C’è un libro che ho riletto da poco. Si intitola Debellare il senso di colpa Sottotitolo: Contro l’ansia, contro la sofferenza psichica. Notate che non c’è scritto “Come debellare”, nel titolo, ma solo “debellare”. Il ché può dare l’illusione che questo libro non faccia proclami su come cambiarci la vita in modo decisivo, liberandoci dalle catene della colpevolizzazione interiore. E vi assicuro che non è così. Questo libro è ormai uscito da tanti anni e il mondo è un disastro di suicidi e depressioni peggio che mai, sebbene, non ne sono sicuro ma di scommetto, a suo tempo deve essere stato un best-seller.
Però se si gira il libro, sul retro (accanto al faccione occhialuto da nonno in carriera dell’autore, lo psicologo Lucio Della Seta) c’è scritto questo: “L’angoscia, gli attacchi di panico, le crisi depressive sono sofferenze che possono essere combattute e attenuate. Questo libro vi insegna come”. Ah, allora eccolo quel “COME” di cui avevamo bisogno.
Siamo pronti a leggere qualsiasi cosa che ci dica “COME”.
Come sbucciare le cipolle.
Come fare la birra in casa.
Come farla impazzire a letto.
Come debellare il senso di colpa.
Ho letto la prima volta il libro di Della Seta che ero ancora scapolo, single, appena uscito da un pantano psichico di due anni. Ora ricordo l’estate del 2007 come uno dei periodi più lieti ed entusiasmanti della mia vita ma rileggendo certi appuntini lasciati proprio tra le pagine di questo volume, trovo facili conferme che così non era. Facevo schemini piuttosto ridicoli e inutili su quanto fossi angosciato, su come mi sentissi umiliato, vulnerabile, terrorizzato. Allora come oggi. Ero privo delle conferme sul mio futuro che oggi potrei dare a quel vecchio me stesso e sentivo di non avere scampo in alcun ambito, sia lavorativo che sentimentale.
Sul primo, il lavoro, ci avevo preso. Per i sentimenti invece mi ha detto bene. Tanto. Forse troppo, pensa qualcuno. Eppure avere una donna che mi ama e due bellissime e sanissime figlie, non mi salvano da me stesso.
Rileggendo il libro Debellare il senso di colpa edito da Marsilio, nell’edizione del 2006, riscopro le numerose pagine che parlando del rapporto genitori-figli e gli errori che i primi commettono nell’imprimere il meccanismo a tagliola del senso di colpa nei propri pargoli. Inutile dire che io e mia moglie, stando alle osservazioni di Della Seta, abbiamo fatto già il nostro bel macello.
So due o tre cose sul senso di colpa.
Uno: è la base del sistema educativo occidentale. È come il filo invisibile che lega i collari dei cani ai telecomandini con il pulsante che fa partire la scossa elettrica. Non sto paragonando il SDC a una scarica, è più una cottura a fuoco lento, almeno per me. Di sicuro però è quella cosa che nonostante l’amore che proviamo per noi stessi e i bisogni che sentiamo di dover soddisfare, finisce che restiamo attaccati alle gonne luride e ricattatorie della nostra mamma oppressiva. È quella cosa che ci spinge a dire di sì a un capo che sentiamo ingiusto e sfruttatore e a tenerci buono per una vita intera un amico che chiaramente ci sfrutta e non ci vuole bene.
Il senso di colpa è il dolore che provavamo quando da piccoli non ubbidivamo ai nostri genitori. È il senso di inadeguatezza e di sbaglio che impalca ogni nostra decisione. Non dico che questo sia ingiusto o inutile. Papà e mamma ci fanno sentire sbagliati quando attraversiamo la strada di corsa, rischiando di farci ammazzare, quando rubiamo i giocattoli a un amico, quando picchiamo un compagno di classe handicappato. Purtroppo quel sistema che loro ci hanno infilato nel cranio e nel cuore, è distorto dalle loro paure di non riuscire a salvarci, dal sospetto che siamo dei mostri immondi, dall’ignoranza con cui maneggiano l’arma terribile dei sentimenti e del nostro bisogno di conferme.
Della Seta dice che le punizioni, per esempio, sono utili. Purché gestite in un certo modo. Bisogna punire in modo tempestivo e spiegare al bambino che non è lui sbagliato ma solo il suo comportamento in quel determinato contesto. Il bimbo deve capire che lo si punisce per ricordare lo sbaglio e non commetterlo più. A dirlo è facile. La pratica è così piena di variabili che le punizioni diventano quasi sempre traumi dannosi e necessari a far sentire i nostri figli, una volta adulti, pezzi di merda indegni d’amore e incapaci di vivere con le proprie forze.
