Ehi, ronzinelli di Riace, come tira? A me poco. Il mio pene ultimamente non se la passa molto bene. Forse qualche strega mi ha fatto la fattura o magari uno stregone con l’invidia del pene me l’ha messo in gol, chissà. Scherzi a parte (ma neanche tanto) che dirvi? Sarà stato lo stress causatomi dal lavoro come autista, mescolato alla vicinanza insistita ad ambienti umidi e sanguinolenti… di fatto insieme alla liquidazione ho beccato una specie di papilloma, benevolo ovvio, ma piuttosto seccante anzichenò.
Insomma, mi sono ritrovato mani e inguine pieni di piccole verruche. Sapete qual è il solo modo per liberarsi di una roba simile? La crioterapia. Bruciare col freddo le suddette verruche e pace fatta. La bruciatura è paragonabile a una qualsiasi scottatura quando si prende a mani nude la teglia bollente dal forno dimenticando lo straccio. Poi arrivano le vesciche piene d’acqua, orride e dolorose, accompagnate dalla sensazione di essere idioti. In questo caso, ho le vesciche ma non è colpa mia. Però, che cazzo! Il mio pene sembra quello della Pimpa se avesse un pene. Mia moglie si rifiuta di baciarlo e questo mi fa sentire così giù.
Di buono c’è invece che ora mi seguono una bravissima psicologa e uno psichiatra. La prima sta cercando di rendermi un uomo migliore e il secondo vuole solo assicurarsi che pigli le pasticche giuste.
Aspettavo da due mesi che mi chiamassero quelli del CSM (Ex Cim) ma non si sono fatti mai sentire. Così la scorsa settimana sono andato da loro e ho chiesto spiegazioni di tanta attesa. Lo psichiatra era nella stanza in fondo. Mi ha fatto accomodare. Ha sfogliato di corsa una grossa agenda e poi ha detto senza guardarmi che non gli risultava da nessuna parte il mio nome. Bene! Mettiamocelo, allora, ho pensato. Lui ha aggiunto di avere fretta, quella mattina, doveva andar via non so dove, però avrebbe ascoltato più o meno la mia situazione se non gliela facevo troppo lunga. Avevo cinque minuti per dirgli sommariamente da quale casino venivo.
Ehm… mica facile in cinque minuti. Ho preso fiato: “Allora, io credo di avere avuto un esaurimento. Cioè non lo so, magari non lo è, non mi è stato diagnosticato ma credo almeno sia quello. Durante una lite con mia moglie mi sono perfino fatto del male col rasoio bic, per dispetto. Una cosa folle, da adolescente disadattato in fissa con Burzum e i Kalashnikov. Non crede sia un comportamento da esaurito? Inoltre non ho orgasmi da otto mesi. Prendo un farmaco che me li ritarda fin quasi a mandarli indietro nel tempo. Il mio sperma ora dovrebbe essere dalle parti della vagina di mia madre o nei para…”
“Basta così, grazie. Prende ancora il Depakin che le abbiamo prescritto due mesi fa?”
“Ehm, no”
“Perché?”
“Mi avevano consigliato di prenderlo solo per un po’, così da impedirmi di scoppiare a piangere sedici volte al giorno, cosa che mi succedeva puntualmente fino a due mesi fa. Visto che sto meglio ho smesso. Tanto piango lo stesso ma almeno è una pasticca in meno da ingoiare. Tra integratori e farmaci vari ne mando giù circa una quindicina ogni giorno”
“Se non ha più avuto crisi non significa che non potrà averne in futuro. Le consiglio di prenderlo di nuovo il Depakin”
“Ok, come vuole. E l’altro farmaco? Io devo venire, dottore. Non ne posso più di queste scopate infinite nel deserto del Gobi dell’erotismo…!
Lui ha ripreso a scrivere. “Il deserto del Gobi… Ci sono stato, sa?”
“Io no. Dicevo per dire. Ma se dimezzassi la pasticca tarda-orgasmi? In passato mi è capitato di prenderne metà e le cose andavano molto meglio in quel senso. Potrei continuare con il Depakin che mi tiene buono e ridurre l’antidepressivo e schizzare… ehm godere… insomma, concludere dentro mia mo… glie. Cazzo, è una cosa importante in un rapporto di coppia, no?”
Lo psichiatra mi ha passato un foglio. “Certo, lo faccia sin da subito. Schizzi dentro… sua moglie. Ecco, prenda qui. Sono analisi del sangue. Voglio un controllo tra venti giorni. Qui invece le ho prescritto la prima visita presso di noi. Ora devo andare”
“Grande. Quando la rivedo?”
