Non si discute, i nuovi Children Of Bodom stanno attraversando una fase di rinascita. Già con il precedente Halo Of Blood avevano lanciato un segnale incoraggiante (circa mezzo disco era davvero buono). Questo ultimo I Worship Chaos è l’importante conferma che non si trattava di un guizzo prima del tracollo definitivo ma neanche di una ripartenza fenomenale, intendiamoci. Sono vivi e tanto basta. Insomma, dire che siamo tornati ai livelli di Something Wild e Follow The Reaper è davvero irrealistico. Troppe cose dovrebbero andare a un certo posto per restituire alla band quella freschezza, quell’ispirazione inarrestabile di fine anni 90.
Si possono fare le solite chiacchiere a riguardo ma c’è una cosa che non si contesta: allora la band sapeva scrivere grandi riff, oggi non ce la fanno quasi più. Certo, il nuovo lavoro è convincente e I Hurt (traducibile in Io sdrumo), con quel passaggio thrashettoso al secondo 49 illude di brutto sulla sfacciataggine e la vitalità dei Bodom oggi. My Bodom e Morrigan tengono il passo e fanno pensare che forse stavolta ci siamo, ma dopo il compitino black/death di Horns diventa la solita tiritera bodomitica. Prayer For The Afflicted pare una b-sid e dei vecchi Hypocrisy e la finta ballad All For Nothing (ce n’era una pure su Halo Of Blood ma un tantino più riuscita) non offre molto al cuore, a parte la pena per quel cantato iniziale da asmatico tubercolitico.
Sulla produzione le cose sembrano state fatte a modino, ma in fondo cosa c’è di nuovo in questo sound a parte un senso di maggior pulizia e lucidità rispetto agli sbrodamenti degli ultimi anni? I Children Of Bodom continuano a proporsi alla stessa maniera. Muri di chitarre, groove, tastiere squille e sguille e scaracchio intonante.
Nella loro discografia è mancato l’album bislacco, sapete, quello controverso, fuori dagli schemi e da cui, a parte le critiche avrebbero potuto allargare il range d’azione e maturare. Tutti i gruppi anni 90 se ne sono concessi uno e nonostante la delusione momentanea dei fans è avvenuta puntuale una ripartenza più ariosa e sapiente che ha condotto quelle band a nuovi picchi e successi. Loro no, i Bodom sono gli stessi ogni volta. Artisticamente cosa è successo di tanto diverso dopo Hate Crue Deathroll? Nulla. Siamo davanti ancora a quei pischelli secchioni che mescolavano una tecnica sorprendente a un’attitudine stradaiola e punkettona in chiave estrema e che lasciavano intravedere un’epicità e una poesia che in futuro li avrebbero condotti tra i nuovi dei del metallo… e invece eccoteli lì, questi impiastri. Dal 2003 hanno guadagnato solo i chili, le pappegorge, le rughe che raccontano più gli stravizi che i dolori e i patimenti da persone adulte.
Ogni volta che esce un disco dei Bodom, soprattutto da Are You Dead Yet si sente che avrebbero dovuto stare più tempo in studio e invece non lasciano mai al nuovo lavoro il respiro, la possibilità materiale di venir fuori, crescere. Se dovessimo usare una metafora pasticcera, i Children Of Bodom usano il lievito istantaneo e non lasciano riposare l’impasto prima di infornare l’ennesima pizza bruciacchiata. Le incisioni sono come degli 1-2 creativi e poi ripartire per un tour infinito, aggiungere i primi due brani alla tracklist on stage e chiusa la pratica.
Questo nuovo album in fondo può entusiasmare i fans perché c’è una maggiore energia, un piglio più vispo, pimpante, rispetto a lavori prevedibili e mosci come Relentless, Reckless Forever ma l’impressione continua a essere quella di un gruppo che avrebbe bisogno di riposarsi, affidarsi a un produttore nuovo, magari estraneo alla scena, e rischiare, rischiare, rischiare, dar fondo una volta per tutte alla potenziale duttilità del proprio sound e all’attitudine squisitamente cazzona che viene fuori ormai solo con le magnifiche cover che infilano al termine di ogni disco. In questo caso c’è persino la meravigliosa Danger Zone (dalla colonna sonora di Top Gun).