Nota: questo articolo è completamente nuovo, non sto riciclando quello di qualche anno fa. A parte che era un pezzo piuttosto superficiale, ho cambiato idea su alcune cose e qui espongo le mie riconsiderazioni, specie a proposito del disco The Godless Endeavor. Leggete e godetene tutti.
1 – Nevermore Sanctuary!
Il disco saltò e anche la band perché in quel periodo il grunge aveva preso piede e il nostro chitarrista Lenny Rutledge si era messo in testa di far soldi, cosa che avrebbe significato mettersi a suonare quel genere. Noi altri invece gli abbiamo risposto: fanculo, no! Ero sicuro che la gente avrebbe capito immediatamente che una cosa del genere non sarebbe stata per nulla onesta. Si creò una situazione tesa, da una parte lui scriveva canzoni in stile Alice In Chains, un gruppo che amo ma a cui non voglio assomigliare mentre io e Jim avevamo scritto The Sorrowed Man in segno di protesta. Il bello è che a Lenny questa canzone piaceva ma non l’avrebbe mai usata perché ormai si era fissato. Praticamente tutto finì quando a una festa iniziammo a litigare di brutto arrivando a prenderci a pugni e finendo per diventare una piramide umana sul pavimento. Quella è stata l’ultima volta che la band è esistita… Warrel Dane – Metal Shock, 1996
Quante volte, Warrel Dane, ha raccontato il modo poco dignitoso in cui finì l’esperienza Sanctuary e quante volte i Nevermore sono stati considerati ancora i Sanctuary? In fondo con Loomis alla chitarra al posto di Rutledge, Warrel e Jim Shepard dovevano essere il nocciolo intorno a cui impolpare la nuova formazione di quella band. Poi la decisione saggia: cambiar nome e ripartire da capo. Non sarebbe stato facile. Scrivere buona musica magari sì ma arrivare a un contratto dignitoso in tempi così grami per il metal! Su MTV non c’era spazio ormai e in America la cosa più heavy che i ragazzi ascoltassero in quel periodo, parliamo del 1993-1995, erano gli Smashing Punpkins…
I Sanctuary avevano avuto culo. Era bastato che un membro della band si avvicinasse a Dave Mustaine, incontrato a un concerto a Seattle, e gli desse una copia del loro demo. Il chitarrista non solo decise di produrlo e suonarci come ospite ma procurò alla band pure un contratto con la Epic. Le cose poi andarono di merda e ci fu una bella parte di sfiga chiamata grunge che spazzò via il metal in tutta l’America eccetera eccetera. Loro e altre band power di Seattle erano con il culo sull’epicentro di quella tempesta di merda. Nevermind e i Pearl Jam disintegrarono tutto quanto. Suonare nei locali di Seattle diventò presto impossibile se non indossavi camice di flanella e la Epic, in accordo con la Sony, premevano per trasformare i Sanctuary in qualcosa di simile ai Soundgarden o giù di lì. Fanculo, era tutto finito.
Però le cose all’inizio girarono bene anche per i Nevermore. Fecero un demo e lo consegnarono a Neil Kernon, glorioso produttore degli anni 80, il quale se li ricordava eccome i Sanctuary, e rimase stregato da quel nastro. Nel 1993 la band firmò un contratto con la tedesca Century Media e fece un disco che surclassò quello che fino a lì pareva l’apice irripetibile di una vita artistica: Into The Mirror Black. Nevermore del 1995 lo spazzò semplicemente via. In America l’uscita di quel lavoro fu l’equivalente di una scorreggia di rinoceronte in Africa, non se ne accorse nessuno ma cazzo, in Europa l’arrivo dei Nevermore fu come se quel rinoceronte flatulenziale scorreggiasse a Piazza del Popolo o a Piccadilly Circus, con tutte le conseguenze del caso.
