Pete Walker – La casa del peccato mortale

PRIMA PARTE – A PROPOSITO DI PETE WALKER

Mi capita di leggere un sacco di recensioni, di film, telefilm, libri, fumetti, su internet e mi stupisco ogni volta dell’enorme quantità di dati profusi dagli autori dei pezzi. Date, nomi, cognomi, curiosità a non finire. Non nego che avere questa sfilza di informazioni (di solito precise) mi aiuti come lettore non informato a farmi un quadro d’insieme più preciso ma vorrei tanto sottoporre chi scrive a un quiz, giusto due o tre settimane, magari un mese dopo la pubblicazione della loro supercompetentissima recensione, poniamo, di un film. Scommetto che a stento ricorderebbero il nome del regista, dell’attore principale e giusto per una morbosa fissazione verso i montatori, il nome del montatore, appunto. E tanto meno io che ho letto l’articolo sarei in grado di tener testa al mio quiz. E questo perché? Semplice, avete già la risposta. Chi scrive i pezzi mangia una gran quantità di notizie, nozioni, info e le rigurgita… ma che dico, le risputa sul piatto pulito del suo blog e nel nostro di lettori, che ci soffermiamo a rimirare gli elementi galleggianti in questa zuppa cognitiva e temo, lì li lasceremmo stare, riconsegnando il piatto all’oste.

Ma non è importante ricordare, diranno molti di quei blogger superinformati e supercompetentissimi all’uopo, al di là della biodegradabile cultura posticcia e di quanto sia capace chi la discetta a contenersela in testa, quello che conta è la possibilità di giudicare un film e “guardarlo” a 360 gradi. Ha senso dire che il regista ha girato già tre film di altro genere rispetto al suo nuovo lungometraggio horror, ma non è necessario sapere se i suoi precedenti lavori siano stati o meno di qualità o di qualche successo. Conta solo informare il lettore che il regista è abbastanza esperto da girare un film e che al suo quarto l’eventuale scarsezza di risultati tecnici non sarebbe davvero scusabile con l’attenuante del debutto. Esempio pigro ma è così, no?

Per sapere se il regista è esperto o no, basta scorrere la sua pagina su wikipedia. Da lì, in pochi minuti si conoscerà praticamente tutto, al fine di giudicare più o meno in modo corretto la sua opera in esame.

Ma tutto questo ha un senso? Qui non si parla di divulgazione ma di passaparola. Secondo me viene meno qualcosa che chi è nato e cresciuto in epoca pre-internet può intendere rispetto a chi non ha avuto questa (s)fortuna. Nel 1994, se si voleva sapere qualcosa poniamo, del regista inglese Pete Walker (dopo aver magari visto La casa delle ombre lunghe che in sintesi è il suo lavoro meno personale, almeno in superficie, bisognava impiegare molto tempo, soldi e volontà. Scovare magari qualche saggio cinematografico pubblicato da un editore indipendente, ordinare un libriccino a tiratura limitata di tal Fabio Giovannini e attendere quasi un mese prima di riceverlo. Spendere soldi per avere altri film di Walker e pagarli magari tantissimo in una versione copia della copia di un’altra registrazione tagliata e presa dalla TV sud-americana.

Tutto questo aumentava in chi si faceva ricercatore la voglia e la fissa per Pete Walker e durante le pause infinite tra una preziosa informazione, una curiosità, un film del regista inglese, c’erano mesi e mesi di tempo trascorsi a rimuginare su quello che del regista inglese si era già visto, su come potesse essere fico quello che non si era ancora visto, su come fosse la sua faccia, se fosse vivo ancora oppure no. Questo produceva nell’appassionato una sedimentazione di informazioni e curiosità che l’avrebbero accompagnato negli anni, permettendogli poi di scrivere o girare un omaggio a Walker visceralmente sentito. Ora, io non dico che oggi nessuno sia in grado, dopo aver divorato in streaming nel giro di tre giorni l’intera filmografia di Walker e letto alla svelta qualche vecchia intervista tradotta con google, visto le foto, qualche documentario sul british horror anni 70 su you tube, insomma, non dico che poi non si sia in grado di partorire un articolo decente sul cinema di questo regista, anzi. Spesso si ha uno sguardo più ampio e distaccato e quindi obbiettivo. Pensate invece a quanto sia amorevole l’occhio di chi ha atteso e digerito i film di Walker nell’arco di vent’anni? Per esempio, se devo dire di me, ho immaginato La casa del peccato mortale in così tanti modi che il giorno in cui finalmente riuscii a vederla (copia della copia registrata da Italia 1 di quando si scriveva l’uno grande inquadrucciato, avete presente?) rimasi quasi deluso e mi costrinsi ad amarla con ripetute e insistite visioni. Uno che invece se lo vede dieci minuti dopo averne scoperto l’esistenza avrà meno pretese e meno immaginazione da soddisfare e giudicherà il film in modo meno folle.