Ho una figlia che si mortifica appena la guardo male. Ne ho un’altra che mi ride in faccia quando passo alle minacce. Punirle a volte è l’ultima risorsa prima della disperazione, ma ci arriv talmente logorato e preoccupato di non riuscire comunicare tutte le belle cose che dice Della Seta che il momento in cui mi scaglio su Matilde per riprenderla, la sommergo di rabbia e di allucinante pessimismo verso ciò che diventerà se continua a disubbidire.
Della Seta espone numerosi esempi su come noi facciamo sentire di merda i nostri figli e su come i nostri genitori hanno fatto sentire di merda noi. Eccone tre:
1 – Abbiamo ospiti e uno guarda la nostra bambina che si comporta bene. Lei sta facendo come vogliamo noi, come le abbiamo detto di fare, minacciandola di mandarla a dormire senza cena se non sta buona, non siede composta e non tace appena le si chiede di tacere. L’amico ospite dice: ma che brava questa bimba, è così silenziosa, sembra un angioletto! E noi: sapessi che diavolo, invece! E nostra figlia ci guarda e non capisce. Prima le chiediamo di comportarsi bene, di far credere all’ospite che lei è buona, anche se secondo noi non lo è. Poi la sbugiardiamo dicendo all’ospite che in effetti è un diavolo.
Sembra una cazzata ma abbiamo tradito nostra figlia e questa cosa la manda nella cacca.
2 – Altro esempio: diciamo ai nostri figli che è ora di andare a letto. Loro rifiutano di ubbidire, vogliono guardare ancora un po’ di TV. Noi siamo stanchi, vogliamo tempo per stare da soli, goderci un film e magari fare l’amore. Ribadiamo che è ora di andare a dormire. Perché, ci chiedono i nostri figli… Perché i bravi bambini vanno a letto a quest’ora, rispondiamo noi. Quindi se io non ho sonno, pensa il bimbo, non sono bravo… Magari per convincere il piccolo frignante gli diciamo che se non la finisce arriva l’uomo nero e se lo porta via. Immaginate di non riuscire a prender sonno e vi informino che se non vi addormentate subito Ted Bundy verrà a stuprare tutta la vostra famiglia… direi che è perfetto come sistema per favorire un rilassamento che non arriva!
Cazzate. Il tempo in cui i nostri figli dormono serve a noi, non a loro. I nostri figli potrebbero stare ancora un po’ in piedi. Una mezzora non gli guasterebbe la salute il giorno dopo. Se invece di dodici ore ne dormissero 11 non gli succederebbe nulla di male al cuore o al cervello o al sistema digestivo. Tanto più che per metterli a letto, tra lagne e bizze varie, passa davvero un’altra ora. Ora trascorsa a minacciare, a lamentarci delusi, a infuriarci perché vogliamo che si tolgano dai coglioni quanto prima. Non lo diciamo a parole ma il tono e lo sguardo esprimono proprio questo: levati dalle palle, piccolo scassacazzi, voglio fottere tua madre e non mi va di arrivare all’una per farlo. Domattina mi sveglio presto!”
I nostri figli avvertono che qualcosa non torna e però, pur di non deluderci, vanno a letto e si arrendono. Restano svegli a fissare il buio, magari piangono e poi si addormentano. Piangere e addormentarsi è una delle pratiche più frequenti di mia figlia Matilde. A volte io e Mara abbiamo l’impressione che lei cerchi proprio le lacrime come coadiuvante al sonno. Quanti pianti ha fatto i primi anni quando non riuscivamo a farla addormentare. Anche io a volte, se dormo solo, mi ritrovo a piangere nel buio e poi mi addormento, ancora oggi come all’età della mia bimba.
3 – Ancora un esempio: quante volte diciamo a nostro figlio: dopo!
Papà vieni a giocare?
Dopo!
Papà ho sete!
Dopo!
Papà ascolta
“Non ora. Dopo!
E poi quel dopo non arriva mai.
Potrei continuare. Cosa dovrebbe imparare il bambino dai nostri “dopo” se non che per loro il tempo non arriva mai? Perché non sono abbastanza interessanti per mamma e papà. Io ho trascorso i miei primi dieci anni ad attendere che mio padre trovasse il tempo e le energie per giocare con me. Alla fine mi arresi. Era sempre stanco o indaffarato. Papà, disegniamo insieme?
