L’altro giorno, parlando della raccolta di racconti a cura di Roald Dahl, Il libro delle storie di fantasmi, ho concluso con una considerazione che merita un sviluppo ulteriore, vale a dire che alla base dei nostri spaventi di lettori c’è il senso di colpa della psicanalisi.
Io non ho nulla contro Freud. Quello che ha scritto lo trovo da sempre affascinante e pieno di spunti, ma deploro l’uso eccessivo che tanti narratori hanno fatto delle sue teorie, trasformando Sigismundo in un compendio faidatè di teoremi da applicare come scalette sicure per dei racconti che riducono la follia e la violenza a semplici effetti di traumi infantili. Non è così semplice leggere la realtà, specie quella immaginifica, appartenente al sogno, all’incubo, alla fantasia, con il monotono algoritmo della prima, terrorizzante, giovinezza.
Abbiamo avuto per decenni quintali di romanzi e racconti pieni di madri castranti, psicanalisti investigatori improvvisati (o investigatori improvvisati psicanalisti) psicopatici massacratori con dei bimbi spaventati intrappolati nella propria carcassa e nevrotiche signore di campagna che si ritrovano a dover fronteggiare truppe agguerrite di spettri sessuali. Troppo comodo, troppo semplice. A parte questo uso convenzionale e passivo della psicanalisi freudiana è innegabile che i suoi libri abbiano svolto un ruolo fondamentale per tutta la letteratura novecentesca, da Joyce a Kafka a tutti quelli che volete metterci.
Freud ha “sgamato” molti dei meccanismi dietro lo spavento, l’infestazione, la persecuzione, il mistero dei morti. Seguite un attimo il mio ragionamento. Sapete cosa è il senso di colpa, no? È quel cancro che abbiamo tutti dentro e che ci assedia, assilla buona parte di ogni nostra giornata, qualsiasi cosa facciamo. Il senso di colpa lo dobbiamo in linea di massima ai nostri genitori, bisogna metterglielo in conto senza rancore però, perché anche loro sono vittime e innocenti colpevoli di questa catena di sant’Antonio dell’infelicità. È un effetto collaterale del buon vivere sociale. Se vogliamo stare tutti insieme dobbiamo reprimere certi nostri istinti dannosi e da piccoli mamma e papà ci insegnano che se facciamo qualcosa di buono, tipo tenere in ordine la camera, prendere un bel voto a scuola, poi riceviamo un premio che sarà il nostro piatto preferito a pranzo o una mancetta o quel che volete. Se invece facciamo cose che ai nostri genitori non piacciono, tipo rompere un vaso giocando con la palla dentro casa o uccidere il gatto della nonna per divertimento, arrivano le punizioni. Da ragazzini impariamo che quello che i nostri genitori dicono è sempre vero, non possono sbagliare. E abbiamo fede nel premio come nella punizione, anche se presto molti di noi iniziano a dire bugie, a nascondere prove, a cercare di sfuggire al castigo di mamma e papà. E nonostante ci riescano, dentro di loro resta un tarlo che gli impedisce il sonno, gli guasta la festa: è il senso di colpa, ovviamente.
Da grandi scopriamo che mamma e papà a volte furono ingiusti nel punirci come nel premiarci e che se avessimo fatto più attenzione o fossimo stati più scaltri di quello che la nostra età ci permetteva, li avremmo ingannati senza alcuna conseguenza sul nostro tempo libero o le nostre chiappe. Questa consapevolezza ci offre sollievo e ci deprime insieme perché se nella vita la punizione non è sicura non lo è neanche il premio. Quando a volte facciamo qualcosa di veramente efficace nel nostro lavoro non è detto che il datore se ne renda conto o ci metta nella busta paga un bonus mensile. Potrebbe anzi darlo a un nostro collega, riconoscendo a lui meriti che apparterrebbero a noi. Questo, ovviamente, ci rode. Ma le cose vanno ancora peggio se commettiamo qualcosa di sbagliato e non veniamo puniti.
I personaggi “buoni” della stragrande maggioranza dei racconti dell’orrore e, in special modo quelli di fantasmi, hanno fatto qualcosa che non avrebbero dovuto fare. Da questa cosa è scaturito un vantaggio notevole che magari li ha resi ricchi, gli ha permesso di scampare a un pericolo ai danni di qualcun altro e così via. Solitamente il fantasma che torna a perseguitarli non è altri che il senso di colpa e la morte finale di quei personaggi (o la follia che li possiede) e che è dovuta allo spettro vendicatore è l’agognata espiazione, temuta e sperata. Come sperata?, direte voi. Eppure è così, moltissimi colpevoli, pur trascorrendo la vita a fuggire, nascondere e mentire, provano un gran bisogno di liberarsi del senso di colpa che li fa soffocare. La punizione è la sola via possibile per neutralizzare il tarlo e i bimbi rinchiusi in loro gli dicono ogni notte, mentre si rigirano nel letto, che presto o tardi una punizione arriverà, comunque, che lo vogliano o no, quindi tanto varrebbe arrendersi e smetterla di vivere con la paura. Tutto questo è banale, niente di nuovo ma c’è un fatto che forse non avete notato e con voi la stragrande maggioranza dei critici letterari: nelle storie di fantasmi si sono sempre concentrati a esaminare lo stato e il percorso psicologico dei personaggi ignorando quello dell’altra componente attiva di un racconto, i lettori.