Però mi chiedo se non sia meglio nutrire la passione, alimentarla con frustrazione e fatica, piuttosto che soddisfarla in quattro e quattr’otto. Dopo cosa vi resta? Pochi fotogrammi, qualche dato di cui neanche siete certi. Avete mai provato a scrivere senza internet, magari un giorno che dopo un temporale vi è saltato il collegamento? Ebbene, non vi siete sentiti dei veri incapaci? Eppure è l’amore per il cinema che vi muove a scriverne, è la fissa per certe cose che vi sospingono entro certi suoi sottogeneri, ma senza google non potete imbastire un articolo di una paginetta, perché magari non sapete neanche come si scrive Pete Walker, se “Walker” o “Walcker” o “Wolker”, visto che avete letto il suo nome così di sfuggita, senza pretendere di ricordarlo. Non vi è mai capitato di scrivere il nome di Pete Walker a caratteri cubitali sul vostro diario e di colorarlo di nero e striature di sangue durante una pallosissima ora di religione. Ecco, in fondo è di questo che sto parlando. Meno informazioni, meno film e più tempo. Non vi chiedo di abbandonare internet, sarebbe stupido. La rete porta così tanti vantaggi che potreste addirittura avvicinare e intervistare per la vostra webzine il grande Frank Henenlotter di Basket Case. E you tube potrebbe mostrarvi film che anni fa sarebbe stato impensabile poter vedere, tipo The Wicker Man. Ma allo stesso tempo favorisce una dieta molto più abbondante e impigrente. Potete vedervi decine di film a settimana e farvi una cultura su un determinato attore in poche settimane, ma cosa vi resterebbe? Nulla o quasi. Ci sarebbe bisogno di spazio per il nuovo quantitativo di film da vedere e su cui scrivere, quindi al diavolo le cose già viste e già conosciute.

Ora io proporrei un compromesso tra vecchio e nuovo. Avete provato a consultare un vocabolario quando non conoscete una parola? Non quello di wikipedia (che potrebbe anche essere inesatto) ma quello della Zanichelli del 2000. Non avete più idea di dove sia il vostro vecchio Zanichelli??? Male, direi. Avete mai provato a controllare se il nome di un regista su cui state scrivendo è giusto così? Non su internet ma sul vostro vecchio saggio dei fratelli Castoldi sul cinema Splatter? Non l’avete più? Non così male, ma in fondo direi che non è neanche tanto bene.

Immaginate di fare una passeggiata a piedi, respirate l’aria buona, guardate le case, le macchine parcheggiate, potete persino notare una cacca di piccione sul cofano di una 500. Ok, potete vedere quanti uccellini ci sono su un albero, se quell’albero ha un ramo spezzato  e dopo un’ora di tragitto, tra andata e ritorno, la vostra mente avrà un’idea abbastanza definita della strada percorsa. Provate a farla in macchina quella passeggiata. Cosa vedete? La strada, qualche insegna già guardata mille volte, un passante che conoscete e a cui fate un cenno con la mano, anche se lui non ha avuto il tempo di riconoscervi da dietro il vetro della vostra auto. Tornate indietro e cosa vi resta, dopo i dieci minuti occorsi per la passeggiata? Ecco, io direi che il rapporto di assimilazione e “ossessivizzazione” verso un film o un regista sia paragonabile a una passeggiata a piedi e una in macchina. E oggi tutti vanno in macchina e conoscono l’opera di un regista magari totalmente ma con la stessa profondità e attenzione di chi percorre tutta la sua vita con un motore sotto il culo senza neanche chiedersi dove cazzo stia andando così di fretta!

È questo tempo? Oggi va così? Bisogna correre? Tutto è più veloce e anche noi lo siamo? Dobbiamo esserlo, direte. Ma questo correre generale, non fraintendetelo, è semplicemente un fuggire. Stanno tutti scappando e sapete da cosa? Dalla noia, dai cali di endorfine, dall’uggia di chi non ha ancora niente da pubblicare sul proprio blog perché il film non è riuscito a vederlo o magari non l’ha potuto finire e quindi è costretto o a bluffare e usando internet a scrivere una recensione ipocrita (o magari non scrivere e deprimersi perché tutti i siti continuano a pubblicare cose e la gente a condividerle e voi siete indietro, indietro…)

Stanno scappando tutti da se stessi. Non seguiteli e cercate con un po’ di coraggio di passeggiare a piedi. Di guardarvi intorno, di assimilare. Ci vuole tempo per assimilare, per far proprio qualcosa. Una volta che è lì dentro però rimane. E quello che siete è ciò che rimane nel vostro cuore (o nel cervello, sono parti della stessa cosa. Personalmente non credo al dominio romantico di un organo sugli altri: c’è chi pensa col culo e ama con l’esofago)

Sapete quante sere mi sono addormentato ripetendomi la filmografia di Tobe Hooper, con le date e delle recensioni di poche parole a ogni film? Decine e decine di sere. Ancora ricordo date e titoli. Cosa rimembro dei film del regista di Hostel o magari di quello che ha diretto The Innskeepers?