“C’è scritto sulla ricetta”
Due giorni dopo ho fatto una prova nel bagno di casa mia. Ho finito di smanettarmi dopo appena dieci minuti con un organetto carino carino. Bene. Non vedevo l’ora di provare il mio nuovo cronometro dentro Mara ma prima dovevo passare dalla dermatologa per la crioterapia. Non sapevo cosa mi aspettasse.
La dottoressa, simpatica e risoluta, ha puntellato tutte le verruche, sulle mani e sul pube. Non vi dico il dolore. Sono arrivato al punto di pensare che piangere fosse opportuno per esprimere tutto il mio disappunto di una simile sgradevolezza. Le ho fatto notare che ce n’erano anche lungo il pene. Lei ha annuito e me l’ha agguantato strozzandomi qualsiasi obiezione. Poco prima che sparasse un geyser di criomerda però l’ho fermata con entrambe le mani facendomi ridare il mio uccello. “Ehi, no. Il pisello no. Me lo lasci in pace!”
“Ma come facciamo? Bisogna colpirle tutte, le verruchine”
“Tutte tutte?”
“Eh sì, tesoro mio. Non c’è altro modo”
“Ma quel coso mi brucia da impazzire, cazzo”
“Ha ragione ma è per il suo bene, no? Su, sia bravo. Faccio prestissimo, glielo prometto”
“Aspetti. Ascolti, se deve beccarle tutte, era meglio se mi depilavo, non crede? Come facciamo a esser certi di non perderne qualcuna per strada?”
“Perché deve dire una cosa del genere? Noi le staneremo tutte, invece”
Lei ha puntato la pistola spara ghiaccio sull’asta.
“Un attimo. Io apprezzo il suo ottimismo ma credo sul serio che sia impossibile avere un quadro esatto della situazione con tutti questi pe…”
“Lasci fare a me e cerchi di stare più fermo che può.
Ha pigliato ancora tra le dita il mio uccello e l’ha spedito in un oceano di stelle.
E come ciliegia sulla criotorta, la dermatologa ha aggiunto. “Non credo che basterà. Tra un mese, molto probabilmente, dovremo fare una nuova seduta”
“Come, se lo scorda?”
“Eh sì, ha atteso troppo a venire. Alcune sembrano radicate per bene. Occorrerà una seconda mano per estinguerle, temo”
Almeno su questo siamo tutti d’accordo. Dovevo venire da un pezzo.
Con il cazzo in quello stato anche la masturbazione mi è preclusa, il sesso poi per carità, non ne parliamo più. Quindi eccomi qui in pausa forzata. E come tutte le pause, la vivo di merda.
Eppure far pausa è utile, talvolta indispensabile. Pensa come godrò quando un giorno scoperò e verrò di nuovo tra le grinfie vaginali della mia adorata! Va beh…
In un’intervista di tanti anni fa, (una delle poche decenti) chiesero a Bukowski come mai avesse trascorso più di dieci anni senza scopare. Lui di rimando fece notare che aveva anche smesso di scrivere per un periodo di tempo simile e col senno di poi erano state quelle due interruzioni, le cose migliori che potessero succedergli. Al momento di riprendere le sue due attività preferite, dopo dieci anni, tutto andò alla grandissima, come se fosse rinato scopatore e poeta.
Bukowski è sempre stato incline alle pause. Non le rinunce, badate: era un ubriacone, un donnaiolo puttaniere, un perdigiorno ma la sua produzione letteraria è stata tale che i filologi e i critici ancora non riescono a raccapezzarsi per quanto materiale salti fuori dai suoi archivi, a più di vent’anni dalla morte. Era un treno, come autore. Ma anche i treni devono fare delle fermate, no? E con le donne non ci andava meno piano. Basta leggere Donne per rendersi conto delle tante femmine che ha avuto per le mani. Eppure pensate, più di dieci anni senza intingere il biscotto. Più di dieci anni senza prendere in mano una penna e sparare, con la stessa naturalezza di un cumshot monitorato da Mistress T, uno dei suoi componimenti poetici fulminanti e seduttivi.
