From The Inside Of Alice Cooper

Ultimamente sento solo dischi concepiti da folli o da artisti che in quel momento, causa dipendenze, non ci stanno con la testa. Ecco quindi Alice Cooper e il suo From The Inside lavoro che rientra pure in un’altra categoria che adoro: gli album della risalita, ovvero quelli in cui le band, o i solisti che siano, prendono coscienza del problema, lo affrontano e poi ci fanno un disco che li aiuta a venirne fuori. Al fondo della sofferenza e della depressione c’è un capolavoro. Questa è la storia a lieto fine di cui avrei bisogno, perché un cavallo in questi giorni, anche se dovrei ormai dire mesi, non riesce proprio a galoppare come un tempo.

Ma dicevamo di Alice Cooper.
Intanto è palese che sin dall’inizio della sua carriera solista, a partire quindi da Welcome To My Nightmare, lui abbia tentato di confessarsi sotto metafora. Prima è un serial killer preso dai fantasmi di un figlio morto e di una puttana in ghiacciaia (che però non a caso si chiama Ethyl e non Ethel). Poi in Alice Cooper Goes To Hell sconta il moralismo generale scendendo all’Inferno, dove per la prima volta dichiara esplicitamente di avere un problema col bere (I Never Cry) ma che se prendiamo soprattutto i pezzi in cui parla del diavolo e col diavolo e quelli del ritorno alla vita (Give The Kid A Break, Didn’t We Meet, Wake Me Gently e Going Home) sembra che stia narrando i momenti salienti della sua dipendenza da alcol e la risoluzione, il ritorno a casa, alla vita, che però è visto come un sogno di un morto, più che altro. Infine, visto che la musica non lo salva da se stesso attraverso una catarsi creativa (Lace And Whiskey è piuttosto mediocre e dimesso – quando il grido d’aiuto diventa un biascico gorgogliante indecifrabile) alla fine si fa ricoverare e dall’ospedale psichiatrico, insieme al paroliere di Elthon John Bernie Taupin che gli è molto amico e lo va spesso a trovare, decide di raccontare senza filtri la propria storia e già che c’è anche quella di altri coinquilini conosciuti sul posto. Ogni degente è una storia. Ogni storia una canzone!

La vicenda personale di Alice fa da ossatura strutturale a una Spoon River della pazzia mentale. Il brano From The Inside apre il disco; The Quiet Room ne è il centro; How You Gonna See Me Now la coda (per quanto io abbia sospetti di biografismo anche su Serious). I tre pezzi citati però rappresentano le fasi salienti della rinascita di Alice Cooper: ricovero, degenza, dimissione e ritorno tra speranza e dubbi tra le braccia della moglie. In mezzo sfilano altri poveri diavoli come lui, condannati a un inferno ben più concreto di quello cristiano sbeffeggiato in Goes To Hell: ecco un predicatore maniaco in fissa con l’infermiera bona (Nurse Rozetta); gli amanti diabolici e crepuscolari (Millie And Billie); la ragazza di buona famiglia che sclera (Wish I Were Born In Beverly Hills); il reduce del Vietnam incapace di tornare alla vita di tutti i giorni (Jackknife Johnny) e così via fino alla chiusa corale, in stile off- Broadway di Immate (We’re Go Crazy).

Alice Cooper definisce From The Inside come uno dei suoi album più riusciti e in questo sono d’accordo. Di sicuro tra il gran lavoro in fase di testi e gli arrangiamenti che guardano all’AOR di Toto (Steve Lukather è coinvolto nella scrittura di Nurse Rozetta e si sente) Journey e un po’ tutto il rock FM di quegli anni, a posteriori risulta la cosa migliore dai tempi di Welcome To My Nightmare fino a Trash. Ed è uno spartiacque decisivo, tanto che From The Inside rinnega in buona parte gli eccessi Grand-guignol e glamad di Billion Dollar Baby, la visionarietà cruenta e sordida di Welcome To My Nightmare per una prospettiva più razionale e matura, forse persino un po’ snobbina nei confronti degli eccessi passati, e che contraddice col senno di poi, anche il ritorno all’heavy horror di Constrictor e tutti i vicoli ciechi dei dischi tra il 1979 e il 1983.

Da un po’ di tempo tutta questa stagione oscura di Alice Cooper va di moda rivalutarla. E a ragione. Ci si addentra senza aspettarsi niente, magari anche con un filo di inquietudine e si finisce per trovare tesori notevoli. Partendo da Goes To Hell fino a DaDa, lui ammette di ricordare poco, soprattutto di ciò che avvenne dopo From The Inside, album che avrebbe dovuto segnare una nuova vita ma che è solo una falsa ripartenza perché Alice smette con gli alcolici ma inizia a farsi di coca e più tardi finisce per abusare di entrambi fin quasi a morirne nel 1983.

Alice non ricorda nulla di Special Forces, Zipper Catches Skins e DaDa e in effetti a un primo ascolto, specie se confrontati con le sue cose migliori e valutando il contesto artistico rinnovato e le tendenze nuove che lui tenta a fatica di seguire (punk, New Wave, Post-punk) sembrerebbe che da ricordare ci sia davvero poco. E invece da un punto di vista psicologico sono lavori che oltre a scandire un’epopea di perdizione neurologica molto curiosa e avvincente (per i cavalli di Sdangher), forse rappresentano i momenti creativi in cui la strega Alice, smagrita all’inverosimile, con i capelli alla Joan Crowford e l’incedere dimesso, tumorale, mette davvero paura.
DaDa poi è un capitolo tutto particolare, l’apice del buio. Ne riparlerò in futuro se non mi suicido prima.