Ecco cosa sono io senza internet. Non ricordo neanche i loro nomi e scrivo i titoli in modo inesatto. Potrei correggere la riga sopra ma sarebbe sleale. Non so se Hostel e The Innskeepers si scrivano così, davvero.

Se una volta si studiava sui libri e si facevano le cose in anni e anni, un motivo c’era. Forse non siamo così svelti come la nostra linea ADSL può permettere, ci avete pensato? Ecco, io credo che magari la nostra testa sia ancora al passo di quando per sapere qualcosa ci voleva il tempo e la voglia di alzare il culo e andare in mansarda a recuperare un vecchio vocabolario. Ripensateci, alzarsi e percorrere il corridoio e le scale ripetendovi il termine che non conoscete per non dimenticarlo. Cercarlo sul vocabolario, scriverlo su un pezzo di carta e mandarvelo a memoria così da non cercarlo più. Magari poi lo dimenticavate perché giustamente, se una parola non la si usa mai, la si butta via, però di sicuro c’era un ricordo dietro la parola, fatto di odori, di immagini e di pazienti sforzi. E quelli restano. Ricordo bene quando tenevo un quaderno e ci scrivevo sette parole nuove al giorno. La maggior parte di quelle non le ricordo più ma ho ancora in testa come era il quaderno, l’odore di fritto della cucina di mia madre, un pomeriggio in cui faceva i dolci di carnevale e io scoprivo il significato e lo trascrivevo di parole come Coatto, Anabasi, Refrattario

E ricordo ogni pomeriggio in cui ho visto ogni film di Pete Walker. Dietro ogni film c’è un pezzo della mia vita. Mi chiedo quanti ricordi e quanta vita ci sia in tutti quei film (centinaia) che ho visto negli ultimi cinque anni grazie al web. Se voglio scoprirlo devo andare a rileggermi le decine e decine di recensioni che ho vomitato e sorprendermi di quanto sembrino scritte da un estraneo che ne sa più di me… o meglio, che finge di saperne più di me. E quando sono gli ignoranti a trasmettere le informazioni ad altri ignoranti, direi che la strada per la disfatta culturale sia prossima. Non sto scherzando.

SECONDA PARTE – FREUD E WALKER

Non ci si sofferma troppo a notarlo ma la maggior parte della narrativa, visivo/cartaceo o che si voglia, è basato sui teoremi freudiani. Anche i più grandi autori hanno finito per ricorrere a questa serie di stampini perfetti in cui incanalare le proprie ispirazioni. Quanti assassini, quanti uomini sofferenti, quante storie di personaggi freudiani che hanno finito per risolversi con la resa dei conti finale, in cui il protagonista deve affrontare il proprio trauma infantile, con la rimozione, con edipo, elettra e così via? Tanto si è detto su Freud come scrittore frustrato ed è giusto definirlo così. Sigmund soffrì lo scarso peso che i lettori e soprattutto i critici davano alla “letteratura” delle sue opere, visti soprattutto come trattati scientifici. Ebbene, la sua rivincita l’ha avuta: la psicanalisi ha permeato così tanto la narrativa di ieri e di oggi da finire per imbalsamarla in una serie di stereotipi banali sull’abisso della follia, della solitudine, dell’amore, dell’intero spettro emotivo dell’umana epopea. Norman Bates, per dirne uno, sia il libro che il romanzo di Psycho cosa sono se non delle tesine di psicanalisi con qualche scena pruriginosa nel romanzo e due o tre fenomenali lezioni di sintassi cinematografica?

Pete Walker su questo piano se la cavò abbastanza bene, non scivolando nel solito rimpiattino teorico del tutto che si riduce all’infanzia e ai traumi, tutto si spiega con il rifiuto della madre, con l’invidia del padre, del pene e via così. Nella sua voglia di criticare le basi precarie della società moderna occidentale, il regista inglese e il bravo sceneggiatore Gillivrey finirono per vedersela anche con la psicanalisi, con i traumi. Prendete non solo i cannibali di Nero Criminale (concepiti per sbugiardare la riabilitazione ottimistica e superficiale del sistema psichiatrico) ma il prete di La casa del peccato mortale con quel rapporto dello psicotico e la mamma plagiatrice e possessiva, è solo supposto, dobbiamo fidarci dei racconti del figlio malato perché la donna è una inerme vecchina vessata dalla badante e bloccata da un ictus che l’ha ridotta alla quasi vegetazione. Sembra una pezza esplicativa messa lì per dirci che dietro un prete psicotico c’è un edipo qualsiasi, ma se noi la smettiamo di dare per scontata la veridicità di una simile teoria, se proviamo ad ateizzarci da Freud, ad affrancarci dalla psicanalisi, come potremmo vedere la storia del prete di Walker? Che peso daremmo alla relazione morbosa con la madre?