Nevermore è una bomba di album e in fondo, per quanto l’evoluzione della band ci sia stata fino all’ultimo e sottovalutato The Obsidian Conspiracy, il loro contributo storico è già tutto in quel lavoro. The Politics Of Ecstacy, Dreaming Neon Black e così via sono stati dei grandi album ma se non ci fossero, adesso saremmo ancora qui a parlare dei Nevermore/Sanctuary e del loro miracoloso operato svolto in quel pugno di lavori sfigati che per quanto licenziati con due nomi diversi, rappresentano da sempre l’apice creativo di una super power-thrash band americana in tempi davvero ostili, commercialmente parlando.
2 – Infinita bellezza. Infinito impatto. Infinita potenza.
Qui da noi, quando uscì il primo dei Nevermore, Signorelli, Ariatti, Mancusi fecero un solo coro dicendo che il metallo vero era ancora vivo. La band di Loomis/Dale sembrava condensare in una sola matrice tutto quello che era successo dal 1988 al 1995, senza apparire modernista o furbesca. Quel sound, le melodie, i riff, passavano dai Priest agli Alice In Chains, dai Pantera ai Queensryche. C’era l’eleganza, la bravura, la cattiveria, la meschinità e persino l’odio che nei primi anni novanta nessun nome, per quanto grande, era stato in grado di esprimere a pieno in tutta la gamma. I Nevermore compivano questo miracolo. E alla base del successo loro creativo ci sono due ingredienti umani: Warrel Dane e Jeff Loomis. Se si vuole ancora sentire quel sound e quello stile, oggi o domani, bisogna rimettere insieme quei due nella stessa stanza, non c’è altro da fare.
Warrel aveva già avviato il cambiamento dallo stile halfordiano di Refuge Denied alle tonalità basse, tragiciste, melliflue e talvolta un po’ civettuole di Geoff Tate/Peter Gabriel/David Bowie/James Murphy/Ronnie Dio/Jim Morrison su Into The Mirror Black. Da quel disco scelse anche di basare le sue liriche sulla realtà e le sue bruttezze magari senza smettere di usare il linguaggio immaginifico ed evocativo del fantasy. L’origine della band, a partire dal nome si basa sulla Fiction. Sanctuary è un luogo fittizio del film La fuga di Logan (tratto dal romanzo di William Nolan) e molti dei testi di Refuge Denied parlano delle solite stronzate metal anni 80: angeli da battaglia e miliziani in lega di ferro e carbonio, terze guerre mondiali e sdegno post-atomico; ma sul secondo album Into The Mirror Black la formazione di scuola autoriale anni 60 di Warrel Dane esce fuori e con essa un nuovo stile canoro più interpretativo e operistico rispetto alle tirate high pich degli inizi. Gli anni 80 sono finiti. Questo è uno dei parecchi messaggi del secondo album dei Sanctuary.
Into The Mirror Black è uno dei lavori power-thrash più puri e originali di fine millennio. Una festa tra le macerie lasciate dal dottor X e nel cuore morto di Sister Mary. La copertina non è, come per il primo, di Ed Repka e mai potrebbe esserlo. Sembra più un’immagine commerciale di una ditta di pompe funebri. Starebbe alla grande su una raccolta postuma dei Joy Division o giù di lì. Oggi l’intero disco risulta datato, dal suono all’immagine ma quando uscì era una finestra sul buio piuttosto ravvicinato della notte sociale che stava scendendo su tutti noi. Esprimeva una carica negativa insolita per il genere. Era fottutamente dark, malefico e disperato. Era l’equivalente artistico di un angelo caduto male, un’intossicazione di gelato al catrame, un brutto viaggio nella fabbrica del dottor Ivan Sutherland. Dane, in un’intervista recente, nel tentativo un po’ patetico di fare distinguo nel songwriting tra Sanctuary e Nevermore dice che i primi non trattano di politica ma basta sentire l’opener Future Tense per capire che è una sciocchezza. Inoltre i temi di Long Since Dark ed Epitaph sono fantascienza ma in stile buco nero dell’anima. Insomma, siamo già in pieno nel mondo crepuscolare e lacrimoso dei Nevermore.
