Capitolo 1 – Gli Hypocrisy erano la quarta dimensione nel cervello di Peter
E se Peter Tagtgren avesse scommesso soltanto sugli Hypocrisy? Se il suo invidiabile lume per la produzione, l’estro creativo, la duttilità fossero confluiti in quel solo progetto? Oggi parleremmo di una band importante al pari di In Flames, Entombed, Dimmu Borgir e Dark Tranquillity? Probabilmente no. La ricchezza, la forza artistica di Tagtgren ha sempre avuto bisogno di espandersi in più ambiti, più elementi, altrimenti sarebbe implosa. I Pain, The Abyss (sia la band che gli studi di registrazione), la lavorazione in veste di mixerista, guru, lume promozionale per altri gruppi importanti e (soprattutto) gli Hypocrisy; il suo muoversi in tutti questi mondi dimensionali gli ha sempre garantito sufficienti vie di fuga impedendogli però di focalizzare e lasciar sedimentare il giusto tempo la gran massa di idee che ha prodotto in tanti anni frenetici al servizio del metalz.
Nei 90s Tagtgren ha scodellato dischi con la stessa euforia di una proletaria irlandese in uno sketch dei Monty Python; lavori sommariamente buoni, ma prodotti da lui e giudicati dagli altri in modo frettoloso.
Se oggi si prendono The Fourth Dimension, Abducted, The Final Chapter e Hypocrisy, si riconosce senza dubbio il grande talento intuitivo di Tag nella costruzione di certe melodie, la sua abilità di compositore nel riuscire a farle coesistere in una pastoia di ciccia marcetta, ma allo stesso tempo si deve convenire che la scelta degli arrangiamenti e di alcune soluzioni di scrittura (oltre che produttive) si potevano risolvere meglio. Lui pure ne converrebbe, probabilmente. È che però non c’era tempo, bisognava finire, finire, finire e passare ad altro. Peter era talmente smanioso di chiudere le robe che per poco non mise il punto ultimo agli Hypocrisy stessi!
Non è facile la vita di un genio, sempre in balia del proprio bizzoso cervello ricco di variegate e impetuose ispirazioni. Queste sono carburante polposo e nutriente ma anche una tirannia. Dettano legge sull’alimentazione, sulla vita sociale e sull’arte di chi le traspira. Immagino che Tagtgren non avesse tanta scelta e pedalare a testa bassa in quattro dimensioni diverse, cercando di non deragliare in qualche isolotto autistico. Probabilmente ne parlava con cognizione di causa nel terzo disco degli Hypocrisy, mascherando il tutto come l’odissea in un mondo alieno ma forse La quarta dimensione di Tag era il casino della sua esistenza suddivisa in compartimenti stagni e ancora troppo piena di cose per essere assaporata a dovere. No, dico: nell’arco di dieci anni, dal 1992 al 2002, Peter ha fondato tre band, prodotto, supervisionato e missato circa 60 album (tra cui una ventina storicamente fondamentali) e in più ha scritto, suonato, cantato e ideato 12 lavori propri! Tutto questo ha richiesto un prezzo: le occhiaie perenni e una mancanza di tempo cronica per trasformare le intuizioni in capolavori ineguagliabili.
Ci ha provato in alcuni momenti a ridurre il carico di attività: ha mollato i The Abyss Band, un progetto black metal interessante ma non cruciale per il genere e per le proprie tasche; ha decretato la morte degli Hypocrisy con The Final Chapter e ha chiuso temporaneamente gli Abyss Studios, evitando di finire come un ingrediente sempre più scontato (vedi Scott Burnes per il death metal) ma facendosi nel mentre sguillare dalle mani un nuovo cucciolo di Alien dal potenziale commerciale notevole: i Pain!