In realtà è una trappola rivelata verso la fine. In questo film i danni cerebrali dell’assassino gli sono stati procurati dalla vita talare e non dalla mamma. Non è uno scivolone manieristico. Su un altro film di Walker poi, Schizo la tesi freudinana diventa il contrario. Proprio partendo da un trauma sessuale infantile riproposto insistentemente in modo sbagliato, ecco che le tante spiegazioni sul movente del pazzo persecutore, si sbriciolano quando scopriamo chi era la vittima del trauma e chi il carnefice inconsapevole. E da qui anche la geniale trovata di ingannare il pubblico affidandolo alla mente traviata della protagonista. Cosa che si ripete in The Comeback, dove alla fine capiamo che le allucinazioni erano sì provocate dai diabolici vegliardi ma anche insite nella testa del protagonista stesso, nevrotico di suo.

Guardando gli horror finisce sempre a tarallucci e Freud, però. Io ci sono cresciuto ma oggi mi domando se non sia tutta una stupida superstizione, peggio dei vampiri o dei licantropi, la psicanalisi. Pete Walker in questa ottica si salva ma non del tutto.

TERZA PARTE – PETE WALKER E IL SUO SCENEGGIATORE

In generale si tende a considerare i film come frutto del genio, della visione personale di un regista, definito soprattutto in Europa un “autore”. Anche se oggi le recensioni menzionano il lavoro del montatore, dello sceneggiatore o del direttore della fotografia per fare i fichi è inevitabile alla fine che le considerazioni più diffuse, i meriti e i demeriti ricadano su colui che pone la firma definitiva a quella che è sempre stata e, fino a quando la tecnologia non permetterà altrimenti, sarà sempre un’opera collettiva. In realtà si vedono bene le differenze se il cosiddetto autore rinuncia alla collaborazione di un certo sceneggiatore e passa lui stesso a scrivere i copioni o magari se invece sostituisce un montatore con un altro. Insomma, che il regista sia fondamentale è giusto pensarlo, ma non paragonatelo a un direttore d’orchestra, per dire. A Riccardo Muti, per citare il più celebre che abbiamo in Italia, non succederebbe mai di vedersi soffiare i meriti dell’esecuzione complessiva di una sinfonia dal suo primo violino e allo stesso modo nessuno se la prenderà con lui se quel malaugurato primo violino steccherà sul più bello. Il regista invece può benissimo, se inesperto, vedersi soffiare il film dal direttore della fotografia o dal primo attore. E se il suo primo attore finisce per recitare da cane, la colpa sarà in gran parte messa in conto sempre al regista che non ha saputo farlo esprimere al suo meglio.

Per dire quanto possa risultare fondamentale un regista nella recitazione degli attori basta citare Vittorio De Sica, capace di tirar fuori interpretazioni credibili da gente di strada o magari mettere a confronto Carlo Verdone e Dario Argento. Il primo ha saputo far passare per attore vero persino Silvio Muccino, il secondo ha reso innocuo e mediocre un fuoriclasse della recitazione come Adrien Brody.

Il problema è che quasi mai il regista è così competente da padroneggiare il lavoro dei suoi collaboratori. Di solito la maggior parte dei ragazzi con aspirazioni cinematografiche si proclamano futuri registi ancora prima di aver capito cosa sia la profondità di campo. Non sanno suonare uno strumento, non hanno la più vaga idea di cosa sia una fotografia in un film e confondono “sceneggiatura” con “scenografia” ma stanno già lì a blaterare di quando dirigeranno i propri film. Non voglio generalizzare ma spesso il regista è un tizio che non sa recitare, non sa suonare, non sa usare una cinepresa, non sa montare le immagini, non sa far nulla tranne dirigere il lavoro di chi al posto suo sa fare tutte quelle cose. Ed è un po’ deprimente che a distanza di anni e anni in cui la cultura cinematografica si è diffusa meglio, anche sul piano tecnico, si continui a vedere i film come opere del regista. Per dire, Nuovo Cinema Paradiso è di Tornatore e nessuno può negare che sia un film “suo”. C’è tutta la sua poetica, la sua filosofia, la sua passione, la sua vita. Ma se aveste visto la versione del regista prima che il produttore Franco Cristaldi ci rimettesse mano pesantemente trasformandolo nel drammone da oscar che tutti conoscete, non sareste più così sicuri che Nuovo Cinema Paradiso sia una cosa di Tornatore al cento per cento.

