Wolves in the Throne Room – Thrice Woven

Ero seduto a tavola. Si discuteva di musica, spaziando tra generi senza logica alcuna fino ad arrivare al black metal, e lì, inaspettatamente mi sono sentito dire: ‘ah, perché gli americani sanno fare black metal?’.
Perché che dir si voglia  c’è chi ancora oggi non si capacita al pensiero d’un tizio newyorchese con la chitarra nella mano sinistra e un pugnale nella destra mentre immola un panino di Burger King a Ronal Mc Donald? Non hanno il retaggio culturale idoneo per creare black metal autentico, questa è la risposta che mi sono sentito dare tra le più intelligenti, ma non spiega ad esempio come dal Giappone per dire escano pezzi come questo.

 E cosa centrano gli orientali con il gruppo sotto esame? Un emerito cazzo.
Tanto s’è discusso dei lupi americani, senza dimenticarci un periodo sabbatico in cui rischiammo anche di perderli dalle scene, ma che invece diede parto al discusso Celestite, album più ‘dark ambient’ che altro, capace di spaccare il pubblico tra chi era troppo trve per accettarlo senza omissione, e chi invece sapeva che d’estate il chiodo non s’indossa, e che forse svezzarsi dal metal ogni tanto male non fa. E invece c’è chi si inietta dosi massicce di ferro solo per sentirsi più vicino ai propri miti, anche quelli che sotto sotto, scesi dal palco, cinque minuti lontani dalla scena se li concedono per anni.
Tre anni di intervallo prima di far uscire il nuovo Thrice Woven.
Che dire, se vi piace il black metal cliccate play. Se vi piaceva Black Cascade (il loro must tutt’ora, secondo me) cliccate play. Se NON siete trve metaller cliccate play. Dai, anche se siete trve, cliccate play, per quanto non vi stimerò mai.
Preparatevi a un cupo viaggio, come quelli che mi sono fatto io mentre andavo e tornavo da Lucca, con le cuffie fisse nell’orecchio. Scrutare il buio non è mai stato così appagante.
E cos’hanno in comune tutte le tracce? Un momento centrale ambient che spacca il ritmo, ti accerchia, ti culla nel buio, come un infante allattato al fiele, e ti scaraventa a terra con un improvviso riff, una corsa, una fuga, l’uomo nero che insegue, scappa, scappa, cazzo!
Non ci si volta, si corre tra gli sterpi, macchiandoli di sangue. E si giunge alla costa senza fiato, soli col rumore bianco delle onde, che rimembra il suono della placenta. Partoriti a nuova morte, da soli nella foresta.