Faith No More – Angel Dust e la non voglia di successo

Capitolo 1 – Il disco dopo “il disco”

Angel Dust è un titolo che non ha convinto, né oggi e tanto meno nel 1992. Si sa come i Faith No More hanno sempre ragionato sulla scelta dei nomi da dare agli album: parole che suonino bene e non necessariamente da allacciare a un concetto. Se il concetto c’è che sia tracotante (Album Of The Year), beffardo (King For A Day… Fool For A Lifetime), o pseudo-intellettuale (Sol Invictus) ma il più delle volte fino ad Angel Dust non c’è stato neanche bisogno di un vero tema. The Real Thing è il titolo di una canzone e fu scelto solo perché piaceva all’etichetta, come Introduce Yourself. In qualche modo però questi primi due lavori avevano una carica ironica che stava bene a far da ombrello a tutte quelle canzoni, mentre Angel Dust, con l’airone in copertina, restava più che altro un gran mistero. Un bellissimo mistero, a parere di chi scrive.

Nel 1992 il popolo del metal scelse l’artwork del disco dei Faith No More come “miglior copertina dell’anno” (ricordate i sondaggi sulle riviste?). Mentre il disco veniva nominato giusto nell’elenco dei long-playing più deludenti.

Deludente, ok, ma Angel Dust non poteva essere altro. Perché? Una riconferma ai livelli di The Real Thing e quindi un nuovo miracolo di equilibrio, originalità, commistione di stili eccetera sarebbe stato impossibile ripeterlo? No, in realtà la band riuscì a bissarsi con coerenza e coraggio, purtroppo era lo sfondo storico che non permetteva più di trasformare un disco crossover in qualcosa di fenomenale. Quindi Angel Dust fu il classico ritorno sulla terra, con l’angelo che si polverizzava prima ancora di massacrarsi indegnamente al suolo.

C’è una categoria precisa di album così: presi singolarmente sono buoni ma in quanto successori del non plus ultra, dell’apice, del grande slam artistico di una band, mantengono nel cuore di tanta gente un ricordo deludente e di tanto in tanto suscitano anche rabbia.

Ne nomino alcuni: South Of Heaven (Slayer), …And Justice For All (Metallica), A Passion Play (Jethro Tull), A Night At The Opera (Blind Guardian). Il più delle volte le band scelgono la via della ripetizione ritrovandosi un formulario preciso da applicare magari con un maggiore sfarzo, dispiegamento di mezzi economici e che finisce per risultare soddisfacente a un primo ascolto ma che presto rivela tutti i propri limiti di giocattolone senz’anima prodotto da paura sì ma anche dalla paura di deludere; oppure è un tradimento deliberato. I Faith No More pensarono di non cambiare strada, magari alleggerire, appesantire, disconoscere, suscitare risentimento, esaltare qualche critico bastiancontrario ma nell’insieme provarono a seguire il percorso di The Real Thing senza darlo troppo a vedere.

Angel Dust oggi suona soprattutto come uno stressato tentativo di venir fuori dal culo di sacco in cui il successo aveva spinto la band e di farlo senza morirci o perdere il senno. A distanza di tempo si notano grandi canzoni (A Small Victory, Kindergarten) ma l’insieme è troppo eterogeneo persino per la loro capacità di assemblaggio e ibridazione. Anche se i Faith No More tentarono soprattutto di spingere un po’ in giro l’algoritmo miracoloso di The Real Thing e vedere dove li avrebbe condotti, senza imporsi di cagar fuori una nuova Epic.

Pensate già al singolo di lancio di Angel Dust: Midlife Crisis era un pezzo così diverso dalle cose di The Real Thing; era pop; persino il video, con tutte quelle scenette fashion e Patton che cantava in controluce formavano un pacchetto che rendeva difficile riconoscere la band a un primo ascolto. Solo il secondo brano di lancio, Everything Ruined, provava a rassicurare i fans, quelli ancora indecisi se mettere mano al portafogli, che in fondo anche in Angel Dust c’era il rap metal. Non solo ma nemmeno il disco prima era solo rap metal, no? Purtroppo per la maggior parte dell’odience The Real Thing era ciò che capitava nei quattro minuti e rotti di Epic. Punto. Non sembrava succedere la stessa cosa in nessuno dei singoli di Angel Dust.

