Come convincere le proprie figlie a mettere in ordine la cameretta e fallire miseramente

Metti in ordine, raccogli quei libri, sistema quel letto, se entro cinque minuti non fai sparire quelle barbie, te le butto tutte nel secchio dell’immondizia! Minacce e ordini… Anche se molti di noi finiscono per piegarvisi, il cervello umano per come è fatto di suo non vorrebbe saperne proprio. 

Ieri sono entrato in cameretta delle mie due bambine e come al solito era tutto sottosopra: puzzle in terra, libri buttati in un angolo, vestiti puliti che uscivano a metà dai cassetti come bestiole trinciate nel momento della fuga, bambole e pupazzi e pupazzetti ovunque tranne che nelle loro scatole.

Provo da tempo convincere le mie bimbe che è giusto tenere in ordine la camera, e in generale che devono avere più cura delle proprie cose…

Ieri, prima di sbraitare, urlare, minacciare e tutto il solito repertorio da papà isterico, mi sono fermato, ho preso un bel respiro e mi sono seduto sul letto della più grande, Matilde.

Le ho chiamate entrambe e ho chiesto loro di mettersi sedute accanto a me.

“Che c’è papà?” hanno chiesto avvicinandosi.

Volevo parlare soprattutto con la grande, visto che Cecilia ancora non può comprendere certi discorsi; ma averla lì pensavo fosse comunque utile in qualche modo. Magari assistere a uno scambio di idee fruttuoso tra me e la sorella maggiore avrebbe dato un qualche imput diabolico anche a lei.

“Allora”, ho detto. “In questa stanza c’è un gran disordine, giusto?”

Matilde si è guardata in giro e ha detto di sì con la testa. L’ho guardata un po’ e sforzandomi di sorridere ho continuato:

“Per te è fastidioso stare in mezzo a questo casino?”

Lei ci ha pensato un po’ e poi ha detto di no.

“Per te è la stessa cosa, che sia tutto a posto o in queste condizioni, giusto?”

“Sì, papà”

“Immagina che ora io ti dica che ho deciso di buttar via tutto quello che c’è e di scegliere tre oggetti a te cari. Quali risparmieresti alla mia furia risolutrice?”

“Che vuol dire furia risolutrice?”

“Insomma, ti butto tutto, lascia perdere. Dimmi tre cose che vorresti salvare.”

“Ma butteresti tutto, tutto?”

“Tutto tutto”

“Anche il calendario?”

“Certo. Tutto.”

“E anche l’armadio, il letto e tutti gli specchi?”

“No, quelli li lascio. Butto ogni giocattolo, libro…”

“Anche i vestiti?”

“Ehm, no, i vestiti no”

“Allora non è vero che butti tutto”

“Effettivamente no, ma non puntualizzare, butto tutti i giocattoli e i libri, va bene?”

“Le scarpe?”

“Piantala, ho detto giochi e libri!”

Lei ci ha pensato un po’ e poi ha risposto: “Ba’…”

“Ok” – Ba’ è la bambola inseparabile. Senza non riesce a dormire. “Poi?”

“Poi… quella cornice con dentro tutte le mie foto da piccola”, ha detto indicandola, appesa sul muro.

La seconda scelta mi ha sorpreso. Matilde salverebbe un quadro che è un collage fatto da sua madre, delle foto scattate a lei da quando aveva 0 fino a 2 anni. Non ne abbiamo realizzato uno per la sorella. C’è solo il suo. Non per scelta, penso sia solo la pigrizia dei secondi genitori. Sapete, no? Esiste il secondo figlio ed esistono anche i secondi genitori. Non saranno mai come i primi genitori. I secondi sono una roba più rilassata e svogliata, purtroppo. O magari per fortuna…

“Terza cosa?”, ho chiesto io.

“Boh”, ha detto lei alzando le spallucce.

“Un libro?”

“Sì, certo.”

“Quale?”

Si è girata e ha guardato la libreria ingolfata di volumi, alcuni sul punto di cadere dagli scaffali, altri messi di traverso, con le prime pagine piegate in un modo che mi faceva male a guardarli ma non abbastanza da alzarmi e fare qualcosa.

“Non so”, ha detto lei dopo una pausa lunga. “Me ne piacciono tanti. Perché non butti tutti i costumi di Cecilia e mi lasci i libri?”

“Lascia stare le cose di Cecilia. Sto parlando con te. Cosa provi al pensiero che io butti tutto ciò che è tuo nel secchio dell’immondizia?

“Mi dispiace.”

“Perché?”

“Perché sono cose mie”

“E anche mie!”, ha aggiunto l’altra piccolina. Silenziosa, certo, ma se l’aveste vista in azione… non ha fatto che buttarmisi addosso per tutto il tempo, arrampicarmisi sulle gambe, graffiarmi e baciarmi come una winnie the pooh con un gigantesco vaso di miele a forma di papà.

“Non sono tuoi” ha urlato di colpo Matilde. “Diciamo delle mie cose, non le tue!”

“Ti dispiace perché sono tuoi e perché sono te!” ho detto io evitando di dare peso alla disputa.

“Cosa vuol dire che sono me?”

“Sono pezzetti di te. Se vai in camera mia e vedi la chitarra sul letto, e io non sono in casa… La sfiori e la accarezzi un momento… Non ti sembra di toccare un po’ di papà? Non ti pare che io sia lì con te, almeno un pochino?

“No.”

“Sai, io ho visto casa di nonno Checco quando lui era morto da una settimana”

“Hai visto il nonno morto da una settimana?”

