Il nuovo disco degli Slayer non è un capolavoro ma se vi dicono che fa schifo non credeteci. In apparenza può anche risultare scarso, piatto, stentato, concepito da una mente monotona e fissa su certi concetti ormai esplorati fino all’osso. Ed è vero, non ci sono grandi canzoni, tra dieci anni probabilmente, ammesso che il gruppo ancora riuscirà a portare il repertorio storico on stage, non verrà riproposta nessuna di esse in scaletta. Però c’è un ma e anche bello grosso. Perché sì, questo disco è una specie di “primitivizzazione” del discorso stilistico della band, una semplificazione strutturale magari al limite della pacchianeria ma (sorpresa!), a patto di sospendere i tetri pensieri sulla morte di Hanneman e il declino del metallo tutto, Repentless offre una coesione, una potenza e una cruenza che gli Slayer non ci davano da Hell Awaits.
Vices, Pride In Prejudice, You Against You non dicono molto, sembrano la manowarizzazione del discorso Slayer se analizzate con freddezza, ma mostrano tutte alla pari una grassezza brutale che il gruppo non ottenne nemmeno in dischi dove la voglia di groove risultatava palese (Diabolus, God Hate Us All). Neanche a farlo apposta è al secondo album che Repentless riporta la mente (al pre-Rubin touch, guarda un po’) proprio ora che le cose con la Def sono chiuse. E se fino a World Painted Blood (forse il più sottovalutato lavoro degli Slayer) c’erano sempre momenti di sfida, in cui il gruppo provava qualcosa di alternativo e audace, qui non ci sono pretese e ambizioni (niente Jihad o Stain Of Mind, per dire) ma la loro mancanza favorisce ancor di più il risultato complessivo. Sembrano gli Slayer spiegati ai bambini.
I bambini siamo noi vecchi, veterani dimentichi di cosa volesse dire spararsi l’oscuro mugghiare dei primi anni, quando il gruppo sembrava sul serio collegato a qualche mefitico cesso di Satanasso. Siamo quei bambini a cui è necessario riproporre la formula base di una poetica dell’estremo divenuta sempre più sfilacciata e irrequieta. Non sarebbe necessario ricordare il tormentoso cammino che il gruppo ha dovuto affrontare da Divine Intervention fino alla reunion con Lombardo. Per quindici anni Araya, Hanneman e King hanno riadattato il proprio suono alle moderne tendenze (death, black, nu, core) contaminandolo in modo svogliato e poco brillante. Lo stile Slayer però è puro e non può fondersi con nulla, se non centellinando. Oggi il rischio è da escludere. King ha il timone e non lascerà avvicinare nessuno. La rotta gli è chiara da troppo tempo. Repentless non fa concessioni al mondo fuori, è ripiegato su se stesso. Pesta giù senza guardare avanti e alla fine convince così. Non mostra un futuro, non lascia speranze.
Gli Slayer potrebbero essere morti o crepare domani. È il modo che la band ha per mostrare come stia metabolizzando la scomparsa di Hanneman, è la loro coerenza. Si guarda all’ora. Se vi piace bene, altrimenti quella è la porta… dell’inferno. Araya urla come un bastardo, la batteria di Bolstaph gonfia i pezzi fino a farli sembrare degli Zeppelin pronti al collasso. Holt fa i suoi soli e si beve una birra. Kerry annuisce soddisfatto come un ottuso bifolco davanti al suo fottuto, ennesimo raccolto insanguinato.