Obscura – Il nuovo che indietreggia

Gli Obscura sono una band devota al progressivo estremo; lo amano e lo onorano. A renderli particolari, direi anche eccellenti, in una categoria di giocolieri, funamboli dello strumento, c’è un’irrequietezza di fondo che spinge creativamente il loro leader dall’aria poco avvezza al sorriso, Kummerer, in territori sdrucciolevoli e umidi. Non è poca cosa di questi tempi. Lui è un po’ il posseduto dal fantasma di Chuck Schuldiner. Leader che fa e disfa la band e la guida dove neanche lui sa. E l’omaggio ai Death è fin troppo scontato.

Anche a livello di tematiche, oltre che di ricerca sonora, sembra che gli Obscura ne abbiano raccolto il testimone. Rispetto al compianto genietto floridiano però loro concedono ammiccate anche ai Cynic, i Pestilence, gli Atheist e tutte quelle band coeve ai Death con le quali Chuck finì in polemica e di cui negò qualsiasi influenza diretta.

Gli Obscura invece raccolgono un sunto cremoso di tutti i più suggestivi spunti che questi pionieri del metallo tecnico proposero e lo conducono alle estreme, personali conseguenze.

Il disco Akróasis a un primo ascolto difficilmente piacerà al deathster di vecchia data, avvezzi al suono Burnesiano o svedesotto. Ha un sound piattone e digitalizzato, freddo e iperzeppo di cose: idee, suggestioni, riff e cambi, da rendere impossibile a una mente poco allenata al criptodjentmetal l’assorbimento immediato.

Occorre quindi pazienza, mettersi seduti e tender l’orecchio, come di fronte a una sinfonia ermetica. Io vi confesso che ho persino preso carta e penna e tracciato su dei fogli lo schema sommario delle canzoni, contando almeno quattro riff diversi a brano, il doppio delle melodie e una combinazione di movimenti o parti mai inferiore a sei per una durata media di cinque minuti e mezzo a brano.

Di solito come struttura gli Obscura in questo disco tendono a contenere nella prima sezione del pezzo il loro background thrash/death/black e nella seconda lasciano gioco a cose più neoclassiche, operistiche e sperimentali.

Rispetto ai Death e tutta la comitiva estrema del tempo dispari, il gruppo tedesco aggiunge influenze norvegesi e nega in modo puntiglioso qualsiasi ammiccante grooverama in mi basso da destinare al pubblico più primitivo e poseristico.

Soprattutto, nonostante l’apparente ostilità alla faciloneria del metal più commerciale vi assicuro che dopo insistiti ripassi, dal disco degli Obscura vi si schiuderà un mondo di accattivante melodia teutonica. Passate un certo numero di volte all’orecchio Ode To The Sun o The Monist e io profetizzo che un giorno qualcuno vi sorprenderà a canticchiarne i ritornelli. Perché non dubitate: ci sono anche quelli.

Le tematiche spirituali affrontate nei testi conducono sempre a Chuck ma se vogliamo a una versione bianca di Trey Azagtoth e Dave Vincent, che Kummerer imita spesso quando imposta la voce su toni più bassi e non nel pur frequente screaming di stampo nordico.

Unico dubbio al fondo di questo ottimo album è generazionale. Chuck Schuldiner iniziò suonando delle pentatoniche da due soldi su riff beceri rubacchiati ai Venom e finì per creare fraseggi personalissimi e composizioni di raffinato autodidattismo prog. Gruppi così cominciano da quel tasso tecnico altissimo le loro prime mosse, da quella complessità che il leader dei Death raggiunse per gradi, maturando, imparando negli anni sulla musica e la vita. Gli Obscura sono ancora pischelli e di vita sanno poco mentre di musica forse troppo, avanzano da quell’approdo costato decenni di errori e dolori ai predecessori, verso nuove mete ma risulta difficile immaginare che vi sia una strada tanto lunga ancora da percorrere, se sono la complessità e l’intrigo della scrittura che hanno scelto di esplorare.

Si spera e in vari momenti di Akróasis viene voglia di crederlo, che questi giovinotti abbiano molto più da esprimere ma non è facile credergli sempre, specie quando in fondo ci sono momenti in cui si limitano a un’imitazione dei Morbid Angel in chiave shredding.

Inoltre anche la commistione di generi viene praticata dagli Obscura in modo spesso fin troppo scontato e assodato. Si parte già dagli ibridi prog-death collaudati dai Cynic e i Death o Atheist come se tutto quanto è e sarà sempre accettabile e comprensibile, mentre per troppo tempo non lo è stato per nulla e potrebbe tornare a non esserlo.

Quando le band floridiane infilarono tempi jazzati o intrecci melodici influenzati dalla sinfonia classica in un contesto di metal brutale, lo fecero assemblando mondi fin troppo distanti e apparentemente alieni l’uno all’altro, tentarono di farli coesistere nello stesso pentagramma in modo apparentemente folle e destinato sulla carta al fallimento. La gente nicchiò tirando banane e bottiglie vuote sul palco ma il tempo diede ragione agli artisti. I dischi di queste vecchie band raccontano ancora le fasi sperimentali di un matrimonio biomusicale inverosimile ma riuscito, in tutti i suoi bassi e alti dell’accoppiamento e della riproduzione.

La tensione immortale che troviamo ancora in quei brani, viene dall’incertezza della scoperta, dalla paura di non sapere cosa il pubblico avrebbe carpito, come il mondo avrebbe reagito. Gli Obscura a tratti esprimono quella tensione e possono tentare combinazioni e incastri formali che Chuck Schuldiner o Roger Patterson si sarebbe sognato, anche aiutati da programmi di scrittura al pc e metodi di registrazione inesistenti ai tempi e oggi in grado di meccanizzare i limiti delle possibilità umane, ottimizzarle al massimo e spingerle a livelli di precisione robotizzante.

Si sente però che in generale, le moderne death band con velleità progressive, vanno troppo tranquille, hanno preso la strada già spianata dai padri e sono consapevoli che c’è un pubblico pronto a scapocciar sopra tutte le loro mostruosità virtuosistiche e ibridazioni sborone. Per fortuna ci sono momenti in cui anche in Akróasis si respira la buona e vecchia tensione della ricerca sincera. Per esempio nella titletrack, che muove da un death idrofobo e si disintegra in passaggi black quasi romantici e Weltseele, suite di quindici minuti e rotti che dopo averci tartassato con riff brutali e passaggi ubriacanti, diventa un’emorragia di violini e chitarre acustiche di rara suggestione.