Wiegedood – Multa al Belgio per eccesso di black metal!

Quando uscì il secondo album dei Darkthrone, moltissimi recensori metallari pensarono che fosse immondizia. Il tempo ha dimostrato loro che si sbagliavano e che quello era il futuro. Ci sta, abbiate compassione per gente che nel 1992 passò dalle belle produzioni svedesi e americane a quel rigurgito analogico che suonava peggio di un demo dei Bathory del 1983.

Solo il tempo ci può dire se qualcosa è arte o no, banale ma vero. Il miglior critico musicale è Cronos. Non quello dei Venom. Il dio Cronos. Infallibile, sapete? Invece voi vi affidate a noi scemi recensori che appena un album esce siamo già lì con la penna blu e la penna rossa.

Immaginate di trovarvi a un reparto maternità zeppo di bimbi urlanti appena sgusciati fuori dalle vagine delle loro mamme. Dietro il vetro potete vedere dei tipi imbambolati, visibilmente stanchi e commossi, tesi, sfiniti. Genitori? No, gli artisti. E poi ci sono questi strani figuri in camice che dal colore della pelle e dalla potenza della voce di quei bimbi, pronosticano chi sarà onesto e chi un delinquente, chi un rifiuto e chi una personalità irrinunciabile per la collettività. Ecco, quelli siamo noi recensori. E i bimbi sono i dischi nuovi, ci siete? Ok.

Non è facile mai decidere se un disco è buono o no, la gente ci si scotenna anche dopo vent’anni. (Provate a scrivere un post su Load o su Roots e vedete che casino). I nomi intoccabili di oggi, quando esordirono si beccarono fior di stroncature. Vedete, non si tratta di capire ma di accettare: qualsiasi cosa suoni differente da quello che siamo abituati a sentire suscita in noi diffidenza; non amiamo i cambiamenti perché sono scomodi, noiosi, faticosi, ci costringono a rimettere in discussione tutto quanto. I Darkthrone spinsero gente come Alessandro Ariatti a dubitare dell’imprescindibile necessità di una produzione decente per incidere un vero capolavoro. Cito Ariatti ma potrei dire chiunque di quegli anni, persino Fabban o Borchi. Il problema ormai è che siamo al punto opposto. Oggi è difficile far capire a molti recensori che una pessima produzione non necessariamente rende un ammasso di riff risentiti e berci satanici un capolavoro come lo fu “A Blaze In The Northern Sky”.

Il nuovo dei Weigedood, De Doden Hebben Het Goed II, venuto fuori dalla collaborazione di Wim Sreppoc e Gilles Demolder degli Oathbreaker (il cui disco Rehia è stato top album di fine anno su quasi tutti i blog metal stranieri) e Levy Seynaeve degli Amenra (mai coperti ma sembra siano fichi), è un disco black metal abbastanza prevedibile, senza basso e con quattro canzoni di 3 minuti diluite a una media di 7. Cosa lo rende così interessante? La confezione intellettuale (un paesaggio brullo di alberi), un titolo lungo in una lingua che non si capisce (pare fiammingo) e che gioca sull’equivoco che se è black, si sente discretamente di merda e rompe i coglioni, allora è arte.

Mi spiace dire queste cose, anche perché, in fondo, ad ascoltarlo in loop, come qualsiasi cosa estrema (tranne il nuovo dei Battle Beast), diventa via via gradevole e di compagnia. Però sarebbe ora di tornare a prendersi qualche responsabilità, altrimenti il metallo underground, con le sue legioni di doomster da tre note, blackster con i fustini e le zanzare, noise-grinder col registratorino acceso durante il turno in fabbrica, finiranno per allargarci il cervello e i blog.

Spero che i Weigedood la smettano qui e che i vari Sreppoc, Demolder e Seycomesichiama, tornino presto alle loro rispettive band ufficiali, che già fanno numero in un reparto superaffollato. Come sarebbe giusto porre un tetto alle reunion, occorrerebbe anche mettere un limite all’esportazione di gruppi black metal, specie quelli dal Belgio.