Gli Holy Grail sono californiani e fanno metallone classico, più precisamente sono una via di mezzo tra il power dei Leatherwolf e il class dei Dokken. Almeno nella maggior parte dei brani suonano così ma aspettatevi tanto di più: riff alla Dark Tranquillity o momenti teutonici tra Scorpions ed Helloween, per dire. Sono nati da una costola dei White Wizzard, anche se poi si sono portati via quasi tutto lo scheletro. Il loro terzo disco, Times Of Pride And Peril, conferma che la band cresce, migliora, mette a fuoco e concretizza una soluzione metallica che oltre le apparenze di borchie e toppe si rivela personale e che vi esorterei a seguire. Non si tratta dell’ennesimo gruppo nostalgico in fissa con la NWOBHM ma di un’entità artistica capace di fondere in un perfetto equilibrio passato, presente e futuro del metal, condendo in una matrice tradizionale tutto quello che ne è venuto fuori in quattro decadi.
Mentre il precedente Ride The Void mostrava talvolta una certa indecisione, alternando brani dal riffing moderno ad altri troppo spudoratamente vicini agli anni 80, in questo terzo lavoro sembra che la formula degli Holy Grail sia stata dosata alla grande. Al di là della chimica stilistica e della perfezione esecutiva però tenete presente che questo gruppo è soprattutto gestito da grandi compositori: i pezzi hanno tutti un ritornello efficace, coinvolgente, gasante, in grado di trasmettere coraggio guerresco e romanticismo scemo come non ne sentivo dal 1991, senza scomodare Wagner o i Manowar, senza mai esagerare con la retorica epica e un po’ tronfia del metallo da battaglia delle power band anni 90, persino in un pezzo come Pro Patria Mori, che spinge in alto i cuori e soffia sulle bandiere il vento gelido del massacro in gloriosa prece, persino lì non potete dire che gli Holy Grail stiano facendo ammiccamenti o pose gratuite.
Colpisce poi la levigatura delle creazioni, anche se a dirla così mi sento un piazzista di sculture d’appartamento, le strutture essenziali, asciugate, con riff precisi, le ripetizioni contenute, gli armonizzati pensati in ogni singola nota o fraseggio mai scontato, i finali punteggiati, talvolta quasi a livelli di mozzatura, per nove brani su dieci che non superano mai i quattro minuti e mezzo. È un po’ la stessa scuola degli Slayer di Reign In Blood, quando sceglievano giri dispari e mai pari, lasciando l’orecchio mnemonico dell’ascoltatore sempre in ritardo e colpendolo duro con la guardia abbassata.
E al decimo brano, Black Lotus, la band si concede una tirata di oltre nove minuti ma centellinando pure lì le idee, i motivi, con la stessa consapevolezza di non ridondare gli zebbi, perché c’è sempre il rischio di un giro di troppo, un’idea di troppo, mentre questo gruppo non si frega: i passaggi, i controcanti, le variazioni mostrano un controllo sulla scrittura monastico, austero e poi, quando si è sicuri di aver inquadrato comunque il range della band ecco che arriva un finale in cui gli Holy Grail si permettono di svestire completamente i panni dei defenders per trasformarsi in una band death metal di inizio anni 90, senza smettere di essere convincenti.
Un disco ganzissimo, in cui ogni brano implora di essere cantato, ogni arpeggio, assolo o stacco è stato cagato col cuore. Da tanto tempo non mi capitava di sentire una roba simile. E non vi ho detto nemmeno di Crystal King o Apotheosis, autentiche trappole accalappiapalle per qualsiasi amante della metallurgia vispa, per nulla stesa a guardarsi addosso ma propensa a scatenare adrenalina e nutrire fieri sentimenti di appartenenza e di speranze future.