Un abito da sposa pieno di Carmille

PRIMA PARTE – UN ABITO DA SPOSA PIENO DI CARMILLE!

Premessa: chi legge i miei sporadici articoli in questo blog saprà che io non cerco mai di mantenermi nell’asfittico spazio di una molle recensione. Ce ne sono già abbastanza in giro per la rete di blog così: recensiscono vecchi e nuovi film e poi ancora vecchi e nuovi film. A me interessa partire da un film (un libro o qualsiasi altra cosa) e prendere la tangente mantenendomi analitico, riflessivo e visionario.

Sembra chissà che vi stia dicendo se la metto così ma vi assicuro che il più delle volte combino solo pasticci di farfalle. So da dove parto ma non so mai quando e dove arrivo, un po’ come le band progressive degli anni 70. Diciamo che questo è un modo di fare critica o blogging piuttosto prog, ok? Quindi se vi aspettate una scheda di approfondimento su Un abito da sposa macchiato di sangue, girate al largo e provatevi altri lidi. Tanto mi pare che di scribacchiamenti su questo film ce ne siano abbastanza e dei consueti super-esperti.

Tenete presente che io non lo sono, super-esperto, intendo. Più che fingere di saper tutto vi dirò cosa non so. Almeno vi renderete conto di chi vi sta parlando e potrete prendere le vostre misure.

Per prima cosa il film in questione io ho potuto vederlo solo in spagnolo. E lo capisco meno di quanto mi piacerebbe pensare. Ci sono passaggi di La sposa che non si capirei a prescindere dal doppiaggio. Sono passaggi concepiti in modo ambiguo, criptico… figurarsi quanto possa aver inteso quindi facendo a meno del significato di quasi il 70 per cento dei dialoghi!

Inoltre, non conosco quasi nulla di Vicente Aranda, il regista. So che è iberico (per non ridir spagnolo), che ha lavorato e molto nonostante il regime e su soggetti invero abbastanza malati e disturbanti.

Negli anni 90 ha fatto parlare grazie al film Amantes – Gli amanti (1991), pellicola di cui non so assolutamente nulla che Wikipedia non possa dirvi al posto mio. Però ho visto poche settimane fa un film completo non ricordo su quale sito di streaming dal titolo Las Crueles, mai uscito in Italia, sempre in spagnolo. L’ho capito ancora meno di Un abito… ma di sicuro mi è piaciuto di più.

Seconda premessa: io credo che non dovremmo lasciare che internet non ci impigrisca la memoria. La possibilità di accedere a tante informazioni senza spulciare la nostra polverosa biblioteca o ricorrendo alla memoria fallace, dovrebbe permetterci di concentrare i nostri sforzi sul tentativo di creare collegamenti sempre più audaci e soprattutto di trovare qualcosa di sensato e stimolante da dire riguardo i film, i libri e qualsiasi altra forma d’arte si decida di esaminare.

Purtroppo la maggior parte di chi scrive su internet usa l’immenso e comodissimo bacino di informazioni per fingere una cultura che non ha e addirittura per parlare e giudicare qualcosa che non si è degnato nemmeno di “fruire” (brutta parola, lo so) interamente.

La corsa alla recensione al solo scopo di coprire un titolo e timbrare una sorta di cartellino su un’ingenua smania di “presenzialismo critico/archivistico fa ridere ma è la realtà più diffusa. Anche io ne sono stato vittima in passato.

Ora faccio l’opposto, sapete? Prendo un film, un libro o un disco e ci metto quanto ci metto a esplorarlo, sfruttando internet per recuperare le fonti più disparate ed espandere la mia conoscenza su di esso. Per Un abito da sposa macchiato di sangue mi ha solo detto male, ma avevo buona volontà di comprenderlo a fondo. Mica è colpa mia se non c’è una versione italiana neanche a (non) pagarla in natura!

In ogni caso tutti i titoli citati in questo articolo io li ho letti. Se non ci sono riuscito o non l’ho fatto pur citandoli da sapientone, ve lo dico e basta.