E da lettore dico che spesso quel senso di angoscia e di paura fottuta che mi lasciano certi racconti (piuttosto che altri) non è che il MIO senso di colpa. Prendiamo il film The Comeback di Pete Walker: una coppia di vecchietti decide di uccidere tutti gli amici di un cantante pop, colpevole secondo loro di aver spinto al suicidio la propria figlia con le sue canzoni lascive prima e con la scelta poi, invero innocente, di sposarsi con una gran bella donna, distruggendo in un colpo solo le speranze della ragazza di sposar lei il suo principe azzurro con la chitarra. Bisogna tener presente che a volte c’è la variante che lo spettro non perseguiti un colpevole ma un innocente (o meglio, uno che si crede tale ma che non sa di aver involontariamente fatto morire qualcuno o causato tragedie collettive). Un cantante pop però non può ignorare che la sua musica, una volta raggiunto il successo vero finisca nella cameretta di tante ragazzine sensibili e impressionabili, questa è la sua colpa. Siamo sicuri che anche se uno come Ozzy Osbourne ha sempre creduto nella propria innocenza in merito ai tre ragazzi suicidatisi al seguito dell’ascolto ripetuto di un suo brano dal titolo Suicide Solution, nel suo profondo, tra i quattro neuroni che gli restano, lui abbia provato un senso di colpa per quei fatti e che un autore di storie di fantasmi gli avrebbe permesso di espiare lo scotto facendogli incontrare i tre giovani e trasformandoli poi in un cappio per Ozzy stesso. Ovviamente i genitori che incriminarono il cantante di aver costretto i figli ad ammazzarsi grazie a dei messaggi subliminali nascosti in un suo brano sono stati irrazionali ma i sensi di colpa sono irrazionali, spesso ingiusti. Ci affliggiamo per cose che in effetti neanche sono nostre, ma è più forte di noi. Se investiamo la macchina di un ubriaco che ha preso un senso unico a tutta velocità e dallo scontro muore uno dei suoi figli, nessuno ci accuserebbe di omicidio, ma in certi momenti una responsabilità di non essere riusciti a evitare l’auto che arrivava contro di noi a tutta velocità, ce la metteremmo in conto da soli.
Io faccio queste considerazioni dando per scontato che tutti noi siamo vittime del meccanismo dei sensi di colpa ma dobbiamo anche tener presente che certi individui non ne provano affatto e sarebbero capaci di uccidere bambini nella calce viva ogni giorno e andarsene a letto ogni sera come niente fosse. I tipi così non hanno fantasmi, purtroppo e spesso nemmeno punizioni. E in una storia classica di spettri non ne vedrebbero poiché il senso di colpa, che funge come un terzo occhio e li individua, sarebbe cieco. Morirebbero senza capire il motivo, spinti da migliaia di manine invisibili nella calce viva.
Torniamo però ai vecchietti persecutori del cantante pop nel film di Walker. Come mai una volta spenta la TV per andare in bagno io sento una strana tensione al pensiero di incontrare uno di quei vecchietti ghignanti in fondo al corridoio? Sono io il cantante pop? Ho forse ammazzato io quella ragazzina con le mie canzoni? No, però c’è qualcosa che ha collegato il senso di colpa del cantante protagonista al mio, per ragioni che solo uno psicologo potrebbe indagare e appurare. Magari è perché ho sempre trattato male mia nonna e al suo funerale non ho provato tutto il dolore che avrei dovuto. Immaginare mia nonna bianca in viso e con le orbite vuote, che mi attende con un coltellaccio in fondo a una stanza per farmi pagare gli insulti, le vessazioni che le ho inflitto potrebbe essere il motivo che un film come The Comeback, tutto sommato abbastanza mediocre, non riuscirei a rivederlo da solo, di notte, nella grande casa dei miei genitori (dove la nonna è morta) mentre fuori imperversa un temporale. Nè The Comeback, né tutti i film di Walker (prendete Nero Criminale con la scena del sogno in cui la protagonista vede la sua vecchia matrigna offrirle un pezzo di carne umana) sempre con anziani assassini in agguato… mentre lo scrivo avverto un pizzicore in cima alle spalle e non mi sogno neanche di voltarmi a guardare.