Charles è sempre stato un fan delle pause. E non ha mai capito come facesse il mondo a non fermarsi nemmeno di fronte a una tragedia, a una guerra, a un funerale, a un amore… mai (Céline se lo chiedeva allo stesso modo mentre virava al termine della notte), gli uomini erano sempre tutti lì a girare e girare, ripetendo le stesse cose, infognati in una routine che nutre il portafogli abbastanza da farli continuare a girare e girare ma lasciando l’anima a stecchetto. Andare, pedalare, lavorare di Piero Ciampi è la canzone ideale di questo schiavismo auto-inflitto e il cantautore livornese era uno che in un bar con Hank e Louis-Ferdinand si sarebbe fatto valere.
Bukowski da ragazzo a volte si chiudeva in camera, tappava le finestre e si metteva a letto; così rimaneva per quattro o cinque giorni. Quando usciva e prendeva fiato, l’aria aperta, la luce, i colori gli arrivavano con una tale intensità che tutti gli altri passanti, i galoppini con le ventiquattrore, gli impiegati delle poste, sgroppanti al suo fianco e inarrestabili lungo i marciapiedi di Los Angeles, non potevano avvertire neanche un centesimo di quelle sensazioni. Erano vacui i loro sguardi, era la morte che li possedeva. E lui invece, barbone, sciattone, diretto alle corse a buttar grana, si gustava il mattutino come la broda un ghiotto bambino.
A pensarci, sempre in ambito letterario molti autori hanno fatto delle lunghe pause che sapevano di resa, di abisso, di smarrimento e magari pensavano: è finita, non voglio pensarci più. Poi un giorno tirarono fuori il loro capolavoro, come se smetterla di dannarsi ogni minuto sul foglio bianco e concedersi un po’ di vita normale, li abbia ricaricati prima che potessero sferrare il gran calcio alle palle del mondo.
Carver non scrisse un racconto per due anni prima di realizzare la sua raccolta migliore, Cattedrale. E Melville dopo Moby Dick ? Il suo capolavorissimo fu un tale fiasco commerciale che promise al mondo di non scrivere più. Per un po’ fu di parola ma dopo anni tirò fuori Billy Budd, scoperto postumo e incensato da mezzo mondo. Proust aspettò quasi la fine della vita per iniziare a scrivere Alla Ricerca del tempo perduto. Lui le pause le fece tutte insieme prima di darci dentro. E pure quando iniziò a lavorare al suo monumento creativo, stava sdraiato nel letto, con tutte le tapparelle al loro posto, il foglio e la penna poggiati in grembo e l’aria di chi ha il tempo tra le proprie dita. La Madeleine non ti sborra in bocca tutte quelle sensazioni così intense se la mangi a dozzine tutti i giorni. Proust non se ne faceva una da secoli. E quel biscotto lo riconsegnò al suo passato.
Svevo quasi ebbe un esaurimento nervoso per colpa della letteratura. Lasciò i sogni frustrasti di scrittore e divenne uomo d’affari per conto del suocero. Poi un giorno realizzò La coscienza di Zeno. Poi morì. Passiamo al cinema? Viene in mente il regista di Badlands e La sottile linea rossa, Terence Malick, che in quasi trent’anni diresse solo quattro film e poi dal 2011 a oggi ne ha realizzati altri cinque tutti di fila, facendoci rimpiangere la sua stitichezza precedente. Woody Allen pareva agli sgoccioli negli anni 90 e invece credo che bisognerà levargli la cinepresa e dargli una flebo d’aria, oggi. Cazzarola, dal 1994 al 2017 ha fatto altri ventiquattro film e ce ne fosse stato uno necessario, a parte per il suo conto in banca.
E chi non smise mai di produrre, a costo di crepare? Uno su tutti, Balzac. Morto con lo stomaco che sembrava il traforo del gran San Bernardo, a causa delle gran dosi di caffè, the, ed eccitanti vari che gli permisero di lavorare, lavorare, lavorare. H.P. Lovecraft? Fu vittima più di una dieta assurda che della salute di merda. Intanto però giù a scrivere, a poetare. Se si fosse fermato un po’ di anni e avesse trovato un lavoro decente, magari come traduttore o correttore di bozze, avrebbe avuto i soldi per mangiare meglio e si sarebbe ricreato e forse durando ancora abbastanza per vedere riconosciuti i suoi meriti.
I due successori di H.P. Stephen King e Clive Barker sono agli antipodi pure per questo discorso del produrre e riposare. Il primo non ha mai smesso di inondarci di libri. Il secondo ci ha servito piatti ricchissimi dall’84 al ’94 e poi quasi ha fatto perdere le proprie tracce. C’è chi dice sia finito mentre io mi aspetto da lui un capolavoro e una nuova fase creativa intensa nei prossimi anni. King invece può scrivere un secolo ancora un best-seller al mese, per me è morto nel 1992.
