Una generazione fottuta

Disclaimer: leggendo questo post penserete che sono uno stronzo che infama un morto, voglio chiarire alcune cose.

  1. sì sono uno stronzo;
  2. i morti non meritano più rispetto dei vivi (che non ne meritano quasi per niente);
  3. in realtà non infamerò proprio nessuno ma voi lo penserete lo stesso;
  4. la ragione del punto 3 non è che io mi esprima male ma che voi non capite un cazzo.

E ora procediamo con ordine.

Da qualche giorno gira online la lettera di Michele, un tizio di trent’anni, friulano, che l’ha scritta prima di ammazzarsi non so bene come. Loro l’hanno letta e poi resa pubblica.

Eccola qui:

Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi.

Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte.

Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.

Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia.

Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.

A quest’ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo.

Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.

Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.

Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare.

Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno.

Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie.

Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, io modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri.

Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.

Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene.

Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento.

P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi.

Ho resistito finché ho potuto.

Michele

Avete letto? Ottimo.

Ne siete rimasti toccati? Avete gli occhi lucidi? Una lacrimuccia sta per fare capolino? Siete indignati nei confronti di una società che ci ha abbandonati? Ce l’avete col governo, con la casta, oppure volete giudicare una persona che si ammazza perché è un fallito?

Ve lo chiedo perché io leggendo questa lettera l’ho trovata uno sbrodolo tritura coglioni.

Lo so, ora dovrei dire che la tragedia umana, il dolore, il dramma… sticazzi. Se c’è qualcuno per cui mi dispiace sono i genitori di questo Michele che sono rimasti così, lasciati indietro, con pure l’onere di doverlo perdonare, sto figlio. Ecco sì per loro mi dispiace parecchio. Per lui no. E non perché non sia una tragedia quello che è successo, ma perché credo che vivere sia un diritto, non un dovere.

Insomma se per uno la vita è  una sofferenza insopportabile fa bene a togliersi di mezzo.

In questo caso però mi sento di essere d’accordo con chi ritiene che questa lettera ritrae perfettamente una generazione (che poi sarebbe pure la mia).

Leggo le parole scritte in quella lettera e continuo ad avere la tentazione di scrivere “un ragazzo di trent’anni”, perché porcaputtana, siamo una generazione che tra i 30 e i 40 non riesce ad essere fatta di uomini e di donne.

Chiariamoci io sono pure d’accordo con quello che c’è scritto, che siamo una generazione fottuta e tutto il resto, che veniamo catapultati in un mercato del lavoro con richieste sempre più assurde e stipendi sempre più… ci sono ancora gli stipendi là fuori?

Tutto vero, eh, e la vita è dura e stronza, ma cazzo i nostri nonni andavano a fare la spesa a credito o con le uova nel cappello e si sono fatti macellare in due guerre mondiali, giusto per rimettere le cose nelle giuste proporzioni.

Questa lettera non mi suona né come un grido di dolore né come lo scatto d’orgoglio che vorrebbe sembrare. Si tratta di un j’acuse di stocazzo in cui tutti gli altri hanno la colpa di tutto: il sistema, i politici, l’altro sesso e se confondi il piagnisteo con la sensibilità non è difficile capire perché le tipe non te la danno…

…hey calme signorine alla lettura che dalla vostra parte del cielo vi fate infiocinare dal primo coglione che passa, che puntualmente vi tratta come delle merde e voi state lì a dargliela e a piagnucolare che è un coglione.

Questa lettera non ritrae un moto di ribellione perché, di fatto, non mette in discussione il sistema, non se ne chiama fuori davvero, perché in quel sistema chi scrive vorrebbe starci, ma in un ruolo diverso, vorrebbe essere in cima alla catena alimentare, non alla base, ma non è che quella catena alimentare gli faccia davvero schifo.

Oh, chiariamoci, se sto Michele avesse avuto soldi, fica e successo, sarebbe cambiato poco, perchè la depressione ha relativamente a che fare con le situazioni concrete che si vivono, quasi sicuramente avrebbe sentito comunque un grande vuoto dentro che l’avrebbe spinto oltre il bordo di un terrazzo troppo alto o qualcosa del genere, magari però senza bisogno di fare sermoni.

Ma il bisogno di strillare per questa generazione, per questa mia generazione, è irresistibile, perché il gioco tutto sommato ci piace, solo che sognamo di essere il bomber senza averne la possibilità ma spesso senza avere nemmeno la volontà di fare quello che è necessario per diventarlo, e allora siccome siamo condannati a perdere, invece di renderci conto per davvero che questo gioco fa schifo, che la partita è truccata, prendiamo la palla e ce ne andiamo indispettiti.

In tutto questo non c’è nulla della comprensibile disperazione di chi non ce la fa, né della rassegnata dignità di chi sceglie di sottrarsi a un meccanismo che sente di non poter contrastare.

Siamo una generazione di bambocci che muore così come è vissuta: frignando.