Altro esempio? Fellini. Nessuno più di lui è AUTORE. L’uomo che è diventato un aggettivo non solo per il cinema, un monopolizzatore della fantasia collettiva, uno strumento di lettura dei nostri sogni. Ebbene, avete presente le musiche dei suoi lavori? Le scriveva Nino Rota, esatto. Una volta chiesero a Morricone come mai non avesse lavorato per Fellini e lui rispose più o meno che Federico aveva pretese mortificanti per un musicista. Di musica non ne capiva assolutamente nulla e pretendeva più che altro delle marcette, motivetti circensi che Ennio, nonostante la sua professionalità non si era mai sentito di concedergli. E a proposito di Morricone, qualcuno può davvero sostenere che i film di Leone non siano anche film suoi? Chiudete gli occhi, fate partire uno score di Pino Donaggio, pensate ancora di vedere un western di Leone? Tenete presente che tutte le volte in cui (aneddoto raccontato da Verdone) Sergio si riuniva con i suoi collaboratori per discutere le musiche dei suoi film se ne usciva sempre con qualche melodia di sua invenzione venutagli in testa magari la mattina stessa sotto la doccia. “Ho io un motivo giusto, stavolta” esordiva e poi fischiettava verso Ennio il suo componimento zufolante fino a quando uno dei presenti non lo interrompeva per fargli notare “A Sé, ma questa è la Titina!” Era sempre “Io cerco la Titina, la cerco e non la trovo”. Rallentato, accelerato, un tono sotto, in controcanto ma sempre la Titina cantata da Chaplin in grammelot su Tempi Moderni. E Leone imbufalito gridava “non è uguale!” anzi “Nun è uguale!”

Andiamo, dire “i film di Visconti” è tutto sommato un modo convenzionale e comodo di riassumere l’opera di un collettivo o addirittura un concetto che aleggia, come uno spettro dimensionale, in una serie di film, magari non tutti dello stesso regista. Per dire, quando venne fuori Tarantino, lessi uno speciale in cui si mettevano a confronto non solo i suoi due film (i soli che avesse girato fino a quel punto) ma anche tutti quelli che aveva firmato come sceneggiatore. Oliver Stone e Tony Scott avrebbero avuto da ridire ma per chi scriveva di Quentin allora erano film in cui la poetica tarantiniana si perpetrava alla grande.

Al di là della questione dei meriti o meno, questo modo di leggere la storia del cinema riassumendolo attorno ai nomi di alcuni “autori” ha prodotto negli spettatori e soprattutto quelli che pretendono di intendersene, la tendenza deleteria a seguire in modo prono la strada di un regista convinti che conduca sempre a qualcosa di interessante. Chi ama Abel Ferrara cerca di vedere tutti i suoi film. Se invece di seguire Ferrara avesse seguito la carriera di Nick St. John (lo sceneggiatore di Ferrara) di sicuro si sarebbe risparmiato diverse sciattezze. E se invece di seguire Dennis Hopper ci si fosse incaponiti dietro a László Kovács, direttore della fotografia di Easy Rider quante cose meravigliose avremmo visto, invece di aspettare vent’anni di bassezze nella speranza che il grande regista e attore Hopper recuperasse la sua lucidità e l’ispirazione.

La “Politique des Auteurs” è stata creata da un pugno di entusiasti e squattrinati critici autodidatti e non a caso futuri registi. Alcuni di loro scrissero anche i propri film, li girarono e li montarono e interpretarono. Tentarono a loro modo di riconoscere nel passato ciò che iniziarono a fare nel presente, forzando un po’ la mano. Alcuni registi americani si fecero grandi risate a sentire quei francesi e le loro sperticate lodi e tutti i discorsi sull’arte e l’occhio personale, il filo rosso che si riconosce in quello che fino a lì avevano visto tutti come un lavoro ben pagato. Questa loro visione totalitaria, egemonica di chi dirige le grandi manovre in realtà può essere vera da Godard e Rivette in poi, non prima,  è un pochino viziata da un’idealistica visione e una smania di rivoluzione che oggi ha lasciato ben poco, tra l’altro. Chiedete a D’Annunzio se il suo apporto a Cabiria (concesso giusto per dare ai suoi cani carne di prima scelta, a sentir lui) fosse stato in subordine e nel rispetto totale della visione autoriale del regista Giovanni Pastrone. Avrebbe creato bestemmie nuove per dissentire da una simile sciocchezza. Il cinema per lui era una gran bella sciocchezza. Non si può dire cosa ne avrebbe pensato Pirandello del concetto di autore, riferito ai film ma nei suoi fitti studi sul cinema, al contrario del Vate, lo rispettava, lo studiava e ci flirtava spesso. Sosteneva che le immagini dovessero sostituire la parola e che la settima arte non avrebbe mai dovuto seguire la letteratura ma se ne liberasse, quindi non avrebbe mai fatto il tifo per lo sceneggiatore come principale responsabile della riuscita di un film, anzi. Allo stesso modo però impose la figura del “narratore”, scrivendo il romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore in chi muove la macchina da presa, non in chi la gestisce da lontano, gridando dentro un megafono. In tal senso lo scrittore siciliano sarebbe stato d’accordo con il discorso della Nouvelle Vogue fin quando i suoi “autori” avessero continuato a tenere in mano la macchina da presa per le strade di Parigi o negli interni di casa di qualche amico, scrivendo con le immagini e improvvisando praticamente tutto. La Camera Stylo o Camera-Pen. Per lui però il vero narratore non sarebbe mai stato Buster Keaton ma Elgin Lessley, suo operatore di fiducia.