Quando ha realizzato che quel progetto industrial metal era una gallina dalle uova d’oro, ecco però che invece di badilare ancora più deciso sulla fossa degli Hypocrisy, è stato costretto a riesumarli a furor di pueblo, forse anche per lasciarsi in modo lungimirante un contesto estremo in cui sfogare tutta la sua rabbia futura, cosa che i Pain non sarebbero mai stati in grado di permettergli, a meno che non li avesse a un certo punto appesantiti quanto gli Hypocrisy.
E così Tagtgren ha tirato avanti per più di dieci anni, senza più grandi ripensamenti, alternando un disco pesante e uno leggero, uno dei Pain e uno degli Hypocrisy, fino a ritrovarsi con una discografia enorme, senza pari in tutta la Svezia metallica.
Quando si giudica un album di queste due band (Pain e Hypocrisy) non si prescinde mai dall’iperattività del loro principale artefice. Non potremmo giudicare in modo equo la carriera degli Hypocrisy senza pensare che mentre nascevano, folgorati dal satanico death americo-svervegico dei primi anni 90, e si evolvevano in una specie di molosso heavy metal in chiave pesissima, Taggy facesse anche altro, molto altro. Non si può giudicare male un disco come The Final Chapter, che per ammissione della band stessa è un lavoro non del tutto riuscito e con la produzione meno convincente dell’intera storia degli Hypocrisy; o denunciare un senso di irresolutezza persino in quello che secondo tutti è il loro apice (Abducted) senza tener presente che “oé ragassi, ma ‘sto qui intanto teneva in piedi l’intera scena svedesca!”.
Capitolo 2 – Lo malomorbo de lo pollistrumentismus!
Se ritagliassimo via la discografia degli Hypocrisy da tutto il ciclone multitasking artistico di Tagtgren e la analizzassimo senza considerare cosa facesse nel mentre fuori da quelle canzoni, finiremmo per giudicarla più severamente e non ci stupiremmo troppo del perché in fondo non ha raggiunto con quella band i posti alti nella storia dello swedish death degli anni 90 e 2000. In più c’era anche la mancanza di fortuna. Quando Tagtgren infilava due gioielloni come The Fourth Dimension e Abducted, il death metal era diventato un ospite davvero imbarazzante per lo showbiz, era dato per spacciato e sebbene riascoltandoli oggi è lampante l’eccellenza di quei due lavori, non si poteva pretendere allora che rialzassero le quotazioni del genere, anche perché non ne facevano quasi parte. I due dischi muovevano tanto sull’atmosfera e la melodia, pur ribadendo la matrice ‘gnorante e pesa del death, ma non erano certo i Malevolent Creation, no?
Nel 1996 gli Hypocrisy pubblicarono Abducted già in coda all’esplosione heavy-tallica dei Paradise Lost, e tra l’incudine dei Dark Tranquillity e At The Gates (che un anno dopo The Fourth Dimension avevano fatto uscire rispettivamente The Gallery e Slaughter Of The Souls) più c’era il martellame degli In Flames di The Jester Race e gli Arch Enemy di Black Earth.
In Flames e Dark Tranquillity si pigliarono tutto il pubblico, i Marduk e i Dimmu Borgir coprirono con un manto nero e fetido il piccolo caos dei The Abyss e ci si misero anche i Soilwork e i Children Of Bodom a chiudere le porte del successo per Pete, che rilanciò troppo tardi la sua band mezza suicidata con l’omonimo Hypocrisy del 1999.
Tagtgren, oltre alle immense doti come supervisore e producer si è lasciato prendere fino alle unghie dei piedi dal morbo del polistrumentismo, ovvero la capacità di suonare praticamente tutto in modo più o meno decente ma mai eccellente. Il risultato è positivo da una parte, perché questo (specie se tra l’altro hai le chiavi di uno studio di prima qualità, ne sei il produttore di grido e puoi usufruirne giorno e notte per incidere, comporre, sperimentare, cazzeggiare) ti consente di mettere su progetti discografici rapidamente e senza dover rendere conto a nessuno (i Pain) ma la cosa può rapir la mano e ripercuotersi sulla resa complessiva dei dischi realizzati.
