In Requiem è la seconda parte dell’articolo Paradise Lost 1997-2017 eccetera eccetera.
I Paradise Lost hanno avuto la capacità di ferire con le chitarre e di guarire con i pianoforti. Pier Marzano – Recensione di In Requiem – Metal Hammer 2007
Il tizio che ha scritto questa bella frase è figlio del suo tempo. Nel 2007 One Second è considerato da tutti un capolavoro (senza se e senza ma) anche da chi al tempo non lo gradì perché non c’erano i grrrrr e i gium gium. Di Host non si parla mai, però c’è rispetto per la band. Ma In Requiem non convince. Sembra una furbata. Il tentativo di recuperare il credito dei vecchi fans, riprendendo il cantato più cattivo e le melodie deprimenti degli inizi. Pier Marzano lo liquidò così e anche Alessio Oriani. Gente a cui non la si fa.
Eppure era un disco telefonato. Io lo capii da Believe In Nothing che il gruppo aveva deciso di tornare indietro. Lo dissi anche in giro. Vedrete che tra un po’ si rimetteranno a far metal. Non credevo ci sarebbero voluti vent’anni ma sono dettagli. Il tempo è sempre dalla parte di chi lo sa usare. I Paradise Lost hanno ripreso la strada di casa con calma, senza spazientirsi troppo e tenendo sulla nave tutto il tesoro di nuove esperienze creative ottenute lungo il percorso. In Requiem non rinuncia a quanto imparato con Host e One Second e nemmeno Medusa, che ci crediate o no.
In Requiem For Paradise Lost
Ascoltare oggi i dischi di quel periodo così zingaro per la band è molto più gratificante. Ormai sono di nuovo i vecchi Paradise Lost e quei giorni si rivivono con la tristezza dolce-amara. Sembra di tornare a una fase difficile della relazione ancora in piedi tra noi e qualcuno a cui teniamo troppo. Non tutti sono dei grandi album ma di sicuro ogni titolo ha almeno 3-4 brani che varrebbe la pena riscoprire.
In Requiem è il primo passo nel vecchio regno del goth sinfonico, dove una volta erano loro i re. Come King Ragnar di ritorno alla sua terra, sono lì, circondati dalla vecchia gente, che li ha attesi, implorati, pregati, odiati ma non dimenticati. E il trono è ancora vuoto. Con umiltà l’hanno raggiunto di nuovo, mostrando di meritarselo quanto prima. Faith Divide Us, Death Unite Us è un capolavoro. Tragic Idol una conferma di salute e nuova ispirazione. Poi arrivano i botti insperati: The Plague Within e Medusa.
Curioso che anche qui c’è chi storce il naso, chi mostra dubbi e sprezzo. Eppure si tratta di album rognosi per qualsiasi nuova leva del doom e del goth. C’è di nuovo il growl di Holmes, ci sono gli assoli e i fraseggi da cimitero di MacKintosh. Non siamo più nel 1993, ma il gruppo ha riscoperto la voglia di esplorare anche il proprio lato più cruento e disperato. I pezzi vanno sopra i sei minuti e non c’è più la sensazione di usare il metallo con parsimonia, come un ingrediente tra gli altri. Qui è tutto metal. Da cima a fondo.
Pallbearer e Medusa
L’unico neo è l’ammiccamento eccessivo ai Pallbearer in Medusa, il pezzo, non l’intero disco. Mentre i nuovi principini americani del doom negano di essere stati influenzati dai Paradise Lost e si inchinano ai My Dying Bride, questi li omaggiano in modo quasi spudorato.
Inoltre Medusa pare un lavoro un po’ sproporzionato. La prima parte è maestosa, Fearless Sky è tetraggine sinfonica degna dei migliori anni. E anche il resto dei pezzi fino a The Longest Winter mantengono l’incedere funebre e l’odore salnitrico. No Passages For The Dead a Until The Grave producono come un abbassamento di tensione.
Lì riemergono i trascorsi post Draconian e per l’ennesima volta il gruppo non smentisce nulla di quanto fatto. I Paradise Lost conservano un pizzico di ogni incarnazione ma non so, queste uscite più melodiche e dirette precipitano al fondo del disco come da una botola inaspettata. Riparte Fearless Sky sull’Ipod e non sappiamo cosa sia successo dopo la title-track, di preciso.