Ho sonno. Ora dormo un po’ che ho fatto la notte. Quando mi sveglio…
E quando si svegliava usciva per governare i cani da caccia, per delle medicazioni a domicilio, per andare con una sua amante o qualsiasi cazzo facesse.
Della Seta passa mezzo libro a spiegare ai genitori cosa dovrebbero fare per fare in modo che la vita dei propri figli sia migliore della loro ma è tutta una cosa inutile. Il cervello dimentica di aver letto queste cose e se nasce un figlio iniziamo a massacrarlo di errori da subito o quasi. Sembra che non esistano manuali, guide, decaloghi su come salvare i nostri figli da noi e da se stessi, ma ce ne sono centinaia sul mercato di testi così. Solo che non sappiamo cosa farcene. È troppo forte il meccanismo di reimprinting che il nostro senso di colpa ci spinge a trasferire dal nostro, paro paro, al cuore dei nostri bambini.
Della Seta crede che spiegandoci bene i meccanismi psicologici alla base delle crisi di nervi, degli attacchi di panico e dell’ansia, possiamo imparare a gestirli meglio. Il senso di soffocamento, la tachicardia, la sudorazione, la diarrea, possono prenderci quando ci puntano un’arma addosso per strada o quando sorprendiamo nostra moglie a letto con un altro uomo. Indipendentemente dal pericolo effettivo o meno. Il sistema nervoso ci difende alla stessa maniera. Stai per fare un incidente in auto, sei licenziato, hai perso il portafogli o tuo figlio? L’organismo recepisce la notizia come uno shock e un segnale di grande pericolo a cui risponde preparandoci in pochissimo tempo a compiere due azioni. Sempre le stesse due, qualsiasi cosa ci abbia portato a star male: scappare o attaccare.
Se c’è un rapinatore con la pistola e dobbiamo correre, i sintomi del fiato corto, la sudorazione accelerata, la diarrea per svuotare le viscere e renderci più leggeri per la fuga, sono necessari a renderci più scattanti e pronti a squagliarcela. Se non riusciamo a muoverci per il panico, in realtà è la vecchia tattica animale del fingersi morti. Purtroppo la nostra mente non è chiara con noi. Ci prepara senza spiegare nulla. E noi subiamo questi sintomi con spavento e profondo malessere, da aggiungersi allo spavento e al malessere dovuto alla situazione esterna.
Quando ho abbracciato per la prima volta mia moglie ho avuto una specie di attacco di panico. Mi sono sentito ribollire, poi congelare, il fiato mi si è tirato via, come se qualcuno avesse stretto una corda attorno al collo sollevandomi come una pignatta. Il cuore ha iniziato a battere forte, tipo i colpi furenti di qualche bambino cieco, sul coccio della pignatta che ero diventato. In realtà, Della Seta spiega, l’agitazione dei sentimenti che provavo per mia moglie comunicava al mio sistema nervoso un tumulto dovuto a un abbraccio innocuo ma che esso aveva preso per una minaccia e così mi ritrovavo a reagire come davanti a un orso affamato. Per non scappare subito da lei e dare libero sfogo all’enorme riserva di energie che il mio corpo sprigionava per condurmi lontano dall’orso/Mara, dovetti fare una manovra costrittiva che mi stroncò. Tornai a casa sudato emotivamente sperso e su gambe mollissime. Ero innamorato ma mi sentivo molto triste per via della reazione fisica avuta… era come se ci fosse un cratere nero intorno al mio cuore. La reazione era stata normale, naturale, ma io mi sentivo inadeguato. Pensavo, se con un abbraccio quasi le vomito sulle scarpe, che faccio se provo a baciarla?
Se noi scappassimo ogni volta che sentiamo paura, disagio, imbarazzo, probabilmente gioverebbe ai nostri nervi ma la vita sociale sarebbe una specie di allucinazione fantozziana. Tutti corrono di continuo, ovunque. Di sicuro ci sarebbe meno obesità in giro, però la vedo come una roba poco pratica. Bisogna resistere agli impulsi atletici dell’antilope e restare giaguari. Fermi, consapevoli, duri, decisi! Resistere a questi meccanismi difensivi ha tuttavia effetti disastrosi sulla nostra autostima. La società ci insegna che dovremmo dominarci e quindi rispondere con fermezza ai rozzi cortocircuiti salvifici del nostro sistema nervoso, e possibilmente anche arrivare a ignorarli e negarli. Con il risultato che per molti di noi la vita è un inferno in terra. Nel senso negativo.