Credo che se vogliamo cambiare qualcosa dobbiamo assumerci la responsabilità della nostra ignoranza, dei nostri limiti. Non si può aver letto, visto o sentito tutto. Io scrivo dei miei sforzi per coltivare una passione e conoscere sempre più cose. Cito il pur detestabile Davide Mana quando disse: chi dovrebbe fare le cose a modìno se non i veri appassionati? E io lo sono, un appassionato, da livelli ossessivi, sappiatelo. Ma fingere di sapere sempre di cosa si stia parlando è vile e irrealista e per quel che mi riguarda ho deciso di smettere. Largo alle lacune, le vulnerabilità culturali, magari così si comincia un dialogo arricchente. Ehm…

Siccome mi ispiro a un mio amico che ora, internettianamente, non è più tra noi, (Sant’Elvezio da Malpertuis) prima di seguitare con i miei vaneggiamenti, ritengo consono raccontarvi la trama del film anche se sono sicuro che a) voi il film già l’avete visto e sperate che io vi confermi le impressioni che avete avuto b) avete già letto la trama su FilmTV.it c) avete smesso di leggere dopo tre paragrafi e ora siete su Horror.it ma non avete ancora capito che sono anni che nessuno lo cura più.

Diciamo che questo è ciò che io, con due figlie molto rumorose e vivaci in casa, un lavoro che mi leva le ore migliori del sonno e la non conoscenza dello spagnolo, posso aver capito della trama. Non vi interessa saperlo?

Ci sono due giovani sposi in luna di miele. Si presume. Scorrazzano per la provincia mediterranea (o magari siamo in Inghilterra, chissà). Sono diretti a un albergo e tutto sembra previsto, prenotato e tranquillissimo.

Al loro arrivo all’hotel di gran lusso c’è un vento minaccioso in stile Argentiano. Si capisce che qualcosa non quadra. E infatti la sposina salendo per prima le scale d’ingresso si ferma davanti all’entrata e guarda qualcosa che ha notato. Qualcuno. Una donna molto bella ma dalle occhiaie tremende che la fissa dall’interno di una macchina, sempre con insistenza Argentiana. Si mette un cappuccio fiabesco in testa e non smette di guardare la sposa.

Il seguito non sembra collegato allo strano incontro di sguardi con la sconosciuta. Nell’hotel infatti i due impalmidi fanno una breve sosta appena; giusto il tempo per lei di subire uno stupro da un misterioso individuo sbucato dall’armadio della camera e via, di nuovo in strada; con l’aria meno spensierata, si capisce.

Poco dopo, quasi che sia tutto stato un sogno di lei (o magari di lui), riecco gli sposini in viaggio. L’arrivo stavolta è in un vecchio castello appartenuto a Carmilla Karnstein.

Sì, avete capito tutto. Il film si ispira al romanzo breve (o al lungo racconto) dello scrittore irlandese Joseph Sheridan LeFanu e per quanto abbondi di schermaglie sadiane e spargimenti di sangue all’arma bianca, con le vicende dei due freschi congiunti, c’è di mezzo una vampira reincarnata con tutta la pantomimazione nota di amore-morte-donne lesbiche immaginabile; ma anche un bel tocco di surrealismo erotico, squisitamente spagnolo, ovvero Bunueliano.

Per prima cosa sbrogliamo subito via le esitazioni: Un abito da sposa macchiato di sangue è un discreto horror anni 70. Se io fossi un critico settimino e fervente, di cultura elevata e passioni di scamorza, potrei crearci su una babele di considerazioni alto-bassotte e correlazioni e sbrodolamenti meta-tutto, ma per quello che mi compete posso soltanto dire che a parte qualche sbadiglio verso la mezza, è sì un discreto horror intellettuale… da strapazzo.

Quello che colpisce, togliendo la vena sadica e la quasi totale assenza di tensione che non sia morbosa, è l’assenza di buoni sentimenti. Anzi, proprio non ci sono i buoni.