E poi si sa. Alcuni dei pezzi che avrebbero dovuto far parte del successore di Into The Mirror Black sono finiti nella discografia della nuova band. Per esempio, Children Of Aggression è usata per C.B.F. mentre The Sorrowed Man finisce per intero sull’EP In Memory del 1996 ed è la matrice di tutte le ballad nevermoriane che sentiremo cinque anni più tardi su Dead Heart In A Dead World. Quell’EP, In Memory, io non riesco a vederlo come un lavoro dei Nevermore, però. Sembra più roba dei Sanctuary rivisitata dai Nevermore che decidono di rendere omaggio a quelli che erano stati dei poveri bambini nati morti e i cui spiriti sono, nel 1996, rimasti in un limbo. Pubblicarlo ha voluto dire liberare quei piccoli cadaveri poetici e poter azzerare tutto prima di dedicarsi al successore vero di Nevermore, The Politics Of Ecstacy.
Tra il primo e i tre lavori successivi è come se non ci fosse alcuna interruzione creativa. Quando ascolto un solo brano pescato a caso dai primi quattro album dei Nevermore finisco per sentirli tutti da capo. Parto da What Tomorrow Knows e il suo pappapparaparapappa da infarto fino al coro vertiginoso di Dead Heart In A Dead World.
La discografia dei Nevermore 1996-2000 è intoccabile, secondo me. Quello che succede dopo è tutto un gran casino, con alti, bassi e parecchi scleri e incazzature. Non che prima non ve ne siano ma l’armonia e le vette perenni di quei primi quattro album impediscono di badare alle tresche, i tormenti e le dispute egoiste che possono esserci dietro. Dopo il 2001 i Nevermore finisco per appassionare più con i casini che gli album, ma questo è un discorso che vedremo in seguito. Adesso voglio trattare della prima quaterna. Per me è inscindibile. Fruire quei dischi separatamente sarebbe come vedere solo uno dei capitoli del Padrino di Coppola. È una specie di saga sull’integrità, la compatibilità chimica e su come tutto vada bene finché si resta a dorso della tigre. Tra Dreaming Neon Black e Dead Heart In A Dead World c’è un cambio di produttore e il passaggio della formazione da cinque elementi a quattro ma chi se ne accorge? Dead Heart… è un po’ la versione commerciale dei Nevermore rispetto a ciò che era stato Dreaming… che invece ancora oggi risulta uno dei lavori più neri e malati degli anni 90, ma si sente che fino al quarto album, per Loomis e Dane non ci sono flessioni, incertezze, vuoti, dubbi. Ogni pezzo è pari all’altro, ogni disco un passo avanti nella medesima direzione verso il baratro disegnato sulle copertine dei Korn: Jonathan Davies ci manda i ragazzini a cartoni animati mentre i Nevermore ci spingono noi tutti in carne e fifa.
Interi concept su Timothy Leary e la sua visione chimica dell’esistenza, saghe necroromantiche su donne che scompaiono lasciando poeti in preda alla follia e la disperazione onirica, cantici di puro nichilismo e fastidio, ecco il materiale eletto dei Nevermore. Sembrano fin troppo tetri e pessimisti, non trovate? Insomma, tra il 1996 e il 2000 in Europa ci si abuffa di true metal finnico e power teutogeno, mentre in America quasi che si riscoprono le sonorità pesanti attraverso tutta una selva di giovani in fissa con l’hip-hop, Sly Stone e Roots dei Sepultura. I Nevermore sono una cassandra impestata che blatera melodie in minore guardando il tramonto placido di Seattle. Eppure se c’è un disco che anticipi davvero il macello dell’11 Settembre è proprio Dead Heart In A Dead World. Provate a sentirvelo con i testi davanti e ditemi se non le vedete arrivare quelle due navicelle terroriste puntate sul WTC. E la cosa curiosa è che subito dopo che il mondo è venuto giù, gli artisti, soprattutto quelli più impegnati e sensibili non sapevano più infilare due strofe in croce e dovettero dar fondo alle robe rimaste nel cassetto. Le centinaia di album, film, romanzi fermi sul nastro della catena di montaggio mostrarono tutta la