Secondo appuntamento dedicato ai racconti dell’orrore. Il piccolo classico che vorrei esaminare oggi, rifacendomi a un articolo uscito tempo fa su Mussorgskij in cui si faceva cenno a Gogol’, è Il Vij. Quando scrivo un pezzo su internet non so mai quanto dovrei informare il pubblico. In fondo avete wikipedia, vi basta un clic e potete scoprirlo da voi chi è il Vij, però non mi costa molto dirlo io: il re degli gnomi della tradizione folcloristica ucraina. Mai sentito, direte. Sappiate che non se ne trovano molti accenni in giro. Questa figura di demonietto coperto di terra e con due palpebre così lunghe da toccare il suolo, sembrerebbe quasi una mostruosità partorita dalla mente di Gogol’. Ma chi se ne intende però assicura che quanto a inventiva il grande autore non avesse grandi pretese o un talento visionario autonomo. Raccoglieva in giro idee, spunti, aneddoti, leggende e poi scriveva i suoi racconti magici. All’inizio de Il Vij lo puntualizza: “è una storia talmente perfetta che mi conviene raccontarvela come l’ho intesa io”, dice. Anche se non sappiamo mai chi stia parlando. Gogol’ usa dare al narratore una specie di siparietto preliminare in testa ai racconti delle Veglie ma nel caso de Il Vij non sappiamo chi sia a parlare. Sembra l’autore e quindi Gogol’, magari però il racconto è tutto una sua invenzione e la faccenda di averlo inteso è giusto un escamotage realistico manzoniano. Chi lo sa? Poco importa.

Il racconto Il Vij è tipicamente gogoliano. Vale a dire che si ride, ci si diverte e si trema allo stesso tempo. In effetti, la storia del giovane filosofo Choma, costretto a vegliare il cadavere di una strega che lui stesso ha pestato a morte, offre spunti degni di una comica di Stanlio e Ollio, ma quando il mostro si desta e assedia il povero ragazzo che per fortuna ha la prontezza di tracciare un cerchio magico attorno a lui, da ridere non c’è più nulla, anzi.

Viene in mente, come esempio cinematografico il celebre Per favore non mordermi sul collo di Polanski o Unico indizio la luna piena di Landis. Si può ridere in un film e avere paura insieme. Gogol’ già nei racconti delle Veglie ma soprattutto con Il Vij ne offre più di una prova. Rispetto a Il cappotto, Il Naso e Memorie di un pazzo, questo non è uno dei frutti più noti della sua creatività artistica. Gli appassionati di horror conoscono il racconto come la base che ispirò Mario Bava per il suo celebre capolavoro La maschera del demonio. Ho avuto modo di leggere il soggetto originale e scoprire che era molto più aderente al racconto mentre nel film, scritto da un paio di bravi e fidati sceneggiatori, della storia gogoliana rimane poco o nulla. Di fatto La maschera del demonio è quanto di più lontano da Il Vij. Non c’è un briciolo di ironia, se escludiamo il distacco sornione rivelato successivamente dalle rimostranze poetiche o artigianali di Bava stesso ma di sicuro se ne trovano molto più espliciti rimandi nei due Demoni del figlio Lamberto. Mentre è con Evil Dead, (penso alla bara che vola, al fracasso demoniaco, alla furia della strega) che Il Vij sembra più imparentato. Al punto che se Sam Raimi mettesse mano al soggetto originale di Bava ne verrebbe un film bomba a metà tra la serie con Ash e Drag Me To Hell.

Sempre i fissati cinefili sanno che Mario leggeva ai figli Il Vij di Gogol’ prima di metterli a nanna. Oggi i servizi sociali toglierebbero ogni diritto a un genitore che si diverta a terrorizzare i bambini con un racconto del genere e a pensare cosa devono aver passato Lamberto e il fratello: quali visioni, contro quali ombre terribili siano stati costretti a vedersela durante le notti d’infanzia, non posso che mostrar loro compassione. E supporre un debito.

La strega de Il Vij vuole vendicarsi del giovane che l’ha uccisa fisicamente. Durante le tre notti (il tre è il numero più fiabesco che ci sia) al povero filosofo ne fa passare di tutti i colori (del buio). Lei batte e sfrega i denti mentre si avvicina al giovane, i suoi occhi verdognoli lo fissano, la furia famelica (sessuale quando era in vita e l’aveva costretto a scortarla in una cavalcata per le campagne) della strega di Gogol’ si riallacciano ai Demoni del 1986

Il terzo capitolo della serie, che doveva sempre essere diretto da Lamberto Bava e che poi passò a Soavi era ambientato in una chiesa (il film si intitolò proprio La Chiesa ma sulla carta era Demoni 3), stesso luogo del racconto di Gogol’ dove magari il regista Bava avrebbe forse inconsapevolmente fatto i conti una volta per tutte con il racconto terribile che gli aveva reso difficile dormire da ragazzino. In ogni caso, i volti trasfigurati, le gengive sanguinanti e che si staccano licantropicamente per far posto a denti più aguzzi, due lunghi al centro, come quelli di Nosferatu (creando una fusione tra la mutazione dolorosa e la furia bestiale del licantropo unita alla prorompente sensualità del vampiro e l’origine esoterica, diabolica) creano un ibrido in grado di fare il sunto della più oscura tradizione folcloristica e sembrano scorci immaginifici e soprattutto anatomici della strega di Gogol’.

Dobbiamo poi notare gli ammiccamenti al film di Mario con l’incipit della maschera demoniaca, anche se in stile molto meno pesante e medievale ma più vicina all’estetica snella e crossing degli anni 80.

Torneremo più in là sulla trilogia demoniaca di Bava-Soavi-Argento. Per ora ci basti metterla in conto.

La caratterizzazione dei personaggi, dal vecchio cosacco che sorveglia e becca sempre il filosofo quando prova a squagliarsela, al padre della strega, centurione dispotico e umorale, mostrano la bravura di Gogol’ soprattutto nel tratteggiare i tipi secondari rispetto al lavoro psicologico sul protagonista, abbastanza piatto e folcloristico. Ragazzo affamato, furbo, modesto. Vuol fuggire e di fronte alle straordinarie manifestazioni del male non fa altro che cacciar la faccia in un breviario e mormorare brani di preghiere a caso. Per lui non c’è niente di insolito nella realtà delle streghe e i demoni e alle sferzate con tanto di acquavite a lubrificar le ferite, preferisce la voragine dell’orrore infernale, da cui demoni, demonietti e l’indimenticabile Vij cercano di risucchiarlo via.

La sensualità della strega potrebbe essere letta freudianamente con la passione di Gogol’ per le donne mature, la paura del sesso e l’impotenza sua che lo afflisse, ma fa il paio con stereotipi da leggenda campagnola tipo il canto del gallo che allontana i demoni, risoluzione dell’aneddoto tenebroso di Mussorgskij/Disney in Fantasia o la leggenda esteticamente improponibile (almeno il cinema l’ha sempre pensato) di mostrare una donna che cavalca un uomo fino a ucciderlo.