Sticazzi, dirà il fissato con Frank Miller. Ci si diverte di più se sono tutti bastardi. Ok, ma io intendo che non c’è l’empatia con i personaggi. A dirla tutta, non interessa al sottoscritto spettatore chi faccia cosa perché non c’è un equilibrio rotto e non c’è alcuna pietà per nessuno. Neanche il vampiro è compatito dal regista.

Di solito, in una storia come questa (Carmilla letteraria in primis) se un vampiro si intrufola con l’inganno e le mentite e irrequiete spoglie nella tranquilla e sonnacchiosa routine di una famiglia per bene, oltre alla protagonista plagiata, lo spettatore/lettore si identifica con lo sgomento e il dolore dei parenti, i quali si vedono sfilare da sotto al naso l’amata figlia, (moglie o che parentame si voglia).

Qualsiasi horror di vampiri ha questo elemento di compassione e di plagio progressivo. Tranne che qui. Ci sarebbe il marito ma è uno stronzo. Per dire, indovinate chi è lo stupratore che esce dall’armadio all’inizio? Non vi svelo niente poiché si capisce presto che tra lui e la mogliettina c’è un amor/sessuale molto contorto, fatto di sberle, inseguimenti, possessioni coatte e via così.

Ma anche la protagonista non è innocente come recita senza tanta convinzione di fronte alle veemenze del marito allupato. Sembra non volerlo ma non pare così sconvolta per le manie di lui. Pare un gioco che lei fa volentieri fin quando Carmilla non le lava la testa a colpi di training saffico e femminismo mestrualis.

Voglio dire, il collegamento tra il sangue del ciclo e il vampiro solo Ray Garton nel suo bellissimo Ragazze Vive, l’ha sfruttato, ma usandolo come pasto di un non morto. Richard Laymon lo fece usare a una sua protagonista cattivissima per siglare un patto di sangue ma provocandosi il flusso con una lametta in Il luna-park dell’orrore (recuperatelo!).

Sarebbe stato fichissimo lavorare sul rapporto tra menarca (come Carrie con la telecinesi) e il vampirismo femminista della Carmilla di Aranda, sviluppando l’idea di sottomissione/possessione/ribellione al maschio dominante e bruto partendo dal battesimo sangrieto dal mezzo alle cosce di lei e non dal petto di lui, sprizzante a fiotti in una delle scene oniriche da accoltellamento più rosse e suggestive che abbia mai visto.

A proposito di sangue e ribellione femminile, penso alla reinterpretazione di Tori Amos del classico Raining Blood degli Slayer. Lei non ha mai amato il metal ma nel caso di quel pezzo ha voluto coverizzarlo al piano e voce immaginando che tutto quel sangue del titolo fosse mestruale e cadesse sulle teste dei milioni di uomini ottusi, machi, violentatori e beceri sciovinisti che dominano ancora il mondo. La rossa Amos ha subito uno stupro anni fa. Da allora le sue interpretazioni sono una specie di catarsi di quell’esperienza e il colore dei suoi capelli una specie di ferita vaginale. Oh, lasciatemi perdere, eh?

Ma dove sono finito?

Non essendoci i buoni, non c’è vera tensione. Non è che la Sposa con l’abito macchiato di sangue sia una gotica vittima di un bruto, rapita e costretta a unirsi a lui cristianamente. Qui ci sono due privati cittadini che si divertono a fare Justine in un vecchio castello. Ed è tutto normale. Tranne quando arriva la misteriosa sconosciuta. Se ci sono momenti di inquietudine in questo film perdono qualsiasi senso perché irrompono in uno scenario familiare già ampiamente malandato.

Sin dalla prima potente apparizione, la Carmilla bionda e cappucciata, con lo sguardo intenso e febbricitante di chi ha fame e soprattutto sete, lasciano un segno sia nella protagonista che nello spettatore.

