MUSORGSKIJ E GOGOL – DA UNA NOTTE SUL MONTE CALVO AL GIORNO DI SOLE NEL GIARDINO SEGRETO

Questo articolo non ha la pretesa di affrontare La notte sul monte calvo di Musorgskij, ma di utilizzarla come spunto di partenza per un pezzo di ampio respiro sul rapporto tra musica, immagini, incubi e letteratura. Si riallaccia alle premesse già esposte nei mesi passati, in cui la forma recensione o la scheda di approfondimento vengono contestate come contenitori asfittici dove l’interesse, l’ossessione, l’amore, l’odio, l’esplorazione e il giudizio su di un’opera iniziano e finiscono lì. Qui ci interessa l’arte come ossessione e l’horror come genere espressivo nella sua più larga accezione. Musorgskij scrisse La notte sul monte calvo suggestionato da… ehm, non è facile dirlo, in effetti. Non in modo preciso. Ci sono informazioni contrastanti a riguardo. C’è chi indica la raccolta di racconti di Gogol’, Le veglie a una fattoria presso Dikan’ka. Chi invece si tiene largo e rimanda direttamente alla fonte stessa dello scrittore citato, alle leggende e le fiabe stregonesche del folclore ucraino e chi addirittura sostiene che le storie tenebrose alla base di una così suggestiva creazione fossero italiane e che il Monte Calvo del titolo, anziché la vetta brulla di Lysa Hora o il monte Triglav, in Russia, in realtà si trovasse a Monte Calvo Irpino, luogo presso Benevento, dove il compositore pare abbia soggiornato, ammirando il fascino sinistro del luogo e ascoltando con grande interesse le tante storie stregonesche locali.

Di recente ho letto anche di un rimando all’opera teatrale di un certo barone Megden dal titolo La strega. Secondo il sito della Rai, il riferimento è certo perché trovato proprio nei diari del compositore.

Il problema di internet è che tutti sono troppo presi a scrivere di ciò che non sanno e non hanno molto tempo per assicurarsi anche solo di aver letto bene la pagina di Wikipedia. Non vi dico quindi la gran quantità di articoli in cui, come un telefono senza fili, si finisce per dare persino il titolo esatto del racconto di Gogol’ da cui Musorgskij ha attinto. Ovviamente questi esperti non hanno avuto tempo di accertarsene. Ecco quindi che La notte di Ivan Kapula non contiene nessuna descrizione visionaria di un sabba e tanto meno La fiera di Sorocincy, in cui si dice addirittura il punto preciso in cui questa descrizione starebbe, ovvero quando il giovane protagonista Grycko, si fa una pennica e crede di assistere a un sabba.

Nell’edizione Newton che possiedo, a quel punto del racconto non solo il ragazzo non sogna ma neanche chiude gli occhi. Forse Musorgskij aveva pensato di inserire il sogno lui stesso nella storia di Gogol’, in vista di una riduzione teatrale o magari era lo stesso scrittore a idearlo per una nuova versione, ma resta il fatto che il racconto non presenta l’equivalente letterario del Monte Calvo e che tutti questi frettolosi iloti continuano a citarlo ne La fiera di Sorocincy, dove qualcosa di diabolico accade, certo, ma più che assumere la maestosità minacciosa ideata da Musorgskij, andrebbe bene in uno sketch in costume di Stanlio e Ollio.

Questa generale faciloneria si è rivelata preziosa per me. Nel tentativo di scoprire in quale punto (e in quale racconto) Musorgskij avesse trovato l’ispirazione per il suo pezzo, ho letto tutte e tre le raccolte Gogoliane della Veglia (inclusa Mirgorod, dove è presente il temibilissimo incubo stregonesco Il Vij, di cui parleremo nella rubrica dedicata ai racconti). E sondando le pagine di quei componimenti giovanili che molto successo arrisero allo scrittore de Le anime morte, ho goduto per la prima volta di quello che in seguito sarebbe stato definito da Bontempelli Realismo magico.