Gli Hypocrisy in particolare hanno quasi sempre sofferto di questa totalizzante presenza di Tagtgren alle chitarre. Lui che è di natura un batterista, ha appreso i rudimenti dello strimpello in modo discreto già dagli anni 80, sviluppando via via trame interessanti e scegliendo sempre riff efficaci e da scapoccio sicuro. Però facendo tutto da solo ed essendo tendenzialmente un ritmico ha rivestito in modo abbastanza prevedibile, mediocre e fasullo, la componente estrosa e tecnico-solista delle svise.
Non sto dicendo che Tag non sappia suonare la chitarra ma specie in The Final Chapter o Abduction si sente che certi assoli sono illusori, furbescamente caotici e rafforzati o eclissati nel magma iperinciso di un moloch “giungiante”. Della serie: te piacerebbe, Tag!
Virus, dove c’è anche Andreas Holma, è neanche a dirlo il disco più dinamico e attendibile dal punto di vista degli assoli e delle armonizzazioni.
Poi non c’è bisogno di avere l’orecchio assoluto, si sente quando un album non è creato da cinque strumentisti ma sovrainciso da uno solo, perché è sostanzialmente monotono, non avviene il matrimonio tra interpreti differenti, l’alchimia o groove o vib o come cazzo si chiama oggi il feeling tra più cuori e (stru)menti: quello di Tag è solo un monologo sovraccaricato di incisioni.
Gli Hypocrisy nello specifico non sono mai stati una band, non è un segreto, anche se la line-up è rimasta in pratica la stessa dal 1992 al 2005, con la parentesi dei The Abyss (che erano gli Hypocrisy col facepaint e in chiave puramente black). I due punti fissi nella prima parte della carriera del gruppo sono stati gli scagnozzi Laszlo Szoke e Mikael Hedlund. Poi il primo si è stufato e ha ceduto il posto al batteriere degli Immortal, Horg, rimasto in pianta stabile fino oggi, sempre con Hedlund. L’ingresso di Horg ha spinto la band in sentieri più intricati e tecnicamente laboriosi, ma la cosa non è durata moltissimo.
Capitolo 3 – Dietrologia portami via!
Gli Hypocrisy, pur costituendo il personale teatro X Files/grand guignol/Kabuki di Tagtgren hanno finito per sventolare verso un po’ troppe direzioni differenti, mostrando un evidente senso di frustrazione del loro leader che troppe volte ha spinto a forza il mostriciattolo greve in vie che non sempre gli appartenevano di natura. Il nome stesso, Hypocrisy era nato come riferimento alle religioni organizzate, al filo-satanesimo estremo di inizio anni 90 poetato dal primo singer Caligula (poi nei Dark Funeral) e solo dal terzo album con Tag passato anche al microfono diventò un inno dietrologico al potere politico oscurantista delle nazioni unite sulla scienza e sulla verità vera (111!!!111) che non vogliono sia diffusa a proposito degli alieni. Nulla di male sulla scelta tematica, anzi, funzionava meglio delle robacce anticlericali di Penetralia ma anche qui, sulla lunga distanza la cosa è diventata controproducente.
Insomma, non esiste il disco perfetto degli Hypocrisy. Hanno sempre avuto una buona media qualitativa, non si discute (anche nei momenti di maggior arsura creativa e sbandamenti capricciosi di inizio anni 00) però soprattutto negli ultimi anni sembra che quel qualcosa di grandioso promesso per anni non sia più lecito aspettarselo, il momento buono è passato. Sto parlando del periodo tra il 1993 e il 1999. Ci sono cose magnifiche negli album di quegli anni, allora era giusto puntare sugli Hypocrisy e alcuni critici lo fecero. Quei lavori erano magari strutturati in modo un po’ troppo grezzo e banale ma insomma, prendete le melodie che stanno nella doppietta The Arrival Of The Demons 1 e 2, c’è una carica visionaria incredibile! Le melodie sono dolci e minacciose allo stesso tempo, anche per via dei nuvoloni grigi di tastiera che borbottano intorno. I demoni sarebbero gli alieni, sono sempre stati loro e vengono percepiti da noi esseri grezzi e superstiziosi come progenie sataniche, mentre invece arrivano dal Paradiso, o meglio da dove noi poveri terrestri abbiano sempre pensato fosse la casa di Dio, le stelle. E quindi ecco gli dei, dei e demoni, dei o demoni poco importa, gli stiamo sotto e faremo ciò che vogliono loro. La passione di Peter per gli omini verdi nei primi tempi dava alle canzoni una carica minacciosa e viscida, e ancora erano lontani i tempi del complottismo e la dietrologia social di oggi, peccato che poi tutto si sciolse in un poema di maniera.
