Non male questa biografia di Alice Cooper. Anzi, degli Alice Cooper. In effetti è la prima cosa su cui mi sentirei di protestare. In copertina si parla del Re dello shock rock e la sua storia mentre il libro segue le prodezze di una band di cinque ragazzini di Phoenix che vorrebbe solo emulare i Beatles, ci prende gusto e finisce per andare a Los Angeles, spaccarsi il culo e riuscire in una vera e propria rivoluzione. L’ha scritta Dave Thompson.
La Tsunami gioca sporco. Sa che l’80 per cento del pubblico italiano neanche sospetta che Alice Cooper sia stata una band degli anni 70 più celebre di Queen e Bowie, quindi per ovvie ragioni di mercato sottotitola il libro con una bugia. Dave Thompson però gli offre un assist chiamando il volume Welcome To My Nightmare. Tipo scrivere una biografia sui Velvet Underground e intitolarla Berlin.
Anche nel retro c’è scritto in rosso: la biografia definitiva di Alice Cooper. Esagerazione. Semmai è la prima parte di una bio definitiva. Si ferma al 1975 e fa un riassunto del resto.
Welcome To Our Nightmare, si poteva chiamare magari, visto che parla di un gruppo. Mah… in ogni caso siete avvisati. Se deciderete di spendere 20 euro per la storia di Alice Cooper, sappiate che questo volume parla degli Alice Cooper. Un gruppo da paura. In tutti i sensi.
Largo spazio quindi agli esordi, i primi dischi prodotti da Zappa e tutto l’itinerario stranoto che va da Love You To Death fino a Muscle Of Love mentre il resto, ovvero i 19 (ora 20) dischi usciti da quando Vincent diventa Alice Cooper il solista, da lì fino alla sua scoperta di Cristo al fondo di un campo da Golf, è tutto condensato in un centinaio di pagine o poco più.
Per quanto il libro sia scritto bene e rappresenti un ottimo esempio di giornalismo musicale, con interviste inedite e qualche spunto di riflessione sul mondo del rock e sulla vita, l’arte e la cultura degli ultimi 60 anni, di fatto non rinuncia alla solita storiella di nascita, successo, caduta e poi ripresa di un mito, per cui vanno tanto matti gli americani.
C’è da dire che Alice Cooper/Vincent Furnier incarna bene l’itinerario esistenziale del vincente/perdente e il suo finale con la rinascita grazie a Gesù è pura epica a stelle e strisce. Ma qui la vera redenzione avviene quando la band Alice Cooper entra nella Rock Hall Of Fame e si esibisce dal vivo con la disinvoltura e la freschezza dei bei tempi andati. Lieto fine autentico ma deludente. Sembra finto.
L’autore Dave Thompson si rende conto che racconta poco di Alice Cooper uomo e molto di quello che gli succede intorno come Singer di un gruppo e dice che se vogliamo conoscere la versione di Vinnie, dobbiamo comprarci la sua autobiografia tra rock e golf.
Qualcosa di questa sua rinuncia mi sembra una vigliaccata. Cazzo, Dave, dovevi darci dentro molto più di così. E poi non possiamo farci raccontare la storia da chi l’ha vissuta sotto costante effetto di droghe. Che diavolo volete che ne sappia Keith Richards dei Rolling Stones negli anni 70/80… lui c’era ma non c’era!
Quando Alice Cooper dice che non ricorda di aver fatto alcuni degli album della sua copiosa discografia non è perché siano tanti. Stava fuori come un cammello dalla mattina alla sera nel periodo 1977-1983.
Quando inizieranno a scrivere la storia del rock interpellando i tecnici delle luci di Lou Reed o magari il capo della sicurezza dei Motley Crue?
O Bob Ezrin. Pensate cosa ha visto quell’uomo tra Lou Reed, Kiss ed Alice Cooper negli anni 70, quelle star erano in piedi a malapena negli studi dove lui arrangiava, mixava e riscriveva parte dei testi e rendeva gli abbozzi di musiche buttate lì col basso e qualche gorgheggio delle partiture inattaccabili…
Sapete per esempio che gli Alice Cooper avevano scritto I’m Eighteen lunga 20 minuti e che Bob gli disse di tenere solo i primi due e buttar via il resto? Ecco cosa voglio sapere.