In effetti, anche se Musorgskij per La notte sul monte calvo abbia preso o meno spunto da Gogol’, il legame tra il musicista e lo scrittore è fondo, vivo e fruttuoso. L’immaginazione sferragliante dell’autore, specie nei suoi racconti delle Veglie sta benissimo con l’atmosfera oscura della sinfonia sabbatica. Per carità, è una musica spaventosa e che nonostante lo sputtanamento subito nel corso di tanti anni di televisione e cinema, mantiene ancora tutto il suo selvaggio sentore esoterico. Non mi credete? Fate un esperimento, allora…

Spegnete la luce, avvicinatevi al vetro della finestra che da sulla valle. Il cielo fuori è illuminato dai lampi, i tuoni di rimando sembrano minacciose promesse di avventi demoniaci dal cuore dell’oscurità. E i violini crescono lungo la vostra schiena fino a fottervi il cervello. Ma se superiamo i primi minuti dove al crescendo seguono quei perentori stacchi, possenti, come se gigantesche mani invisibili lacerassero il sipario delle tenebre rivelandovi il formicaio di incubi, succubi, streghe, caproni, morti, gnomi, che avanzano verso il cuore del buio per la loro festa orgiastica, ecco che la musica diventa assai più propensa a suscitare meraviglia che paura. E meraviglioso più che terrificante (anche se credetemi che Gogol’ riesce a infondere inquietudini subdole dietro le risa) è il fantastico delle Veglie.

Nelle Veglie ci sono diavoli che vengono cacciati dall’inferno, forse perché minacciavano qualche buona azione, e che provano così tanta nostalgia delle fiamme eterne e l’olezzo zolferino, da estinguere ogni bene in qualche taverna puzzolente, fino a dover impegnare il farsetto rosso e poi aggirarsi nelle fiere a cercarlo disperati, con il muso da maiale, magari per sniffarne le tracce con più efficacia. Ci sono giovani innamorati senza un soldo che uccidono bambini in cambio di sacchi d’oro e finiscono per soccombere a una sorta di follia senile. Ci sono maghi vendicativi che perseguitano eroici cosacchi o congreghe di spettrali annegate che passano l’eternità alla ricerca di una strega malvagia senza una mano. E queste visioni tremende e comiche allo stesso tempo si alternano a scenette divertenti, surreali, grottesche in cui contadini, sindaci, distillatori, cantastorie, si fanno dispetti a vicenda, si tradiscono, si umiliano.

Nella trasposizione visiva che Disney ha fatto su Fantasia, La notte sul monte calvo è traumatica per un bambino. Io stesso ricordo di aver subito una specie di attacco di panico perché passai in un colpo solo dalle simpatiche scorrerie magiche di Pomi d’ottone e manici di scopa, trasmesso tagliato in prima serata sulla Rai un’infinità di volte; o dalle Silly Simphonies degli scheletri che danzano in un cimitero, trasmesse all’interno della rubrica RAI L’almanacco del giorno dopo, a questa insostenibile danza macabra ai piedi di Lucifero; anche se in realtà il diavolo in questione si chiama Čërnobog e nel folclore russo non sempre è mostrato in maniera così paurosa.

A rivederlo oggi su you tube ammetto di averlo trovato un po’ piatto, il corto di Disney. La trama visiva è troppo esile per dieci minuti di musica. In fono succede poco. Le anime morte e tutta la feccia del male vanno sul monte dove il diavolone si diverte a guardarle ballare e a lanciarne un po’ tra le fiamme dell’inferno. Dopo tre minuti diventa monotono, ma per un bambino non è così. Mia figlia più piccola di tre anni l’ha adorato dal primo all’ultimo fotogramma. E io ebbi gli incubi solo con pochi fotogrammi.

In ogni caso Fantasia non esprime l’ironia che in certi momenti la sinfonia di Musorgskij suggerirebbe. Ci sono momenti in cui i fiati borbottano sornioni alla stregua dell’attacco de L’apprendista Stregone di Paul Dukas e il finale, quando i demoni scappano al suono delle campane, lasciando uno strisciar di violini prima malinconico e poi solenne, salvifico, è a Gogol’ e le sue spericolate storie folk che rimanda.

La comunione di intenti tra lo scrittore ucraino e Musorgskij è possibile ritrovarla anche in diversi momenti della celebre Quadri di un’esposizione (che molti magari penseranno essere più un album degli Elp), in cui gnomi malvagi, castelli abbandonati, vendicative streghe dei boschi e passeggiate catacombali si alternano intorno a un incedente motivo centrale. Anche lì è facile pensare a Gogol’ e certi suoi gnomi dalle ciglia lunghe fino al pavimento o alle ricorrenti streghe vecchie e disgustose che sotto mentite spoglie seducono e uccidono. Oltre ai Quadri però Musorgskij e Gogol si ritrovano nei Canti e danze della morte, opera meno nota del compositore e ispirata ai racconti poetici di un certo suo amico, Kutuzov.