Se dobbiamo fare un discorso di fedeltà alla fonte letteraria però denunciamo pure una infedeltà alla carta, poiché nel romanzotto di LeFanu la vampira è più vicina a quella del film di Vadim e soprattutto alla Ingrid Pitt del capolavoro Hammer Vampiri Amanti: svenevole, subdola, capricciosa e lesbica persa, anche se un po’ troppo milfona rispetto alla giovinetta del racconto.

Qui c’è una specie di spettro malato che appare e scompare, spezzando prima con irruzioni da far andare in bamba un epilettico e poi in modo ancor più camionistico lo sfarfallare perverso dei due impalmati bdsm. E mette più paura quando lui la ritrova senza spiegazioni sotto la sabbia, alla Dalì, e le spolvera via i seni con metodica attenzione.

Del resto non bisogna essere pignoli e soprattutto banali. Se dobbiamo analizzare le differenze tra la Carmilla di Aranda e quelle di LeFanu o tutti gli altri adattamenti cinematografici, non possiamo compiere l’errore di pensare in modo esclusivo.

Chiaro che il regista spagnolo si sia lasciato influenzare anche da tutte le altre stronzissime succhiasangue della letteratura popolare. Ce ne sono molte e forse mi interessa più che proseguire in questa sottostrada che con il dire di un vecchio film. Sì, vorrei approfittare della vostra noia e sollevarvi l’interesse con una bella processione in rosso vivo.

Va fatto notare sì che nella storia della narrativa horror il primo vampiro fu un maschio: Lord Ruthven di John William Polidori, esattamente, (1819). Ma se ci spostiamo nella poesia horror, beh, è un altro discorso. Il primo vampiro è infatti una donna: Christabel (1797-1800) di Samuel T. Coleridge (quello della ballata del Vecchio Marinaio, esatto). Ed è proprio a quel poema incompiuto, che non mi è stato possibile leggere (se non altro io lo ammetto) che LeFanu ha ideato Carmilla. E come tutti sapete, Carmilla è la base per Dracula.

Ma dovremmo lasciarli perdere questi discorsi sessisti quando si parla di vampirismo. Si sa che i suckers non badano al pisello e la pisella, visto che loro mirano al collo e chi penetra sono soltanto i propri canini. Carmilla ha questo di tanto sorprendente e coraggioso, è lesbica e non lo nasconde. Di sicuro non ce lo manda a dire il suo autore. E Stoker ce ne mette tre di coinquiline saffiche nel Carpazi Hotel. Anzi, proprio loro gli appaiono in sogno, a Bram, una notte di tregenda peperonata, dandogli lo slancio decisivo per buttar giù il suo incommensurabile romanzaccio ultravittoriano.

Carmilla però non è la prima strega macrodentata della letteratura. Anzi, se escludiamo il Byroniano lord di Polidori, sono più le donne che gli uomini a tornare dalle tombe per bivaccare di giugulare, prima che il Conte dei conti si piazzi sul podio e da lì domini la valle dei lupi e dei morti viventi.

Togliendo Christabella, messa lì in versi e neanche finita, c’è l’Aurelia dello scrittore tedesco E.T.A. Hoffmann, nel racconto Vampirismus* (1821); poi Asa del gogoliano Il Vij (1835), di cui abbiamo scritto nel precedente articolo di questo blog; la perfida e irresistibile rapitrice onirica Clarimonde, ne La morta innamorata di Gautier (1836).

Nota*: Tra l’altro il racconto di Hoffmann mi ha dato lo spunto per un prossimo pezzo su tre scrittori d’Ottocento piuttosto intriganti e poco considerati dalla critica horror: Tieck, Kleist e Nodier

PARTE SECONDA – CARMILLA E LE ALTRE

Ci sono vampiri e vampiri, e non tutti succhiano il sangue – Fritz Leiber – The Girl With Hungry Eyes

A parte queste prime gule, come le chiama Giuseppe Lippi, molti estendono la sarabanda delle parassite globulari anche a Ligeia di Poe (1838) (inserita nella raccolta Vampire, Mondadori) e soprattutto la Fosca di Tarchetti (1969).

