La pelle di Satana

Il 1600 è il secolo di Montaigne, Cartesio, Pascal, Galileo e di Satanasso. In Francia, in Inghilterra, Spagna, Italia e America il male tenta un arrembaggio tra i figli di dio plagiando la mente di povere contadine, signorotte insospettabili, vecchi emarginati e bambine di gran signori.

Siamo da sempre stati abituati, noi figli della modernità totalitaria e del “raziocidio” di ogni poetica lotta tra bene e male a vedere la caccia alle streghe come la più grossa megacantonata della Chiesa Cristiana. Ma è interessante mettere sullo stesso livello la serie televisiva Salem, La pelle di Satana e Il grande inquisitore: i primi due per la scelta di adottare una prospettiva “superstiziosa”, come se le streghe e i demoni esistessero davvero e nei villaggi dove furono bruciate decine di donne innocenti in realtà si stessero battagliando diavoli terribili e temerari soldati di dio piuttosto confusi; Il film di Michael Reeves per un legame palese con La palle di Satana dovuto a una parentela tematica rovesciata: i demoni sono i buoni. 

In tutti e tre i casi abbiamo una finestra sul Seicento britannico/americano; e da quello che scorgiamo non viene gran voglia di passarci il fine settimana. Tra Oliver Cromwell, dittatore puritano della sola Inghilterra sc(re)ditata della corona e Matteo Hopkins, cacciatore di streghe, ricordato negli annali della cronaca più nera come un lestofante profittatore che fece ardere “esoteriste” un tanto al chilo in cambio di bei guadagni, non c’era granché da stare allegri, ma la figura di Satanasso in carne e ossa, spuntato tra una barbabietola e una rapa e pronto a soggiogare qualche contadinella è affascinante e di sicuro in quel secolo molta gente ci credette, come oggi noi scorgiamo scie ghimiche nel cielo tevzo, .

La pelle di Satana è stato visto (Nocturno, dossier sul diavolo) come una metafora del periglioso momento transitorio della decade sessanta-settanta, tra figli dei fiori di Mansoniani e diavoli a zuppo nella controcultura lisergica anarcoide. Ci starebbe. Infatti il film riecheggia più le comuni hippies oscure condite di stupri e mutilazioni rituali che i classici uomini di potere che da congreganti incappucciati sfilano di notte a Stonehenge e impalmano la squillo spacciata per verginale messiana.

La storia è presto detta: un villaggio inglese finisce per farsi possedere interamente dal demonio. Un giudice guidato da un esercito di cani e uomini grossi e pelati cerca di arginare il virus satanico. Tutto comincia con una misteriosa maschera ossea ritrovata da un contadino in un campo, tra le zolle smosse dal proprio stesso aratro e finisce con un gran rogo purificatorio e tutto sommato anche un tantino melanconico quanto le ellissi sfocate che andavano di moda nel cinema di genere anni 70.

La figura del giudice è psicologicamante semplificata con la faciloneria emblematica delle fiabe: prima è uno scettico schierato con i filosofi e gli scienziati, lui ride delle credulonerìe locali, poi si tramuta, ubriacato dagli acari birichini di un grimorio sul diavolo e un paio di indizi inquietanti, in un crociato divinamente guidato contro i rossi signori del magma sotterraneo. Ma a parte queste quisquilie da sceneggiatori, il personaggio è perfetto esempio di autorità pronta a battersi in nome della trascendenza cristoide contro la parrocchia di venduti al demonio. Appunto lui, il diavolo, che si vede e non si vede. Prima a spezzoni sui corpi degli adepti (le unghie lunghe, uno stralcio di pelle irsubica) e poi quasi per intero, a dimensioni naturali, ma tale a uno scimmiotto confuso e un po’ intimidito da tanto vociare degli adepti attorno a lui.

Satana è splendido così però, irresistibile perché impacciato e grezzo come un contadino seicentesco avrebbe potuto concepirlo. Un costume da gorilla coperto di frasche o poco più ma non importa. Sulla serie sciccosa della Fox Salem l’estetica bondage e steampunk rendono la composta fantasiosa come una marmella patinata di estetizzanti e sinuosi pornografismi.

Insomma, siamo chiari. Anche il diavolo si restyla ma se inventi una storia nel 600 dovresti rispettare le illustrazioni del periodo, diventa tutto più fico. Ne Il Grande Inquisitore il solo elemento comune è la boscaglia britannica, così suadente e birichina, su un tetto di nubi e un manto di afa. Matteo Hopkins è un vile e un bastardo indifendibile ma non muore di santa ragione per mano di qualche iroso contendente come accade nel film, bensì di morbo. Sottigliezze, d’accordo però è la sola concessione al fantastico che avviene in un film sopravvalutato e cultizzato senza premurarsi prima di vederlo lontano dall’erba marzolina e senza levarsi le lenti prosciuttose di stima per Vincent Price o di mesto rammarico per la morte prematura, suicida, di un gran talento registico sprecato, il giovane e complicato Reeves.

La pelle di Satana restituisce alla superstizione il suo giusto peso e metaforizza un presente magico e minacciosamente distorto dalla vista reazionaria dei Nixonisti. È un filmino da seconda divisione, d’accordo, ma così compatto e robusto e con due cose straordinarie, anzi tre.

La prima è la scena censurabilissima dello stupro nel bosco, dove una giovane promessa sposa finisce per cavalcare un priapesco seguace di Bafomello e dalle urla di paura e dolore trasmuta in una cavallatrice frenetica alla faccia del suo promesso sposo che urla perduto tra i rami fitti di un bosco che dovrebbe conoscere a menadito e in cui invece annaspa in netto ritardo sui malfattori.

La seconda cosa è la colonna sonora birboncella e assillante. Si regge su un trallallero di tromba che indulge fino allo scorno e poi si sfoglia in una discesa a valle di violini melanconici molto toccanti via via che si riascoltano. Vien voglia di fischiettarli.

Poi c’è il terrore irrazionale delle prime intrusioni fantastiche. Non sono gli agguati boschivi, il bodycount o il call of duty luciferino della seconda parte e nemmeno la suggestiva processione finale di contadini ubriachi e armati di pale e torce che si dirigono a scaldar la congrega di sozzi apostati. No, è quando una prima giovane vittima trova di che urlare come una fella nella confortevole soffitta di una suocera renitente e una volta fatta uscire da lì per la consegna in un manicomio oltre alle unghie da orso ci mette una faccia di teneri sorrisi e smarriti ammiccamenti.

Oppure, sempre nella soffitta, la crescente rullata del nemico che si avvicina, da un buio apparentemente finito e che invece risulta essere una porta sul nulla da cui il gregge del nero caprone reclama in tributo carnosi innocenti. Sequenza indimenticabile.

Per il resto la cagione che riallacci un film tanto atipico a un precedente retaggio narrativo credo sia Gogol e le sue storielle fenomeniche della Veglia alla fattoria di Dikanka, ma su questo poi torneremo. Al momento possiamo infilare La pelle di Satana più nel realismo magico che il filone orrorifico del diabolo che tutti ci porti!