Da satanista credo che liberarci dal senso di colpa sarebbe la cosa più bella di questo mondo. Che, anzi, sarebbe auspicabile. Se non ci sentissimo in colpa, probabilmente prenderemmo dalla vita ciò che desideriamo e ne saremmo felici.
Invece è tutto un altro paio di maniche…
Io pubblicai il mio primo libro nel 2008 ma non ne fui molto contento. Avvertii una gran gelosia in alcune persone e indifferenza totale in altre, ma badate, io non soffrivo per il secondo gruppo che ignorava il coronamento dei miei sforzi decennali, io mi affliggevo per il primo. L’acidità e le critiche spietate che raccolsi da queste persone mi prostrò, impedendomi di essere felice per la mia chiara autorealizzazione. Ecco cosa ci fa il senso di colpa. Mi sentivo talmente indegno di pubblicare un libro e avere successo, che diedi potere alle critiche e finii per vivere la più bella esperienza della mia esistenza come un reato vergognoso compiuto in pubblico, impunemente (ma non per lo sguardo solerte e moralizzante di alcuni rosiconi di merda!).
Ma si può davvero eliminare o “debellare”, come dice Della Seta, il senso di colpa? Penso di no e nemmeno lui è così convinto che i suoi “insegnamenti” permettano di riuscirci. Possiamo affrontarlo in maniera diversa, combatterlo, ma non uscirne vincitori. Quindi mi chiedo se abbia senso contrastarlo…
Del resto, a un certo punto Della Seta ci dice pure perché sarebbe un disastro, secondo lui, se potessimo vivere senza il SDC. A pagina 109, a proposito del problema dell’aggressività nel senso di colpa scrive: “L’aggressività contenuta nel senso di colpa non va confusa, però, con la violenza e la crudeltà degli psicopatici. Costoro sono individui che, probabilmente per motivi organici legati al sistema nervoso, sono praticamente immuni dai sensi di colpa. A differenza dei grossi portatori di sensi di colpa, sono molto vicini alla natura e alla sua indifferenza per il dolore”
Essere immuni al senso di colpa significa essere vicini alla natura e alla sua indifferenza per il dolore?
Allora vuol dire che il senso di colpa ci aiuta a capire cosa?
Il dolore degli altri? Ma il sentimento della pietà è già questo, no? L’empatia si può avere anche senza morire di SDC. Oppure no?
Se prendo ciò che voglio senza sentirmi in colpa, significa che sono indifferente al dolore di coloro che il mio soddisfacimento rende in qualche modo tristi e addolorati. Di conseguenza, sembra concludere Della Seta, il senso di colpa ci lascia vermi piagnucolanti sulla terra e finché ci sentiamo così, almeno a lui nessuno entra in casa e gli leva le cose buone che possiede?
Un cavallo non capisce…
Non sto dicendo che i suoi non siano consigli giusti e validi. Dico solo che a leggere questo libro il cammino per la felicità e la libertà interiori sembrano a portata di mano e invece poi è come qualsiasi manuale di psicologia. Si tratta di fuffa.
Tutte le regolette all’americana, le illuminazioni, le direttive, finiscono per trasformarsi in una intricatissima coreografia che possiamo anche imparare nei minimi dettagli, purtroppo poi dobbiamo eseguirla senza pecche in equilibrio sulla prua di una barca su un mare in tempesta. Cercando di non bagnarci troppo e di salvare l’intero equipaggio.
Il senso di colpa non è solo una cosa da cui dovremmo liberare noi stessi ma anche gli altri. A guardare come vanno le cose, pare di essere tutti parte di un enorme lumacone di infelicità; alla Centipede Horror. Il mondo ci riempie di merda, attraverso chi ci ama di più e noi riempiamo di merda altra gente che amiamo tantissimo. Pensate all’ultima volta in cui vi siete fatti rispettare da qualcuno che vi ha offeso? Non avete usato le stesse tecniche applicate da vostro padre quando lo mancavate di rispetto? Vi faceva sentire sbagliati e pentiti e con molta probabilità anche voi avete fatto sentire così chi vi ha spinti a sentirvi uno schifo, ma rinuncereste a mettere le catene agli altri per liberarvi delle vostre?