È risaputo che la band nel 1989 si era ritrovata dal baratro del fallimento al successo più clamoroso grazie a Epic. In pratica avevano già sganciato tutte le bombe senza colpire l’obiettivo. From Out Of Nowhere e Falling To Pieces erano usciti come singoli e come videoclip ma senza smuovere nulla. A quel punto, contrariamente a ogni logica d’azienda, la Warner decise di fare un ultimo tentativo e girare un ultimo video. La band scelse Epic perché lo considerava il pezzo migliore dell’album, da sempre. L’etichetta nicchiò per un po’. Con quel pezzo sarebbero passati giusto su Headbanger’s Ball. Alla fine però avevano già tentato a lanciarli con cose più orecchiabili e senza costrutto. E così la Warner disse: “Ok, giratelo e se non succede nulla chiudiamo baracca e burattini”.

Dalle parole di Billy Gould, bassista della band, i Faith No More avevano mollato ormai. Sì, voi vedete Patton che si atteggia davanti alla telecamera rappando sul basso ritmato di Gould ma pensate che dentro di lui, in quel momento, c’era solo una gran voglia di tornare a casa e magari telefonare a qualche sconosciuta band grind-core per dimenticarsi la porcheria del rock and roll biz e ricominciare tutto da capo.

Gould, Martin, Patton…  tutti erano ormai pronti a consegnarsi al dimenticatoio ma MTV decise che Epic era una roba davvero fica e ci scommise moltissimo: l’emittente lavacervelli passò il video a ripetizione e la gente se ne invaghì determinando il gran botto dei More.

Capitolo 2 – Il caprio espiatorio

I Faith No More furono presto consapevoli che quanto stava accadendo con The Real Thing era il meglio che potesse mai accadere. Si conoscevano, il successo non era mai stato il loro cruccio. Avrebbero gestito malissimo l’opportunità di bissarlo. A livello di immagine fecero di tutto per non piacere, rilasciando interviste da incazzati e ribellandosi alle pretese assurde della Warner. Quando arrivò il momento di incidere un nuovo disco poi tutti sentivano che le cose non sarebbero andate lisce, anzi. L’etichetta voleva un altro The Real Thing, manco a dirlo, ma nel gruppo i contrasti e le incomprensioni erano già diventati insopportabili e alla fine del 1992 tutti i membri avevano realizzato che al di là della gran merda di cose che non andavano, non sarebbe stato proprio possibile proseguire il viaggio con quel brontolone, misantropo, pessimista inveterato di Jim Martin. Fu il capro espiatorio che ci voleva ma non risolse nulla. Rinviò solo l’altra marea di casini.

Lo licenziarono con un fax e questo la dice lunga su quanto le cose per i Faith No More si fossero ormai fatte “showbizning”. Martin aveva anche perso il padre da poco e ricorderà il 1993 come l’anno più infernale della sua esistenza o forse non del tutto il peggiore: in fondo lui e gli altri della band avevano superato la fase in cui la differenza di vedute produce risultati apprezzabili. Erano più giunti alla parte in cui i gusti lontani portavano scazzo e risentimento violento.

Jim Martin poi era da sempre stata l’anima metallara della band, il componente pronto a insistere su cose heavy, a infilare un riff cazzuto negli arpeggi di tastiera di Roddy Buttom o al termine di una slappata compulsa di Bill Gould e in un certo senso questo elemento, il metal, nei dischi successivi non è più percepito in modo convincente (Diggin’ The Grave è quasi pseudo-metal e se ogni tanto la chitarra torna padrona sembra più che altro per un’incapacità della band di lasciarsi alle spalle definitivamente certi accordi e ritrovarsi come una copia più intellettuale dei Red Hot Chili Peppers).

I Faith No More non si erano goduti la fama e in Angel Dust si avvertiva una sorta di degenerazione del loro sarcasmo. Quel disco trasuda ancora adesso scetticismo e provocazione fino all’autolesionismo e l’ostracismo. Ogni brano sembra andare in una direzione differente e pare lo faccia apposta. Mike Patton lo definì come tanti modi diversi di mandare affanculo. Ma chi, a noi del pubblico o i Faith No More? Probabilmente tutti quanti insieme.