“No, mi sono espresso male. Ho visto casa sua dopo che lui ormai era stato seppellito al cimitero da giorni. E insomma, tutti gli oggetti mi sembrava che fossero pieni di lui, come se l’uso che ne aveva fatto e i sentimenti che ci aveva riversato su negli anni, li avesse trasformati in qualcosa di diverso. La pipa del nonno, anche se non l’aveva mai fumata, era lì. E mi faceva sentire come se un pezzetto di lui potesse ascoltare, quando avessi parlato. Mi capisci?”

Matilde ha scosso la testa. “Tipo il telefono?”

“Una specie. Le cose ci mettono in contatto con le persone a cui appartengono. Se un giorno porti a casa per sbaglio il libro di scuola di una tua compagna di banchi, non ti sembrerà strano farci sopra i compiti?”

“Credo di sì”

“E sarebbe curioso visto che sono uguali, no?”

“Ma io i compiti li faccio sul quaderno”

“Ok… I tuoi vestiti, se io li prendessi e li bruciassi, probabilmente mi farebbero piangere e…”

“Allora non bruciarli.”

“Certo, era per dire.”

“E poi avevi detto che non toccavi i miei vestiti”

“Giusto… giusto”

“Quindi butti i miei giochi ma anche quello è solo per dire?”

“Sì, certo”

“Ok. Posso andare a giocare con il tablet, adesso?”

“Sì, ma aspetta un momento. Non ho finito. Tenere in ordine le tue cose, averne più cura, ti offre un sacco di vantaggi”

“Tipo trovare una cosa quando mi serve”.

“Esatto”

“o tenere la stanza pulita”

“Beh, non proprio. La mia libreria è in ordine ma piena di polvere. L’ordine e la pulizia sono cose diverse, no?”

“Credo di sì.”

“Ma se la cameretta è sporca, ti infastidisce ?”

“No”

“Ok, e non ti viene in mente altro sui vantaggi del tenere le cose in ordine?

“No…”

Dopo averci pensato un po’, ho sospirato. “Nemmeno a me, in effetti”

“Allora posso andare a giocar…”

“Sono pezzi di te, capisci? I tuoi libri, i giochi, i vestitini… se li tratti bene, rimettendoli a posto, dureranno di più.”

Poi le ho guardato i piedi. Sembravano neri come quelli di un bambino della rivoluzione industriale. “Vedi i tuoi piedi?”

“Sì?”

“Come sono?”

“Sono sporchi. Vuoi che vada a lavarli?”

Ci ho pensato… “Solo se vuoi tu”, ho detto.

“Allora non li lavo”

Non sapevo bene come proseguire. Matilde mi guardava ancora ma iniziava ad agitarsi e l’altra mi tirava il collo dicendo che aveva sete.

“I tuoi piedi sono sporchissimi. Ci stai sul letto e…”

“Vuoi che li lavi?”

“Ehm… no”

Ho lasciato perdere. Inutile aggiungere che la cameretta è ancora tutta in disordine. E che anche il resto della casa lo è. Dei piedi di Matilde non ho nemmeno voglia di parlare.

Ho capito da tempo che non si può insegnare nulla ai propri figli se prima non si mostra loro con l’esempio che quello che gli diciamo è qualcosa in cui noi stessi crediamo.

Io sto insegnando alle mie bimbe qualcosa che io stesso solo ora cerco di insegnare a me stesso. La faccenda del mettere in ordine le proprie cose per affetto verso di esse. Non mi convince fino in fondo nemmeno a me. Non dopo che ho provato a dirlo a mia figlia. E non ho avuto un gran successo. Però una cosa giusta l’ho fatta. Ho iniziato a provare a smettere. Cosa? A costringere le mie bimbe a ubbidire solo per assecondarmi, nel timore della mia rabbia o del mio calo di affetto o di una punizione.

Si tratta di usare la vecchia tattica del senso di colpa. E io vorrei cambiare le cose. Voglio che facciano qualcosa perché lo desiderano. A rischio che non desiderino in alcun modo di mettere le proprie cose al loro posto dopo averle usate e che crescano nel caos e nello sporco. Ci vuole coraggio per fare una cosa del genere perché saranno giudicate e con loro anche io e mia moglie lo saremo. Ma i giudizi sono un’altra tattica del cazzo per farci fare cose che non desideriamo fare e pure lì bisogna lavorarci. Questo per me significa un piccolo passo nella giusta direzione verso il sentiero della mano sinistra. Il fai ciò che vuoi eccetera. Resta connesso con i tuoi desideri. Fai quello che senti di voler fare. Il senso di colpa ricaccialo nel culo alla tua adorata mamma. Quanti giorni ho passato a odiarmi, restando comunque immobile, perché non mettevo a posto le mie cose. C’è gente che lo fa perché si vuol bene ma altra gente lo fa perché una voce a metà tra la loro mamma e una suora antica li ricopre di insulti e di motivi della loro condanna al fallimento se non dedicano almeno 15 o 20 ore settimanali a mettere a posto e pulire casa. Questo è assurdo, non vi pare?

Suggerire alle mie figlie la faccenda animistica degli oggetti, in fondo però è inutile. Un bimbo è animista di suo. Te la insegna lui, quella roba lì. Magari Matilde sta cambiando, ha otto anni e comincia a perdersi per strada i miti con la regolarità inesorabile dei suoi dentini da latte: Babbo Natale mi sa che l’ha cannato da un po’, la fatina del dentino così così. L’omino del sonno dura ancora, ma non so per quanto. La piccola Cecilia, quattro anni, è ancora convinta che il letto, il carrello della spesa, i pupazzi, siano vivi e con una precisa loro personalità. Magari avrei dovuto parlare con lei.

Ah, non lo so.