Aboliamo la critica?

Pochi mesi fa, rovistando nella mia biblioteca ho finito per ritrovarmi tra le dita impolverate un saggio di George Steiner. Il titolo è Vere presenze e quando lo acquistai, nel 1998, mi lasciai sedurre da un estratto di un’intervista all’autore su Linea D’Ombra, che suppongo sia una rivista edita al tempo.

Ecco lo stralcio: “Agli studenti bisogna dire di non leggere le critiche, ma di leggere i testi. Tutto il mio libro è un grido d’orrore per ciò che accade nel mondo universitario. I miei studenti a Cambridge hanno un esame in cui discutono l’opinione di T.S. Eliot su Dante senza dover leggere Dante, un solo verso di Dante. (…) Quello che ci vuole è un’interpretazione dinamica, un’interpretazione che sia azione e non passività. Leggere la critica, leggere i testi “secondari” significa essere passivi, come davanti alla televisione; significa rinunciare alla responsabilità dell’azione. Al centro della mia posizione c’è una cosa estremamente semplice e chiara. È un sonetto di Rilke, quello al torso antico di Apollo, in cui lui dice “Cambia la tua vita”. Una lettura seria e profonda cambia la mia vita: è un incontro con una apparizione imprevista, come un incontro all’angolo della strada con l’amante, con l0’amico, con il nemico mortale”.

Seducente non vi pare? Sì, mandiamo a cagare tutti quei noiosi testi professorali, spocchiosi, pallosi e prendiamo in mano Dante, Milton, Rilke. Godiamoci direttamente la fonte anziché sorbirci il rigurgito bilioso di tanti mister nessuno che pontificano a dispetto della propria inutilità, inconsapevoli che la morte dappresso, prima o poi li ingoierà lasciandoci solo una montagna di libri destinati all’inevitabile e meritata macerazione.

Un vero toccasana per me, in quel 1998, visto che da poco avevo messo piede nella città universitaria de La Sapienza. Di sicuro, se il saggio non avesse mantenuto un impulso così devastatore anche nelle argomentazioni interne, comunque avrebbe aiutato il mio coraggio a restar saldo verso professori e sportellisti. Inutile crederlo. Aprii il libro di Steiner e non ci capii niente. Dopo una ventina di pagine lo mollai sentendomi un cretino, un ignorante, un condannato al fallimento universitario.

E così fu.

Poi quest’estate, ritrovandolo e ricominciandolo da capo e ho scoperto non solo di riuscire a capirci qualcosa ma che tutto sommato le obiezioni mosse da Steiner al mondo universitario, alla passività del pubblico colto sono sì condivisibili ma non senza qualche appunto da mettergli in conto. Uno grosso come una casa: lui cosa avrebbe combinato nella vita se la gente si fosse decisa a fare a meno degli intermediari di testo?

Un discorso pieno di rischi, quindi e nobile da parte sua. Come se un idraulico scrivesse un manifesto di incoraggiamento a cimentarsi tutti noi, personalmente con i tubi, anziché perder tempo dietro a tipi esosi e inaffidabili come lui.

Poi c’erano dei concetti intriganti. Per dire: se proprio non si può fare a meno di un’opera critica tanto vale leggere quella degli artisti che si cimentano con quel determinato tipo di arte. Per dire, leggete i saggi di Orwell su Swift e non quelli di Bloom su Shakespeare. Secondo Steiner, infatti, il contributo “critico” più prezioso è quello di ogni artista nel suo puro e semplice creare. Se io scrivessi un romanzo sarebbe in ogni caso un parto della mia fantasia a uso e consumo delle masse che vogliono viaggiare in un mondo inesistente ma anche una dichiarazione di come secondo me dovrebbe essere un romanzo se messo a confronto con tutti i romanzi già scritti. Le fiabe di Andersen esprimono un giudizio critico verso quelle dei Grimm. Collodi con Pinocchio disse la sua a entrambi. Ogni autore fa delle scelte su come imbastire una storia e quelle scelte, definite stilistiche, sono critiche verso tutto l’esistente. Esprimono nel loro semplice essere storie “diverse”, una critica a ciò che non è come esse.

Superata la prima parte, abbastanza comprensibile, il resto del libro di Steiner è una roba insopportabile. Un viaggio nel mondo della critica universitaria che vorrebbe essere una confessione generale di colpe imperdonabili e che invece diventa un tedioso saggio “universitariale” sulla critica che complica e allontana la gente dalla semplicità dei testi.

La semplicità, l’accessibilità, l’immediatezza di Dante, per dire?

Ho chiuso Vere presenze con un sorriso. Potevo pretendere di mandar giù un simile mattone, nel 1998? Di capirne anche solo un terzo? Io che venivo da un istituto tecnico di provincia e la cosa più complessa che fossi riuscito a leggere senza svenire erano state alcuni saggi conferenzieri di Thomas Mann su Freud, Schopenhauer, Nietzsche? Inoltre il discorso “rottamatorio” di Steiner non era neanche nuovo. C’era già un articolo di Aldous Huxley (quello che ispirò il nome The Doors, esatto) compreso in una raccolta di suoi saggi dal titolo La volgarità in letteratura (Edizioni Il Mulino) in cui denunciava la stessa merda di Steiner riguardo l’inutile e gigantesca produzione universitaria di testi che non avrebbero mai dato alcun contributo alla storia umana se paragonato ai libri su cui si basavano. Leggete qui:

“Gran parte delle innumerevoli tesi che si producono ogni anno nelle varie università del mondo è inconcludente. (…) Il numero degli studenti che aspirano a un sapere specializzando è relativamente esiguo: vi sono per ogni specializzando, centinaia di semplici laureati che conseguono il titolo di studio rivendendo al dettaglio un po’ di conoscenza e molta critica letteraria altrui. Anche la critica segue le mode, e il candidato deve essere in grado di rivomitare gli orientamenti in voga nei circoli accademici al tempo del suo travaglio studentesco.” (1923-1931)

Oggi le cose non sono tanto diverse e sebbene Steiner e Huxley parlino di un’Inghilterra ormai lontana nel tempo, in Italia, per esperienza diretta posso dire che la preparazione universitaria sia abbastanza superficiale e si basi su libri professorali che spiegano altri libri di cui spesso chi studia non è tenuto a leggere una pagina. Tanto più che, come rilevava Savinio, tosto sostenitore dell’autodidattismo, chi persegue la laurea è come se a quel punto avesse raggiunto un traguardo di uomo sufficientemente colto e quella patente gli desse il potere di smetterla di farsi una cultura e dedicarsi ad altre faccende: tipo lavorare, spendere, la fica, guadagnare e vivere spiritualmente alla giornata.

Ma torniamo a Steiner. Lui in fondo dice una cosa ben più precisa di Huxley, il cui discorso più o meno verte sullo stesso argomento ma non osa proporre la smobilitazione del fatturato letterario delle Università e sul metodo rigurgitativo degli studentelli. Secondo il saggista di Vere presenze è auspicabile una vera e propria chiusura verso qualsiasi intermediario e un rapporto direttissimo tra letteratura e lettori. Stupisce che sia Oscar Wilde a rispondergli dai meandri di trascorse decadenze e senza neanche sforzarsi troppo, invalidando una sparata che è solo uno specchietto per allodole “ignorantelle” come il sottoscritto. Nel 1998 comprai subito il saggio di Steiner convinto magari di risparmiarmi anni e anni di letture saggistiche faticose e invece trovando solo un altro saggio critico palloso e non meno futile di quelli che prendeva di mira: C’è stato un qualche cambiamento nelle università o nei titoli che la gente sfoggia in metro o sull’autobus dopo il saggio Vere presenze? No) Le cose sono rimaste come prima e per quanto, paradossali e marcescibili, è meglio che sia così, secondo me e anche Oscar Wilde.

Oscar Wilde, nel suo saggio critico in forma di dialoghi filosofico-sbarazzini del 1891, spiega che non solo sarebbe auspicabile evitare di leggere saggi critici di autori su altri autori o di pittori su altri pittori e cosi via, ma che è giusto leggere saggi critici su un grande scrittore invece di leggere semplicemente il grande scrittore:

Sentite: “Perché dovremmo leggere ciò che è stato scritto su Milton e non direttamente lui? Perché godere Milton è la ricompensa di studi approfonditi.” Inoltre: “L’artista non può essere il miglior giudice della propria forma d’arte. Un grande artista non può concepire che il mondo venga concepito in una forma e in condizioni diverse da quelle che lui ha scelto. Per il grande pittore c’è solo una maniera di dipingere, quella che lui applica, il critico estetico può invece apprezzarle tutte.”

E Steiner è servito.

Proseguendo la lettura del saggio di Wilde, che consiglio a chiunque aspiri a fare il critico letterario, si offre una risposta a tante altre domande “ovvie” che sono rivolte da chi poco intende ma molto pensa di intendere sul rapporto tra letteratura e critica letteraria. Oggi alcuni critici italiani come Filippo La Porta rivendicano un ruolo creativo della critica, un valore, quello dei propri saggi, almeno pari alle opere trattate. Citando Massimiliano Parente che cita (disprezzandolo) La Porta, gli scritti di De Benedetti su Proust sono importanti e di valore quanto La Recherche su cui si basano.

 
Ovviamente nessuno scrittore sarebbe d’accordo ma con sorpresa Wilde avvalorerebbe questa tesi, anzi. Andrebbe oltre riponendo nella critica un valore maggiore rispetto all’opera di cui si occupa. Chiunque può scrivere un romanzo, chiunque può agire, dice Wilde. L’azione è per chi non ha immaginazione. Il difficile non è scrivere romanzi ma NON agire. Il lavoro di un critico, nella sua migliore espressione, è la storia di un’anima libera dall’assillo della plausibilità ed è più grande di uno scrittore perché a differenza dell’artista, capace di concepire e condividere una sola ipotesi tecnico-espressiva dell’arte (la sua medesima) il critico le intende tutte e questo proprio perché incapace di praticarne alcuna.

Si sa, Wilde ama paradossare. Dopo un po’ diventa prevedibile nel suo modo di capovolgere i modi comuni di pensare, tuttavia fa bene misurarsi con questi suoi concetti roversi, tanto più credibili perché concepiti da un romanziere, un commediografo, un poeta e un autore di racconti che avrebbe potuto difendere la propria categoria e lamentarsi di quanto fosse inutile la critica del proprio tempo.

Abbiamo bisogno della critica, dice Oscar Wilde. La critica è indispensabile poiché determina l’evoluzione. La creazione pura tende alla cieca reiterazione. Il concetto di crescita evolutiva applicato all’arte non mi convince e nemmeno quello che nella reiterazione non vi sia un qualche cammino evolutivo, ma ma da qualche parte bisogna pure fermarsi. Ci torneremo.