L’industria dello spettacolo costringe gli scrittori alla serialità, quando una vita basta appena per un capolavoro. Fate caso a questo: la maggior parte dei classici intramontabili sono incompleti. La certosa di Parma di Sthendal ha per ultimo capitolo un riassunto conciso dei capitoli che l’autore non fece mai in tempo a realizzare. Gogol finì solo la prima parte di Le anime morte. Kafka non mise mai il punto a Il Castello. Proust non ultimò il libro conclusivo della Recherche. E nemmeno Balzac finì la sua Comedie Humaine nonostante gli stenti da velocista in corsa con la morte.
Faccio tutti questi esempi per dire che la vita, con o senza pause, ce lo mette al culo. Siamo così condizionati dall’idea che per realizzare noi stessi occorra perseveranza, che ogni giorno, stiamo lì a ripetere le stesse cose, illudendoci che se non ci fermiamo mai, possiamo essere più vicini a una vita diversa. Una vita migliore, più eccitante, sorprendente, ricca. E intanto rendiamo più piatta la sola che abbiamo e che probabilmente avremo mai. Ci inganniamo. Ingannarsi un po’ è necessario per vivere, ma esagerare può esser letale. E quando capita la mattina in cui tutti ci appare per ciò che è, ovvero una presa per il culo autogena, il dolore che proviamo vorremmo solo farlo smettere, ripartendo a testa bassa con le solite azioni, con la perseveranza. Mangiamo per essere forti ed energici. Scegliamo l’orientamento spirituale più consono al mondo industriale del devo creare, devo produrre, devo fottere, devo comprare, devo STARE BBBENE!… Produci, consuma, crepa, cantavano i CCCP. Sicuri che non stiamo facendo ancora altro che questo?
Il riposo… Esiste più questo concetto? Ce lo concediamo solo quando sono i nostri datori a offrircelo senza possibilità di rifiuto, licenziandoci o costringendoci a mollare il posto. Solo quando è la crisi economica a decidere che è il momento di farci una passeggiata, allora dovremmo riposare. Ma quello non è riposo. Quello è un frustrante stop capace di spingerci agli estremi, la disperazione, il suicidio, il divorzio. Per riposare davvero dobbiamo essere noi a decidere quando e fino a quando farlo. Fermare la nostra vita e scendere per un po’, si può.
Ricordiamoci che siamo liberi di farlo e smetterla di sentirci sballottati da mille cose di cui in fondo non frega nulla a nessuno di noi. Ora, io sono disoccupato da quasi due mesi. Non trovo nulla. Niente nuovo impiego a meno che non me ne vada a Malta o in Canada. E ovvio che non riesco a fare una cosa del genere, cazzo. Sono italiano, voglio vivere nel mio paese, si fottano le alci e i cavalieri della fottuta Malta. Resto qui, non scambio la mia lingua stupenda per un Inglese commerciale da due soldi. Fanculo, ok? E sapete cosa, non voglio nemmeno ammalarmici. Sette mesi di impiego mi hanno quasi fatto uscire di cervello e ora sono pieno di vesciche. I 7.ooo euro guadagnati li sto spendendo per farmaci, visite e psicoterapia. Ma sapete che nuova c’è? Mi sto (quasi) riposando. Mi sento bene! Eh, ma non dovrei! E il lavoro? Non lo cerco? Che sto aspettando? Voglio morir di fame? Sì, ehm… no ma voglio dire: sento che sto riguadagnando un equilibrio, mi pare di avere più potere sul tempo, di essere io il padrone della mia vita. E questa sensazione nasce nel momento in cui ho deciso di sbattermene del lavoro che non riesco a trovare, dell’angoscia dei soldi che finiscono, della disoccupazione sempre più misera. Basta. Vivo. Respiro. Rinasco. Per morire c’è sempre tempo.
Chi si ferma è perduto, ci viene detto. Ma cazzo, no, gente. Chi non si ferma mai è perduto, fottuto con le sue stesse mani. Destinato a crepare dentro se stesso, senza più luce nello sguardo, le spalle curve, l’aria spaurita. Il mondo trasforma i sognatori in cavalli da soma. Invece fanculo, i cavalli devono restare liberi di trottare, fermarsi e ripartire, ma solo se gli va… E io quanto mi sento cavallo, sta domenica!