In queste quattro canzoni (anche se avrebbero dovuto essere di più), la morte passa a prendere i vivi nelle più svariate situazioni. In Lullaby si racconta di una madre che culla tra le braccia una bambina mentre al suo fianco, la morte travestita da bambinaia la incoraggia a passare a lei la piccola: sarebbe stata molto più brava a farla dormire, le dice. In Serenade la mietitrice assume l’aspetto di un seduttore scheletrico, zombesco, che tesse le lodi di una ragazza molto malata. Lei sbircia alla finestra e ascolta il canto di quel misterioso cavaliere che riempie di complimenti il pallore, la magrezza, la profondità delle occhiaie della giovane compromessa dal male, in attesa di conquistarla definitivamente e portarla via, in luoghi migliori di quelli.

C’è un racconto di Gogol’ che è un po’ l’equivalente di questi pezzi musicali di Musorgskij: Proprietari di vecchio stampo (tratto dalla raccolta Mirgorod), parla di due vecchietti che si sono amati e coccolati per tanti anni, vivono in prosperità e si godono il tempo in modo semplice, badando a pasteggiare in abbondanza e piacevolezza, ospitando via via gente che amano e rispettano. Un giorno succede un fatto apparentemente insignificante: la gatta della vecchietta sparisce. Tempo dopo ritorna. Ella vede questo evento come un chiaro segno che la morte si appresta per lei. Nonostante le proteste e gli scherzi del marito non si illude di sbagliare e infatti poco tempo più tardi muore, lasciandolo solo. Qualche anno dopo muore anche lui.

Nelle composizioni di Musorgskij sulla morte, ogni personaggio tergiversa, distrae, contratta e contrasta la morte, nella speranza di rinviare il momento della partenza, ma a detta del musicista, nelle quattro ballate c’è un accordo grave, netto, in cui la nera signora vince e da cui l’ascoltatore trae un brivido prolungato, che lo accompagna per ore e ore dopo l’ascolto. Anche nel caso di Gogol’ avviene una cosa simile. Il racconto sui vecchietti è innocuo, triste e sereno assieme ma nel finale agghiaccia e possiede di brividi il corpaccio del lettore, per sempre.

Il vecchietto prima di morire sente qualcuno dire il suo nome, pare e Gogol’ scrive questo. “Ricordo di averlo udito spesso nell’infanzia; a volte, ad un tratto, di dietro, qualcuno pronunciava distintamente il mio nome. Era di solito un giorno sereno e tutto sole; non si muoveva foglia in giardino, e sugli alberi; perfino i grilli ristavano allora dal finire; non c’era anima viva in giardino. Ma io confesso che se la notte più tempestosa e infernale, in piena sarabanda di elementi, mi avesse colto solo, e nel cuor di una selva impenetrabile (sembra rimandare a La notte sul monte calvo n.d.a.) io non avrei avuto tanta paura quanta di quel terribile silenzio in pieno giorno sereno. Di solito riuscivo a tornare tranquillo soltanto allorché incontravo qualche persona la cui vista riuscisse a cancellare quell’angoscioso deserto del cuore.”

Musorgskij in fondo non ha proposto la baldoria satanica del Monte Calvo, come materializzazione del più nudo terrore ma anche lo scarno incedere di un piano e di una voce in un lungo corridoio bianco, al cui fondo c’è una porta aperta su un buio glaciale e famelico. Gogol’ nei suoi racconti delle Veglie (che ricordiamolo, per volontà dell’autore sono da assimilarsi con quelli di Mirgorod) gioca con i fuochi d’artificio del diavolo birbante, scaltro, spietato e che oltre ad acciuffar le candide anime dei contadini ucraini, si diverte a solleticargli i piedi in fondo al letto, ma allo stesso tempo introduce con delicatezza quell’accordo grave, spoglio, in cui la morte stessa porta via ogni risata, ogni rumore, ogni cinguettio della vita, lasciando solo l’eco del vostro nome, pronunciato in un vasto giardino assolato.