A parte l’attore inteso come divo che riempie il cartellone, probabilmente è lo sceneggiatore il solo segmento della squadra ad aver visto riconosciuti i propri meriti (o demeriti). A Hollywood hanno sempre considerato che un buon script è tutto, no? E quindi colui che i film li scrive deve essere non meno autore di chi li immagina, il regista, che cerca di farli andare come la propria immaginazione gli ha mostrato, senza mai riuscirci tra l’altro.

Non è un caso poi che i registi che scrivono da soli i propri film siano più rispettati e più “autori” di quelli che se li fanno scrivere da altri ma gente come Fellini, Hitchcock, Scorsese e Hawks si sono sempre serviti di altre penne e non mi viene in mente nessun nome più calzante dei loro riguardo la logica autoriale introdotta dalla Nouvelle Vogue. De Sica aveva Zavattini. E in fondo fu tra loro che il ruolo dello sceneggiatore salì all’attenzione del mondo. All’università si fanno corsi su Zavattini. Si vedono film di Zampa, di Blasetti, di De Sica, perché dietro c’è la penna dello stesso sceneggiatore. Zavattini aveva un’idea ben lucida e precisa di cosa fosse il cinema da fare, era autore quanto De Sica, se non di più. Senza Zavattini De Sica non funzionò allo stesso modo e per tanto tempo lo stesso sceneggiatore si batté e soffrì perché il mondo riconoscesse l’effettiva importanza di chi scrive i film rispetto a chi li mette in scena. Per Zavattini il regista era l’impalmatore. Lo sceneggiatore invece l’eunuco che preparava il letto, vestiva la donna, la riscaldava con carezze e parole affettuose prima che arrivasse l’altro a compiere l’impresa e darle concretezza definitiva.

E nell’opera di Pete Walker, l’importanza dello sceneggiatore è stata cruciale, come per De Sica, Ferrara e molti altri registi. Dave McGillivrey non ideò tre dei quattro film scritti per Walker, ma li sceneggiò. L’intuizione di trasformare delle storie macabre in ferali critiche sociali fu del regista ma la solidità di quei film, la misura, l’autorialità fu anche merito dello sceneggiatore e non solo di Walker, il quale si avvalse dello stesso compositore di colonne sonore (Stanley Mayers), lo stesso direttore della fotografia, alcuni degli stessi attori e così via. Da …E sul corpo tracce di violenza fino a Schizo è innegabile una continuità stilistica, la sensazione di parentela di quei lavori, girati uno via l’altro come inseguendo l’ispirazione di un progetto completo, ambizioso e prima che l’ispirazione svanisse. Ma il merito è che sono tutti opera della stessa grande squadra.

WALKER E IL SUO PRETE

Sul lavoro di Pete Walker si dicono sempre le solite cose: che ha una fobia per le persone anziane, per le istituzioni in genere, che ora fa l’immobiliare con largo profitto sollazzando i critici che per tutta la sua carriera artistica lo stroncarono e ah, si dice che abbia anche rivoluzionato il genere horror. Su questo punto non saprei dire esattamente quanto lui e McGillivrey ci siano riusciti. Di fondo i loro quattro film sono davvero grandi (personalmente stravedo anche per il sottostimato Schizo aka La terza mano) ma l’idea di usare l’horror come arma di denuncia nei confronti dei mali della politica e della società era già nell’aria da tempo. In America, dove la protesta si era tinta di emoglobina, George Romero e tutti i suoi amici concepirono La notte dei morti viventi solo per guadagnare un sacco di soldi nei circuiti dei drive-in con il minimo della spesa; il professor Wes Craven realizzò il remake sardonico di La fontana della vergine di Bergman in versione soft-core con aggiunta di castrazioni, stupri, motoseghe e rock autoriale di infimo livello, sempre per farsi notare e tirar su un po’ di grana a colpi di scandali e indignazione; Tobe Hooper e tutti i suoi compagni di cinema idearono e girarono il geniale Non aprite quella porta senza avere la più pallida idea di cosa stessero combinando, tranne che dar retta al viscerale amore per il cinema, che li teneva chiusi ore e ore in una casa olezzante di carne putrida e così calda da soffocare. Tra L’ultima casa a sinistra e Leatherface, Pete Walker e McGillivrey avevano cominciato a darsi da fare ma non si può dire quanto influenzati da questi film radicali. In fondo bisogna mettersi nei panni di un regista inglese e le scarse possibilità di rimediare una copia dei film di Craven, Hooper, Romero. Negli anni questi lavori sono diventati dei classici ma all’inizio tra la censura e le scarse possibilità distributive erano difficili da vedere, quindi si può supporre che Walker abbia suggerito quei soggetti a McGillivrey annusando l’aria, avvertendo una spinta atmosferica che di lì a non molto avrebbe intossicato tanta altra gente a dire con i mostri, con i maniaci e i cannibali che il mondo stava andando a puttane e tutto il resto.

