.

Akercocke – Strange to be strangers once more…

Se tutti i ritorni fossero come questo degli Akercocke sarei un metallaro molto felice. Il loro album non è un capolavoro, la band risente dello stop di anni, dei nuovi cambi di line-up e del tanto tempo passato tra la scrittura di una parte del materiale (la maggiore) e l’altra (solo un paio di brani sono stati scritti appositamente dopo la reunion). Inoltre la loro voglia di sperimentare e non ripetere la solfa ripigliando un po’ di Choronzon, un pizzico di The Goat Of Mendes, due gocce del quarto Words That Go Unspoken e buttarla in caciara revivalista, li conduce in territori impervi su cui è facile scivolare, farsi male.

Per dire, non tutte le escursioni pulite di Mendonça mi convincono. Conferma la grande versatilità ma a momenti pare di sentire un thrasher alcolizzato che bercia a un concerto dei Tankard; mentre in altri episodi puliti il suo tono diventa così melenso da strapparmi un ghigno.

Chi non ha sentito i dischi vecchi si può chiedere se davvero sia un cantante all’altezza. Però lo è, credetemi. Solo che è un pazzo, e se la rischia. Sempre. A sentirlo cantare ti vedi un maiale che vomita sangue e improperi minacciosi e poi chiudi gli occhi e la sua voce si trasforma in una debole fiamma che ondeggia in uno scantinato buio, mossa da chissà quali spifferi nell’oscurità.

Rispetto agli altri cinque album, Renaissance In Extremis è un disco quasi… thrash!

Esatto. Ce n’è un bel po’ e va tenuto conto che in passato l’influenza bay area negli Akercocke si sentiva giusto su qualche stacco o magari un assolo armonizzato. Qui invece fa capolino in ogni brano e di solito è una merda ma poco importa. Premiamo l’audacia.

Inoltre c’è più progressività. E non è scontato che ce ne sia. Thrash-prog metal. A dire il vero gli Akercocke hanno sempre affrontato con una certa spavalderia composizioni lunghe ma preferendo la violenza e l’ostilità a un bel ritornello corposo o un assolo alla Fripp.

Su Renaissance è un approccio generale ma molto personale. Mica poco. Essere estremi e prog e non sembrare un’ulcera sul dito indice di Åkerfeldt pensavo fosse praticamente impossibile e invece ecco qua.

Renaissence In Estremis eccelle in una cosa rispetto al resto della discografia passata: è un disco in cui gli Akercocke non si limitano a mettere in fila una eterogeneità di stili e sottogeneri senza il più delle volte cavarne granché, a parte una lucida ammirazione del pubblico in fissa con il crossover.

Qui loro scrivono canzoni e tirano in gioco i sentimenti. Non parlano per metafore sataniche come ai bei tempi. Hanno assaggiato che significa vivere da satanisti e si sono resi conto che non è una passeggiata. Non è tutta una roba di sangue, capre, sesso e calici di vino rosso. C’è la solitudine siderale, la paranoia, la paura, il desiderio che divora, l’incertezza sociale, la malia dei nervi. Insomma, è tosta.

E gli Akercocke sembrano raccontarlo in pezzi come la bellissima Inner Sanctum (allestisci un posticino simpatico e carino nella tua mente dove scappare quando là fuori si mette male) o A Particolarly Cold September  in cui il quintetto britannico leva quasi del tutto di dosso l’armatura brutallara e si mostra fragile e innocuo come un qualsiasi gruppo depressive rock inglese. E sotto un arpeggio schizzoide e una melodia lugubre Mendonça canta:

Strange to be strangers once more
Palpable distance between us all

Insomma, proprio roba da froci con la vita nel culo, altro che satanassi impenitenti lordi di sangue e sperma. Per capire quanto sono cambiate le cose notate una cosa: NOTATE l’uso degli strumenti a fiato. Nei dischi della band ci sono sempre state queste incursioni molto efficaci di clarini, trombette, flauti strani, e sempre con un’aria solenne, minacciosa, rituale. Qui invece sentiamo solo un mesto assolo di tromba nell’ultima traccia. Una roba tranquilla, quasi pop, ma dannatamente toccante. Penso a cieli carichi di pioggia, a salotti dimessi, volti scavati, occhi stanchi, dolore, tanto dolore. E un settembre particolarmente freddo in cui è davvero strano essere ancora una volta dei forestieri sulla terra.