“Abbiamo il diritto di sapere cosa successe a Roswell 1947”, gridava Tag nel 1996 e noi eravamo tutti con lui, ma forse oggi diremmo che è meglio di no, perché la storia vera è assai più squallida di quella che un brano così potente nel suo incedere megadethiano lasciava supporre. Non erano alieni ma manichini, Taggy. Meglio il mistero, dammi retta.
Gli alieni col tempo hanno finito per imprigionare gli Hypocrisy e per questo ci fu l’urlo liberatorio e un po’ bizzoso di Catch 22, disco contestato e poco apprezzato ma indubbiamente più sentito e convinto di Into The Abyss del 2000. Che poi, in più di vent’anni Tagtgren le ha provate tutte sulla pelle degli Hyp. Li ha ammorbiditi, induriti, velocizzati, minimalizzati, tecnicizzati e risemplificati. Nonostante questo il gruppo è ancora in giro e quasi quasi, con il tempo hanno un aspetto più solido, fresco ma sono ormai meno tormentati e imprevedibili.
Capitolo 4 – Gli Hypocrisy band sottovalutata?
Con il ritorno di fiamma di The Arrival e Virus oggi il gruppo sta benone, è approdato a quella mistura di impatto greve e melodia evocativa tipica del periodo Abducted. End Of Disclosure, per quanto sia un disco meraviglioso però non rappresenta la tappa successiva di un cammino talvolta randomico ma incessante, bensì la chiusura definitiva del cerchio. Dubito che il nuovo album che uscirà con molta calma nei prossimi due o tre anni sarà spiazzante. Magari si ricollegherà ancora più a ritroso nelle origini estreme della band ma ormai siamo alla fase della rimembranza e rivisitazione referenziale.
Di sicuro ci sono due cose:
gli Hypocrisy continueranno a essere il pasticcio e lo sfogo di Tagtgren e resteranno ancora in piedi, nonostante lui.
La qualità o il limite della band (dipende sempre con chi parlate) è che questa malleabilità è stata possibile proprio perché il pongo di base non ha mai costituito un’impronta originale esclusiva del gruppo e anche per la spregiudicatezza di Tagtgren, che in più di un’occasione li ha trattati senza tanti riguardi, fregandosene delle conseguenze… come a dire: se vogliono che io continui a menarla con ‘sti Hypocrisy allora devono accettare che faccia tutto ciò che mi passa per la capa, tipo le ballad space-goth, il class doom metal o il nu thrash revisionato.
Gli Hypocrisy però non sono i Paradise Lost o i Tiamat, che se si buttassero nella discomusic riusciremmo comunque a riconoscerli e magari dovremmo convenire che sono più in forma di Donna Summer (che è morta). Gli Hypocrisy non somigliano agli Hypocrisy quasi mai, nemmeno nello stesso album. La disomogeneità deriva dall’irrequietezza del loro leader ma diciamo la verità: quale sarebbe il filo compositivo di fondo? Qual è la matrice di un brano tipico del gruppo? I quattro quarti a 120 battute con sopra un riffone alla Megadeth e le melodie tipo Maiden?
