca e per un po’ pianifica di violentarla. Homer si deprime, vaga per la città e uccide un bambino saltandogli sopra a piedi pari. Una gran folla nei paraggi smette di fare quello che “non” sta facendo e lo lincia.

Ora, di solito succede che si legge un libro, poi si guarda il film con tante aspettative e si rimane delusi. A me è avvenuto il contrario. Il film di Schlesinger (che ricordiamolo, è stato sì inglese d’origine, ma uno dei più brillanti alfieri della Nuova Hollywood degli anni 70 e autore di capolavori come Un Uomo Da Marciapiede (1969) e Domenica, Maledetta Domenica (1971)), questo suo film, dicevo, non è un capolavoro. Ha una fotografia stupenda e un cast di attori straordinari, specie i caratteristi, ma nell’insieme risulta abbastanza lento, gonfio e con una regia un po’ vanitosa. Io lo amo proprio per tutte queste imperfezioni e riguardandolo diverse volte negli anni, mi sono lasciato andare a fantasie sullo stile dello scrittore West, da cui mi aspettavo un libro strepitoso, perfetto, cattivissimo e irresistibile. Dopo averlo letto ho dovuto ammettere che è un buon libro ma non all’altezza delle mie smodate aspettative. Volevo uno stile di scrittura più barocco e acido, invece è asciutto, giornalistico, come la stragrande maggioranza degli autori americani della “generazione perduta”. Speravo in qualche divergenza nella trama, in una coralità maggiore, ma il libro è smilzo e racconta paro paro la stessa storia riportata fedelmente nel film da Schelsinger. Il finale è possente e la cosa migliore del romanzo, però viene spontaneo chiedersi perché la folla distruttrice irrompa solo alle ultime pagine, mentre il resto della storia sia in fondo un minimale quadretto di seduzione e frustrazione ai margini della città dei sogni.

Nel film di Schlesinger l’obesità di un finale così apocalittico è spalmata ovunque. Le vicende di Tod e Homer e Faye si intrecciano con quelle del nano Abe, il clown Harry Greener e i messicani gestori di una bisca di galli da combattimento. Hollywood, con la sua cartapesta e le migliaia di formiche che la agitano sotto, ne risulta uno dei personaggi principali e invece nel libro si sente solo a tratti, giusto nel capitolo dove Tod attraversa gli studi di posa e si ritrova ogni dieci passi in uno scenario temporale e spaziale diverso: dal vecchio West alla Waterloo della disfatta napoleonica. Lì c’è un buon momento di ironia e fantasia, anche se un tantino compiaciuto.

Il collegamento col finale è L’incendio di Los Angeles, un quadro a cui Tod sta lavorando dal primo capitolo e che poi alla fine si rivela profetico, concretizzandosi nella rivolta conclusiva degli spettatori fuori dal cinema Persiano, scatenati dal delitto commesso da Homer Simpson.

Il film rende la cosa ancora più palese usandone i particolari come dei flashforward (che per chi non si intenda di cinema sono il contrario dei flashback. I migliori li trovate su Easy Rider, In Cerca Di Mr Goodbar e in questo film). Sono molto più inquietanti perché anticipano i finali negativi e fungono da lampi di presagio funesto, punteggiando la storia di un’ineluttabile sconfitta.

Nel libro c’è un rimando continuo al quadro ma è meno incisivo. Nel finale Tod è aggrappato a un cancello, con una gamba rotta e si ritrova a fantasticare sul suo dipinto mentre la folla davanti a lui si agita come una piena incontrollata. Ci si chiede però come mai in una situazione tanto pericolosa il personaggio si perda in simili puttanate. Nel film è reso chiaro come il quadro abbia trovato la sua concreta versione reale. Ecco la tua visione apocalittica, Tod. Dio ha deciso di fregarti l’idea. Le immagini del film, infarcite di rimandi a Munch, hanno un potere maggiore, ma un po’ troppo intellettuale. Trasformano comunque l’atmosfera morbosa e onirica del film drammatico e sofisticato in un vero horror che vi raccomando.

La descrizione che West fa della massa di spettatori che diventano un mastodonte pericoloso, un godzilla sbuffante in attesa di scatenarsi al primo plateale sopruso dei poliziotti rimanda all’analisi di Elias Canetti nel suo Massa e Potere. Lo scrittore bulgaro, ossessionato dal fenomeno che trasforma tanti piccoli uomini in un essere che vive e respira e nella maggior parte dei casi distrugge o ingloba altre vite avrebbe trovato molto stimolante il libro di West, che nel descrivere le dinamiche e la psicologia di una folla americana a Hollywood mostra un acume e un afflato terrifico pari a Canetti stesso, ma è da escluderne l’influenza del secondo, viste le date di pubblicazione dei due libri. Il saggista inoltre non mostra di aver letto il romanzo di West.

Incuriosisce la menzione in Massa e Potere delle cavallette. Con le locuste non sono esattamente la stessa cosa ma fanno parte della famiglia medesima. In ogni caso colpisce il fatto che Canetti citi il componimento cinese tratto dal Chin Shing, riportando la funzione metaforica di questi insetti come di posterità. E gli spettatori che distruggono tutto nel finale, inappagati, poveri, lordi di delusioni e intasati di sogni, annaspano e fagocitano i divi, il cinema, i maniaci, come una famelica e ottusa posterità, appunto.

La massa di West in realtà è solo il frutto sociale di un inganno (chi ha condotto lì tutte quelle persone trasformandole in un mostro gigantesco arrabbiatissimo?) ma allo stesso modo si può vedere quella gente di scatenati cannibali come i sopravvissuti. E i sopravvissuti sono spesso assassini, cannibali, spietati egoisti, belve scatenate.

Al di là delle mie seghe mentali, bisogna riconoscere che il libro di West, pubblicato nel 1939, affronti il sesso e la violenza in modo assai espliciti, contrapponendo questa crudezza al ritratto ironico e per lunghi tratti divertente della piccola fauna di scoppiati e falliti che ruota attorno a Hollywood. Il personaggio più riuscito e il più emblematico è Homer Simpson (avete letto bene, si chiama così). Un povero scemo dalla stazza fisica enorme, che come insegna Steinback con il suo Lennie di Uomini e Topi è una combinazione dai risvolti narrativi assicurati. Homer trascorre il tempo a guardarsi le mani fino al suo incontro con Faye. Se ne innamora e quando lei lo molla, lui sprofonda in un coma emotivo definitivo che lo tramuta in un orco sanguinario.

Tod, l’unico con un po’ di sale in zucca, lo è solo in apparenza. Anche lui ama, certo ma in fin dei conti riduce tutto a un bisogno incontrastabile di fottersi Faye almeno una volta, a costo di possederla con la forza e tornar libero di percorrere la sua strada, lasciandosi quella puttana idealizzata alle spalle. Tod ha successo nel lavoro, è inserito nel gran formicaio hollywoodiano ma l’incontro con l’aspirante attrice trasforma il suo cinismo in cieca idealizzazione. I lettori non sono mai d’accordo con quello che lui vede ogni volta che parla di Faye. Per noi tutti è chiaramente una troietta piena di bile, alcol e illusioni, ma dobbiamo riconoscerle un certo fascino. Peccato non sia presente nel finale del libro. Nel film anche lei è vittima della folla rivoltosa, pronta a godere brutalmente della carne, prima che il dio della celluloide la trasformi di nuovo in un sogno irraggiungibile.