Il gruppo non sopportava davvero tutte quelle interviste. Jim Martin, tra il 1990 e il 1992 ebbe modo di sfogare tutto il suo burbero piglio misantropoetico grazie a quella selva di microfoni. In una intervista fu capace di criticare Jimi Hendrix e non c’è mai stata e mai ci sarà una storia del rock per chi voglia permettere delle riserve su quello che per chiunque fu un dio in terra.

A sentire la band, nel 1995, al tempo della promozione del successivo King For A Day…, il problema non era stato solo Martin ma anche il produttore. Pare infatti che alcune decisioni prese insieme a Matt Wallace non si fossero rivelate, a bocce ferme, le migliori e dopo essersi liberati di lui, i Faith No More non poterono far altro che prendere le distanze da quelle scelte e proclamare che il loro obiettivo non sarebbe stato di tornare ai fasti di The Real Thing (anche se Signorelli salutò il successore di Angel Dust come una resurrezione) ma perdere più fans possibili.

Angel Dust di fondo mantiene una coerenza ma oltre a soffrire la mancanza di singoli bomba patisce la nuova attitudine impegnata o depressa che per uno come Mike Patton era davvero fuori portata. Il frontman non poteva esprimere la scontentezza di un Kurt Cobain, seccato e stranito dal successo, il nichilismo di un Layne Staley e non aveva neanche la faccia seria, coscienziosa e intelligente di Eddie Vadder. Era più una specie di Frank Zappa/David Lee Roth in versione skizz-pop. La sua attitudine era troppo sorniona e vitaminica, virtuosistica e sperimentale per le nuove generazioni. E in fondo Angel Dust non sarebbe mai stato il disco ideale per sopravvivere.

La gente non capiva che cosa i Faith No More avessero in mente di fare? Dove stessero andando? Cosa c’era da prendere sul serio in brani rabbiosi come Smaller And Smaller, associati a cose come Crack Hitler e poi parentesi ruffiane tipo Easy o troppo farfalline (il tema di Midnight Cowboy).

Capitolo 3 – Un salto sul posto

Persino il fattaccio di un omicidio che la stampa cercò di far ricadere sui Faith No More perché in qualche modo un pischello fuori di testa aveva ucciso la sorella dopo aver riflettuto sulle parole di Be Aggressive (!) non determinò grandi sbalzi nelle vendite e oggi non se lo ricorda nessuno. Alla fine l’album raggiunse un buon risultato, il disco d’oro, grazie soprattutto a una cover (Easy dei Commodores) ma nella macchina del successo teorizzata dai Motley Crue fu un salto sul posto e non al livello superiore, come i produttori avevano pianificato di far fare alla band.

Del resto era difficile ottenere grandi risultati con il gruppo stesso che ti remava contro. I Faith No More non volevano più soldi, più pubblico, più popolarità di quella già mal digerita ai tempi del tour di The Real Thing. Erano come un tizio che si scopa la più fica del liceo e la molla facendo lo stronzo perché sa che tanto prima o poi lei rinsavirà e lo scaricherà.

Del resto avevano scoperto come funziona il mondo dello showbiz. Erano diventati adulti tutto assieme. Non è che i soldi li fai tu quando vendi molti dischi. Li fa l’etichetta che ha investito su di te e che vuole recuperare le spese e accumulare guadagni. E se dopo gli investimenti fatti la band non vende, i debiti ricadono su di essa. Prima di entrare in studio per Angel Dust, di ritorno a casa, tutto il vicinato aveva accolto Gould, Patton e gli altri come degli eroi miliardari del rock e invece non avevano un centesimo. E bisognava subito ripartire, battere il ferro bollente, a dispetto dello stress da tour infinito e della paura di non essere all’altezza di un secondo round distruttivo. Anche stavolta senza vedere un soldo, magari.

Tutto questo gran casino mentale produce solitamente grandi album. Angel Dust lo fu ma solo per la critica. La gente lo buttò a mare e ancora oggi non è così facile riscontrare commenti positivi riguardo a quel disco. Separandolo da quanto successo prima e paragonandolo a quello che sarebbe venuto dopo è forse un capolavoro, ci sono troppe canzoni ma è comunque il loro album più ispirato e costante rispetto ai tre successivi. Non credete?