Nessuno contesta la bellezza di pezzi come Roswell 47 o Elastic Inverted Visions … ma allo stesso modo sfido chiunque a dire che un pezzo, un riff o un disco siano “alla Hypocrisy” (tranne Tagtgren nelle interviste sul nuovo lavoro in uscita).
Gli rinfaccio questo perché la band ha le fattezze grosse e decise di un nome importante ma solo in apparenza. Si è sempre accodata variando poi sugli ingredienti. Da sola non può reggere il confronto con almeno altri dieci dei gruppi più grossi del mercato svedese. Facile dire che sono sempre stati troppo sottovalutati, in realtà il primo a compiere questo peccato è lo stesso Tagtgren! Gli Hypocrisy sono stati come un piccolo blog sempre aperto dove lui potesse dire le cose che gli passavano nel cuore tra una produzione e l’altra: a volte erano intuizioni geniali, ispirate e frutto di uno sfogo genuino, altre un farneticamento di riff e melodie rigurgitate via per il troppo lavoro con le altre band e l’onere di timbrare un cartellino contrattuale.
Capitolo 5 – Il Tatgren produttore
Da produttore Tagtgren è probabilmente più importante che come musicista. Nei vent’anni di intensa attività ha fatto un sacco di roba che potremmo suddividere in tre categorie.
Cose discutibili: Ha incoraggiato la crescita degli Amon Amarth; ha ridato credibilità agli Immortal; prodotto il primo disco dei Marduk e tutti i lavori dei Sabaton.
Cose indiscutibilmente buone: Ha prodotto Circle degli Amorphis e Blood Magick Necromance dei Belphegor; Monotheist dei Celtic Frost e Follow The Reaper dei Children Of Bodom; ha mixato quel gran casino di Enthroned Darkness Triumphant. Ha messo mano a tutti i lavori dei Dark Funeral e ha patrocinato la rinascita dei Destruction dal 2001
Cose discutibilissime: ha prodotto quel porcaio inascoltabile di Spiritual Black Dimensions sempre dei Dimmu.
Capitolo 6 – La discografia degli Hypocrity in pillole al cianuro
1992 – Penetralia: c’era una volta una band che ce l’aveva coi preti e solo poi col governo bastardo che mente come i preti.
1993 – Osculum Obscenum: c’era una volta il cantante di una band di nome Caligula che amava Satana ma non quanto gli altri membri della suddetta band.
1994 – The Fourth Dimension: Gli alieni e l’Apocalisse. La profezia madre della scalugna allude forse all’arrivo di certi esserini verdi? Ci faranno il culo o ci metteranno le ali alla bici?
1996 – Abducted: Il semi-classico. Alieni, rapimenti alieni e inseminazioni aliene. Uno dei migliori dischi di alien metal degli anni 90!
1997 – The Final Chapter: Il suicidio rinviato. Doveva essere la fine e invece none. Anche il quarto venerdì tredici si intitolava così, sapete?
1999 – Hypocrisy: Ripartenza alla grande, con vivo e vibrante entusiasmo e la produzione migliore mai avuta dalla band fino a qui. Grandi canzoni: Elastic Inverted Visions su tutte.
2000 – Into the Abyss: saltatelo pure, non vi perdete niente. La rabbia cieca è notoriamente senza argomenti.
2002 – Catch 22: Il disco in face degli Hypocrisy. Non è malaccio ma potevano evitare il disturbo.
2004 – The Arrival: La rinascita. Non ci sono momenti paragonabili alla prima decade della band però il singolo Eraser spacca, dio babbano!, e la produzione non è mai stata così ariosa ed equilibrata.
2005 – Virus: il disco più complicato da suonare. Nel bene e nel male.
2009 – A Taste Of Extreme Divinity: Buon livello come al solito ma tutto sommato un lavoro ordinario.
2013 – End Of Disclosure: il vero ritorno ai livelli di Hypocrisy del ’99. Non è vero ma accontentiamoci. Se si sciogliessero ora sarebbe perfetto.