loro irrisoria mancanza di sensibilità verso il pericolo incombente. L’astrologia era una cazzata, certo, ma l’arte no, l’arte avrebbe dovuto anticipare quanto stava accadendo. I Nevermore sono tra i pochi a esserci riusciti e guarda un po’, sono i soli a non pronunciarsi dopo sul disastro, né a tentare di trasformare lo sgomento e la depressione in qualcosa di creativo. Enemies Of Reality, titolo preso da una frase del film di Cronemberg eXistence, parla delle stesse persone di oggi e il tumore degenerativo alienante che ne assedia la mente drogata di endorfine. La vita sociale è fottuta dal terrore, la speranza è più una metastasi da rimuovere nel corpo apatico dei nostri pregiudizi cinici. L’incapacità emotiva è totalitaria, piega la cultura occidentale e persino le storie d’amore oggi sono come una ballad dei Nevermore, in minore e con finale rabbioso e annichilente. Le persone sono sempre più affogate in silenzi imbranati e terrificanti, esplosioni di sentimenti su cui è impossibile costruire qualcosa che non sia un piano di fuga verso l’isolamento di un social, al sicuro dentro una cabina di mi piace. Facebook non esiste ancora nel 2003 e di sicuro i Nevermore non parlano molto delle nuove vie di a-socializzazione nei tre album che fanno da lì al 2010, però è chiaro il motivo: hanno già detto tutto prima, quando era difficile capirlo, essere ascoltati e creduti. Dopo sono capaci tutti a sentenziare e fare i pessimisti.
3– The Enemies Of Nevermore Are Nevermore
Poi sono iniziati i problemi grossi. Prima di tutto la dipendenza alcolica di Warrel. In realtà tutta la band beve di brutto all’inizio del nuovo millennio ma chissà perché Dane sembra l’unico che dobba avere un casino da risolvere. Poi la Century Media e il guaio del produttore. All’inizio la band mette in giro la voce che Sneap, in regia per Dead Heart… non sia libero per un nuovo album con la band entro il 2003 ma in realtà è tutta una questione di soldi. Se non c’era Andy si poteva tornare da Neil Kernon e fare Enemies… con lui, no? E invece… Ventimila dollari di budget messi a disposizione dall’etichetta non bastano per nessuno dei due, ecco la verità, allora bisogna trovare un producer libero e a buon mercato. Kelly Gray? Chi? L’amico dei Queensryche. Di Seattle, uno di casa.
Risultato? Una ciofeca. Disco troppo corto, realizzato in fretta e con una produzione… orribile. Gli intervistatori non sanno come mettere la domanda alla band e se ne escono con roba tipo: “Ehm… Warrel, avete optato per un sound più grezzo, stavolta…”, oppure, “Enemies risulta più immediato, al punto che neanche inizia e già sembra tutto finito”.
Si può puntare il dito contro Gray, va bene, ma anche i pezzi non è che siano tutti irresistibili. Tra l’altro, rileggendo le interviste promozionali vengono fuori alcuni elementi un po’ sconcertanti. Dane il disco intero dice che l’hanno composto in studio, per esempio! Ma cazzo, volete incidere un disco mostruoso con quattro fichi secchi e vi permettete di usare lo studio come sala prove? Gli Aerosmith affittavano lo studio per un anno e ci andavano quando non erano troppo pieni di coca per lavorare a qualche riff. Gli Aerosmith dei primi anni 90, chiaro? I Nevermore che lavorano nelle cucine dei ristoranti o si spaccano le palle a impartire lezioni di chitarra a grassi e negati figli di papà, come possono scegliere una via così esosa? Kelly Gray assiste ai loro sproloqui e non sembra neanche sapere dove stia mettendo le mani. Non ha mai sentito un pezzo dei Nevermore prima di infilarsi in studio con loro e giura a se stesso di non avere la più vaga idea di come gestire quel loro sound nucleare, a lui piacciono gli Who e gli Alice In Chains, cazzo. Che ne dite, ragazzi se facciamo una cosa un po’ grungettona?
Facciamolo e basta!
Ok, ci penso io.
E le chitarre sono oscene. E il resto è proprio un dolore nel culo.