In effetti in entrambi i casi c’è una forma di schiavismo mentale ai danni dei protagonisti e la sintomatologia dell’avvilimento fisico e l’acuirsi dell’ossessività mentale spiegabile con una contorta dipendenza dalla morte (il racconto di Poe) e la malattia (il romanzo del nostro Igino) ci stanno tutte.

Nel caso del romanzo scapigliato poi c’è una fascinazione per l’appassimento, la bruttezza e la putrefazione spirituale che è parente delle poesie vampiriche di Baudelaire e le sciarade necrofile di Poe e Gautier, quindi ci siamo, ma leggendolo ho trovato uno spunto per un collegamento che riserverò di sviluppare in un pezzo futuro: quello tra Fosca e Carrie di Stephen King. Li ho messi a confronto e sono molto più parenti, i due testi, di quanto si possa pensare, soprattutto per il fascino e il terribile potere ammaliatore che emerge via via dalla cozzaggine esasperata delle due protagoniste.

Nel 1872 poi arriva Carmilla e da lì tutte le antecedenti vampire subiscono una specie di sunto archetipale definitivo. Il grande contributo di LeFanu non è però tanto nella capacità di mettere così a fuoco il personaggio malefico ma il lavoro spesso e attento sul folclore, inserito per la prima volta in una storia di vampiri.

Sapete tutta la tiritera dell’aglio, la croce, il paletto… se leggete i titoli precedenti che ho sopra citato (vero che Ligeia e Fosca sono molto esasperate come succhiatrici ma anche) Clarimonde, Asa e Aurelia non è che facciano quello che ci si aspetterebbe. Quasi nemmeno succhiano le loro vittime.

Dopo Carmilla è tutta un’altra storia, quasi sempre la stessa, ripetuta allo sfinimento. Oggi poi bisogna ammettere che il romanzo di LeFanu, per quanto sia godibile e ben scritto, non spaventa e impressiona più. Dracula bene o male qualche momento di tensione e suggestione ce l’ha ancora, ma pure lì ce ne vuole.

PARTE TERZA – TRE STORIE DI VAMPIRI CHE IMPRESSIONANO DAVVERO

Se volete spaventarvi con le storie di vampire e chiudere il libro assaggiando un bel brivido lungo il corpo allora segnatevi i seguenti titoli:

–          Il mistero della campagna romana (1887) di Ann Crawford (sorella di Francis Marion, autore dell’altro classico vampiro in rosa, che io trovo sopravvalutato ed è intitolato Il sangue è vita o Christine (1880), a seconda delle traduzioni)

–          La stanza nella torre di E.F. Benson

–          La ragazza dagli occhi famelici di Fritz Leiber

Il primo mi ha impressionato sia per l’ambientazione romanesca-bucolica e soprattutto con una serie di particolari suggestivi: per esempio, il contrasto tra la bellezza florida della vampira Vespertilia e i cenci iper-putrefatti che ha indosso. Invece, di solito quando appare Carmilla, sebbene direttamente dalla propria tomba dopo secoli, i suoi abiti sono d’epoca sì, ma perfettamente stirati e quasi nuovi di tintoria. Illusione, d’accordo, ma nel caso del racconto della Crowford non parlo di attendibilità, Satana me ne scampi, ma di effetto rivoltante provocato dal non estendere alla veste l’effetto ipnotico della falsa bellezza e salute della vampira. Quegli stracci mefitici su un corpo perfetto e lussurioso lasciano un disgusto e uno strano segno nel lettore, o meglio in me. Per non dire della conclusione, quando una statua che nessuno si sogna di guardare, scolpita dal protagonista prima che fosse trascinato nella tomba da Vesperty, è lasciata a imputridire dagli amici di lui nella vecchia villa abbandonata, sotto un telo. Detta così magari non vi pare granché ma leggete e sappiatemi dire.

La stanza nella torre (1912) è un capolavoro breve. Benson sa spaventare sul serio quando ci si mette e per quanto il suo racconto non parli esplicitamente di una vampira, è dall’inserimento dei classici riferimenti folk (la morta suicida e la bara piena di sangue) che arriviamo a capire che lo è. E quando lo realizziamo ci ritroviamo a sentire una specie di coltre pesante posarsi sulle nostre spalle.