Il personaggio di The Comeback, il cantante, però non soffre per aver spinto al suicidio una ragazzina che lo adorava e nemmeno per gli omicidi che avvengono intorno a lui. Può subire “dopo” il film il rimorso per queste cose ma fino agli ultimi minuti non può neanche immaginarsele. Lui ha dentro un altro tipo di tarlo. Ha lasciato la donna che amava perché lei gli impediva di dedicarsi pienamente alla propria arte, ne era gelosa. Aver scelto di chiudere il romanzo più intenso della sua vita pesa sulla sfida di dover creare un disco che sia all’altezza di quelli antecedenti al matrimonio infelice. E se lui avesse detto no all’amore per un talento che comunque non gli avrebbe più permesso di essere un artista di successo? Ecco, cosa spinge il personaggio all’insonnia, allo stress che causa poi visioni di morte in parte create dai vecchietti persecutori ma in parte (come scopriremo nel finale) sue proprie.
Lasciamo perdere il film di Walker e passiamo a qualche altro titolo. Per esempio io non provo nessuna paura quando guardo un film come Non aprite quella porta, dove una famiglia di cannibali imperversa per le campagne texane, ma La casa dalle finestre che ridono, con le sue dimore vetuste e buie, i suoi travestiti psicotici in abiti curiali e le streghe assassine che imperversano in vecchie soffitte, mi leva il sonno. In quel film c’è un restauratore di affreschi che torna nel paesino in cui è nato e finisce per indagare su qualcosa in cui non dovrebbe immischiarsi. La nostra paura della morte, che condividiamo con lui, nasce dalla punizione che arriva quando ci occupiamo di cose che non ci riguardano, mitigata dal senso di giustizia che spinge una persona onesta a fare in modo di contribuire alla scoperta e alla neutralizzazione di un pericoloso assassino. Impedirsi di seguire quella via genererebbe un altro senso di colpa e notate, in fondo qualsiasi cosa facciamo o non facciamo produce fantasmi e sensi di colpa nella vita come nelle migliori storie di spettri.
Il protagonista del film di Pupi Avati finisce per soccombere bussando alle porte dell’indifferenza generale. La gente del paesino quella regola del farsi i fatti propri la osserva eccome e più di una volta consiglia al restauratore di seguirla pure lui, finire di sistemare l’affresco e telare ma lui niente e alla fine, sconfitto dall’omertà generale e dalla diabolica abilità delle vecchie sorelle, si consegna egli stesso ai mostri con un’espressione di terrore certo, mescolato quasi a un senso di sollievo (che forse nel volto di Capolicchio vedo solo io, ne convengo).
Il film di Avati, rispetto a quello di Walker pone la questione del senso di colpa/ponte tra spettatore e attore in modo meno complesso. Abbiamo dei motivi chiari e voluti per “sentire” la paura e lo stress del protagonista e questo ci fa tifare per lui e ci angoscia, ma sono cose che fanno parte della normale immedesimazione di quando vediamo un’opera narrativa ben messa. Sono però radici più profonde che come tentacoli si scatenano e ci legano in modo ossessivo a un film o un libro, magari neanche tanto riuscito e che però non smette di perseguitarci.
Come mai La casa dalle finestre che ridono abbia una presa tanto sconvolgente su me, spettatore, mentre un altro magari si farà sopra grossi sbadigli è questione complessa e legata forse ai miei trascorsi di travestitismo e diserzione della religione cattolica (e una brutta esperienza da bambino, quando rimasi chiuso in una Chiesa per venti minuti) oltre alle più ataviche paure dell’ignoto, l’invasione dello spazio vitale e l’istinto di sopravvivenza che in quanto animali raziocinanti, noi fruitori di arte orrorifica dobbiamo mettere in conto comunque.
Ma questa paura così intrisa delle mie paranoie e del mio senso di colpa, scaturita dalla visione del film di Avati sa di dolore. Mi si infila nel profondo, come una lama, e non mi lascia in pace per giorni. E quindi penso che le storie horror che più mi inquietano siano anche quelle che mi fanno soffrire per qualcosa che celo nel profondo di me stesso.
Sono convinto che i più fissati spettatori/lettori di roba horror, specie quella rivolta allo spavento più che al raccapriccio, soffrano di un radicato senso di colpa che li affligge per le più disparate questioni. Se metteste in fila i libri, film che davvero vi hanno impressionato e tolto il sonno, trovereste la chiave dei vostri inghippi esistenziali. La figura dello spettro è la perfetta materializzazione del senso di colpa: sfuggente, invincibile, impalpabile, necessitante di un esorcismo che la società offre in formato di galera, sedie elettriche e pubblica gogna (mediatica) che per voi colpevoli incastrati nell’impunità sarebbero “morte sociale” e per il vostro fantasma/senso di colpa costituirebbero una sepoltura decorosa con tanto di cerimonia che lo riconsegni all’oblio dell’altromondo. Pensate a quello che fanno gli analisti, dissotterrano i nostri cadaveri della memoria, li identificano e gli danno il giusto luogo e il giusto rito di sepoltura, neutralizzandoli o quasi. Le ricadute possibili di chi è a fine terapia in fondo sono come dei doppi, inquietanti finali al termine di un buon racconto spettrale.