Più che l’exploitation horror made in USA, a partire da Frightmare aka Nero Criminale fino a Schizo, è innegabile l’influenza di Dario Argento e il thriller all’italiana. Detto questo non è giusto insinuare che l’idea di girare un film su un prete assassino Walker l’avesse scippata a Lucio Fulci. Da più parti ho letto così. Non sappiamo davvero se Non si sevizia un paperino fosse arrivato anche nei cinema Inglesi, probabilmente sì, ma direi che piuttosto sia il regista italiano che quello inglese fossero partiti da L’uccello dalle piume di cristallo e avessero percorso vie differenti. Anche Aldo Lado incentrò un film su un prete serial killer nel magnifico Chi l’ha vista morire? e lo fece prima di Fulci, ma nessuno lo mise in conto al regista de L’Aldilà. Ma se mettessimo a confronto i tre sacerdoti, direi che la palma del più agghiacciante vada a quello di Walker/McGillivrey. Nel caso dei due film italiani più di una denuncia sociale il curato innocuo nell’apparenza chierica è una specie di sostituzione del classico maggiordomo colpevole insospettabile. La polemica su quanto la vita dei preti sia contronatura e su come dietro le vesti nere si possano nascondere dei diavoli indicibili c’è anche in Fulci ma non è così prepotente, palese come in Walker/McGillivrey. Loro due usano tutto l’armamentario freudiano per dire che è male rinunciare a una sana vita d’accoppiamenti e di socializzazione per la croce e la penitenza ma questo discorso fa appella più che alla scienza al buon senso e le leggi di natura. Padre Meldrum è lascivo, ossessivo e rappresenta alla grande la categoria dell’uomo giusto definita bene da Colin Wilson nel suo Storia criminale del genere umano. Ovvero colui che uccide, sevizia, perseguita seguendo un fine ritenuto da lui stesso buono e superiore a tutte le nefandezze compiute per raggiungerlo. Anche gli altri film di Walker/McGillivrey sono popolati di uomini giusti. La storia umana più atroce è piena di tipi così.

Detto questo, il film La casa del peccato mortale fa paura, più che altro. Non è tanto il fattore sociale della vita ecclesiastica a inquietare ma tutto l’armamentario cristiano della croce, delle chiesette cupe e afose, della rassicurante musica celestiale che Bach dedicava all’onnipotente, sanguinario bonsignore; del ruolo ambiguo (fin dai Promessi Sposi) della perpetua, in questo caso interpretato da un’orba Sheila Keith, comprimaria malsana e vendicativa, pazza d’amore per il prete. È l’oscura minaccia infernale, il truce racconto della Passione, il corpo martoriato in croce che ci scruta di sottecchi mentre seduti a un banco della chiesa, da piccoli ci lasciavamo prendere da qualche pensiero impuro per la mamma di un nostro amichetto. Tutti noi cristiani siamo stati educati in un clima di profondo terrore, al punto che uno degli episodi più terrorizzanti della vita di chi scrive fu quando rimase chiuso da solo in una chiesa. Bussai disperato sul portone di legno gridando aiuto mentre alle mie spalle ero certo che il Signore stesse smontando dalla sua postazione per raggiungermi con mani bucate e sanguinanti, afferrarmi e mettermi al suo posto. Pensate che il film più tremendo di tutta la mia infanzia era Marcellino pane e vino, con quel finale in cui Gesù allunga una mano dalla croce sul bimbo. Ho i brividi a pensarci ora.

Il volto scavato, serio e allucinato del prete di Walker/McGillivrey (il Kubrickiano Anthony Sharp) riassume l’austerità e l’autoritarismo dei preti che da sfortunati cattolici d’educazione abbiamo imparato a conoscere. Lo sguardo del Cristianesimo non è certo quello benevolo e sornione dell’attuale papa, è un occhio acceso di sospetto e pronto a incolparci di cose assurde. In un certo senso Walker libera i demoni che dal catechismo ci possiedono, mostrando l’essere lascivo e famelico incatenato dietro a ogni prete.