Ti voglio. Voglio i tuoi momenti più intensi, quelli che ti hanno reso felice e quelli che ti hanno fatto star male. Voglio la tua prima ragazza. Voglio la bicicletta luccicante di tuo fratello. Voglio assaporare i tuoi sapori. Voglio la tua prima macchina fotografia, voglio le gambe di Betty. Voglio il cielo blu pieno di stelle. Voglio la morte di tua madre. Voglio il tuo sangue sui sassi. Voglio la bocca di Mildred. Voglio la prima foto che hai venduto. Voglio le luci di Chicago, il gin, le mani di Gwen. Voglio il tuo desiderio di me. Voglio la tua vita. Nutrimi, ragazzo, nutrimi. – The Girl With Hungry Eyes

La ragazza dagli occhi famelici (1949) di cui ho messo uno stralcio risolutivo qui sopra è uno dei momenti più esaltanti dell’intera narrativa horror tutta. La  misteriosa modella dl geniale Leiber, che attraverso la pubblicità finisce per vampirizzare l’immaginario collettivo, è davvero molto impressionante. Vi assicuro, non sfoglierete più con la stessa aria annoiata le riviste per donne nelle sale d’attesa. Ne è stato fatto persino un film uscito in Italia con il titolo non molto invitante di Intervista con la vampira. Ve lo consiglio ma soprattutto leggetevi il racconto. Un po’ paranoico, modernissimo e parente della S1m0ne di Andrew Niccol.

Poi va beh**, dobbiamo anche mettere in lista Richard Matheson. A parte Io sono leggenda (1952) che ammetto di non aver mai letto ma di conoscere abbastanza bene da sapere che è pieno di donne vampiro assai vogliose e carmilliane, vi consiglio di recuperare due racconti dello stesso scrittore, al solito molto originali, sulla figura delle succhia succhia. Julie (1962) e Dita in movimento (sempre 1962). Il primo lo trovate nella raccolta Erotic Horror, uscita per Bompiani una ventina e passa di anni fa, mentre il secondo è su Shock 4.

Entrambe le figure vampiriche sono tutto tranne che classiche vampire. Julie non usa i denti ma la sua apparente sciatteria, in una versione collegiale pre-porky’s di Carmilla e anche qui molto vicina a Carrie***.

Nota 3***: Mi sa che l’articolo sarà su Julie, Fosca e Carrie e tutte le racchie diaboliche del genere horror!

Nel secondo racconto, Dita in movimento, Matheson invece potrebbe optare per vampirismo sessuale e i poteri della mente, facendo la ruota definitivamente all’idea di Stephen King ma in realtà è ancora più allucinato, e lo scrittore vi trasforma il linguaggio dei sordomuti in una specie di spirale canina che al confronto Carmilla è una barzelletta che non fa più ridere, leggete qui.

All’improvviso la notte divenne fredda; era finita, e lei si ritirò in fretta, rivestendosi. La veste frusciò antipaticamente, come quella di una vecchia signora che ha inavvertitamente mostrato le gambe. La donna si girò e cominciò a guardare dal finestrino, come se nemmeno esistessi. Guardai stupidamente la sua schiena, svuotato, con la sensazione che i muscoli mi si fossero trasformati in acqua – Dita in movimento – Richard Matheson – Shock 4

Nota 2**: (vi pareva che me la fossi persa per strada, eh?) Menzione a parte per Mortylla di Clark Ashton Smith (1953), altro nome imprescindibile che io ho presciso eccome. Mi ha colpito lo stile, leggendo questo suo racconto. Non è una gran storia ma lo stile è di un poeta. E lui lo era. Su Mortylla usa infatti il montaggio poetico, con il finale che ripete l’inizio, in una circolarità dannata. O magari è un errore di impaginazione della editrice Nord. Non sono riuscito ad appurarlo. (Francesco Ceccamea)