PRETI ASSASSINI

La differenza tra il prete assassino di Walker/McGillery e quello di Fulci o di Lado o di Bido o di Avati è che il primo è molto più un orco azzannatore della società mentre quelli della scuderia del thriller all’italiana sono tutti maniaci sotto mentite spoglie, lupi travestiti d’agnello, come si dice da sempre riguardo il prossimo anticristo. Padre Meldrum è di certo lussurioso, fissato ma non prova tutto questo gran piacere a uccidere, l’omicidio è per lui un atto inevitabile. Anche il prete di Non si sevizia un paperino compie omicidi per motivi che considera necessari e giusti. Quello di Aldo Lado invece è solo un maniaco che fracassa il cranio a delle bambine dai capelli rossi come quelli della madre. Ora, la madre. In tutti e tre i casi principali (escludendo Bido e Avati) i preti sono vittime delle figure materne o in ogni caso godono dell’appoggio famigliare, per quanto solo in via omertosa e passiva. La madre del prete di Chi l’ha vista morire? però è defunta mentre quelle di La casa del peccato mortale e Non si sevizia un paperino entrano alla fine in conflitto con i figli. Curioso che ci sia un legame immaginifico che potrei definire fobico tra Walker e Lado. Parlo del fatto che il prete di Chi l’ha vista morire? si traveste da vecchia signora e Walker ha una paura fottuta delle persone anziane, al punto che su The Comeback non solo mette una coppia diabolica di vetusti dietro i cruenti omicidi ma li traveste da vecchietta stregonesca. E questa fissa del prete assassino inoltre è tutta cinemaniaca, non ha dei grandi corrispettivi nella realtà. Cercando nei libri di cronaca nera non esce mai fuori un prete serial killer. Ci sono preti assassini, pedofili e necrofili, ovviamente, ma un maniaco che colpisce più volte no. O meglio, ci sarebbe ma il caso è ancora avvolto nel mistero, proprio per via dei motivi sostenuti in coro da Walker, Lado e Fulci: una figura che goda di incarichi religiosi, che sia vescovo, vicario, diacono o che si voglia, risulta quasi immune, in uno stato pervaso dai pregiudizi della religione cristiana e legami di potere. Mi riferisco nello specifico al caso di Girolimoni. Tutti sanno che il famoso “mostro di Roma” che sotto il regime mandò ai pazzi l’Italia intera fu solo un capro espiatorio e nel tempo la sua innocenza è stata confermata fino in fondo. Il povero ex-fotografo ebbe rovinata la vita da questo errore giudiziario ma la cosa più antipatica è che il probabilissimo colpevole (giuridicamente è un ossimoro dire così) la fece franca. Si trattava di un pastore inglese che moltissimi indizi contribuiscono a ritenere il vero colpevole della morte di alcune bambine di età non superiore ai 6 anni. Nella Roma degli anni venti probabilmente era assai più facile rapire infanti e sottometterli alla propria forza bruta, anche se limitata da un’età piuttosto avanzata, e magari il dinoccolato, elegante e baffuto nonno che imperversava intorno a San Pietro, colpì senza troppe difficoltà nonostante la sempre maggiore tensione sociomaniaca totale della città. Lo avvistarono, ne trassero un identikit piuttosto preciso, raccolsero elementi che rimandavano a un uomo di chiesa, qualcuno sostenne che il tipo con quell’aspetto, sorpreso in varie occasioni a importunare ragazzine avesse anche l’accento inglese, finirono per processarlo in contumacia ma senza risultato. Casualmente, il diacono e la moglie sparirono quando le cose iniziarono a farsi troppo tese attorno alla figura di lui, si trasferirono in Sud-Africa, dove omicidi con la stessa dinamica di quelli romani si verificarono poco tempo dopo. Era lui Girolimoni? Non si sa, ci sono nuove tesi che negherebbero la sua responsabilità. E nel film di Damiani, Girolimoni, il mostro di Roma, con Manfredi, non a caso, viene mostrato il possibile “vero” omicida, che è uno del posto, psicotico e coperto dalla famiglia.

Nel caso di Avati e Bido e i loro preti, il discorso si fa più ampio: nel caso di Antonio e abbastanza trascurabile. Pupi ha probabilmente infilato nella storia del cinema la figura più agghiacciante di prete omicida e vecchietta diabolica insieme, realizzando l’incubo supremo di Pete Walker (e mio) ma rendendo il paese intorno alle sue malefatte consapevole e terrorizzato, mentre Bido ha aggiunto agli sgoccioli della fortuna commerciale di un genere cinematografico, una imitazione abbastanza innocua, per quanto utilizzando ancora il posto più terrificante d’Italia: Venezia, come aveva fatto, e sottolineiamo sempre per primo, Aldo Lado.