A Dark Song – Storia di un rito occulto

A Dark Song è la storia di un rituale e di come una donna misteriosa e un mago alcolizzato lo praticano in una grande casa nella campagna gallese. Il rito è l’Abramelin. La prima volta che ne ho sentito parlare fu in una biografia di Aleister Crowley.
Non ho le competenze per capire se la riproduzione del rito sia attendibile o no, però riconosco in questo piccolo horror il raro pregio di averlo reso centrale nella trama, quasi un albero strutturale della narrazione invece del soporifero bodycount.

Si comincia dalla casa, che è tetra ma non un personaggio, sta lì, cupa, funzionale quanto basta all’atmosfera d’attesa e perfetta per ciò che la donna ha intenzione di fare. Ha l’ingresso rivolto a nord e con un cortile tutto intorno su cui potervi spargere fine sabbia, così da chiuderla in un cerchio magico. Il mago accetta di verificare se sia l’abitazione perfetta per lo scopo. Chiede soldi anche solo per quello. Può dire di no e lo stesso esigerà un compenso dalla cliente.

Abramelin… o meglio Abra-Melin era un mago caduto nell’oblio per molti anni prima che Mathers, il capo della Golden Down, ne riscoprisse gli scritti alla biblioteca nazionale di Parigi e li traducesse per gli altri adepti della società (di cui anche Crowley faceva parte). L’Abramelin è quindi il complesso dei rituali di questo fattucchiere, lungo sei mesi e incentrato su una perenne “infiammazione” del celebrante attraverso abluzioni ghiacciate, veglie, digiuni e vomitate e invocazioni come preghiere.

La donna è molto determinata ad affrontare ogni sacrificio di depurazione, è pronta a spendere tutti i propri risparmi pur di incontrare gli angeli e i demoni o il diavolo che verrà e chieder loro un preciso favore.
Il mago è uno che sembra sapere il fatto suo sebbene abbia l’aspetto di uno sfigato del suburbo britannico alla Ben Wheatley, si cibi di schifezze ipercaloriche, vesta di merda e beva di nascosto per non cadere nel delirium tremens. Non è simpatico ma non gliene frega nulla di piacere al pubblico o alla donna e non ci tiene troppo nemmeno dei soldi, a quanto pare. Lui vuole solo capire se il motivo che spinge lei a imbarcarsi in una cosa così seria e molto pericolosa come l’Abramelin, sia forte abbastanza da farla resistere fino al fondo di se stessa e del rituale.
“Cosa vuoi chiedere?”
“Amo un uomo che non mi corrisponde più. Voglio riconquistarlo”
Non è abbastanza. Lui fa per andarsene. Lei lo trattiene, aumenta l’offerta, lo implora, gli offre tutti i risparmi che ha ma l’uomo è deciso. Quella roba non è uno scherzo. Avventurarsi nell’Abramelin senza l’equipaggiamento adeguato potrebbe essere fatale. L’elemento decisivo per la via del ritorno è proprio la forza di una motivazione inestinguibile.

E l’amore sentimentale, mollato, frustrato, non basta. Tanto per cominciare non è nemmeno vero amore. Si tratta di attaccamento. Un bisogno profondamente umano ma che è altro da ciò che chiamiamo amore. Le pene d’amor perduto non sono sufficienti a tener testa ai demoni e non perdere la voce di fronte alla maestosità di un angelo vero.
Lei allora vuota il sacco. “Mio figlio è morto. Voglio rivederlo per chiedergli una cosa che ho bisogno di sapere”
Questo può andare, dice lui.

Il pretesto è solo una motivazione. Avete letto bene, non ho invertito per sbaglio. Non c’è bisogno di sapere cosa muova lei a sopportare tante sofferenze, umiliazioni e tristezze. Nel rituale ci sarebbe stato già tutto. Il conflitto, la tensione, il mistero, la beffa. Alla fine si scopre che non è neppure quella la verità e non lo è la successiva e così via, ciò che conta nel film è la preparazione dei partecipanti, l’amore, la volontà, la convinzione di arrivare dove pochi eletti giungono: le dolorose prove purificanti, i sigilli, gli intricati segni con cui ricoprire ogni superficie della casa, e poi cerchi, candele, triangoli, preghiere in lingue dimenticate a formar strade tra mondi delimitati col gesso: ecco la sintassi di questa storia.

Il cerchio è un paradosso. Non ha un nord e non ha un sud ma può proteggere e separare interi mondi. Mondi che contengono l’oscurità, il vuoto, lo scopo, il ciclo (terra, metallo, acqua) e infine la canzone.
L’Abramelin è sostanzialmente un viaggio, dice il mago travestito in modo ridicolo, con saio e bandana lunare. “È una metafora insufficiente ma per ora facciamocela bastare”. Il titolo del film però non è A Dark Journey ma A Dark Song. Usa la parola canzone come simbolo di tutto ciò che avviene nel rito e forse nemmeno questo è un sunto soddisfacente di cosa sia l’Abramelin.

Cosa ezere Abramelin? Un viaggio alla deriva, un oscuro tragitto verso una luce mai vista prima? Sapete no, quel tipo di luce in grado di accecare i santi! Oppure è un viaggio suonato e cantato, come una ballata dei bardi? O magari Song va inteso più nella plurima accezione inglese come cantico, poesia, una composizione recitata cantando piuttosto che la canzunciella radiofonica sull’oscurità che inghiotte il cinema indipendente.
Che diavolo ne so?

La donna siamo noi del pubblico. Quello che non sa lei, non lo sappiamo noi. La sua funzione è interrogativa. Il mago spiega, comanda, inveisce. La determinazione è tutto. Lui è sapienza, certezza. Lei dubbio e rabbia. Che cresce sempre più, perché i segni tardano ad arrivare e tutto, ogni secondo, appare sempre più come una ridicola farsa.
La fiducia di lei inizia a vacillare quando lui la usa per masturbarsi, spacciando una misera sega per sesso rituale. In cambio, la donna ricambia il favore urinando in un bicchiere e versandolo nella zuppa di funghi che solo lui mangia. Il bello è che questa vendetta lui non la scoprirà mai.

Lei non perdona. Non pratico il perdono, dice. Questa precisa posizione morale suggerisce ben altre motivazioni dietro al bisogno di parlare ancora una volta col suo bambino morto. Nel finale scopriamo quanto la sua anticristiana scelta sia la peggiore di tutte le condanne.
Il film riesce a esprimere cosa vi sia dietro i rituali occulti, la cosiddetta magia, crea un mosaico appassionante di tutti gli ingredienti formativi di un magician: dolore, tenacia, amore, violento e mortale. E riesce a rendere un rito magico in modo così commovente, impervio e terribile a livelli mai sfiorati da cento anni di film su streghe, demoni e inquisitori vari.

Alla fine, anche qui come in un qualsiasi horror satanico, i diavolacci arrivano e fanno pensare a quelli che ossessionavano il protagonista de L’ora del lupo di Bergman, tutti in posa formato famiglia, ma anche un po’ ai cenobiti barkeriani, con le tronchesi e la voglia di carne, e pure a un qualsiasi complesso black metal durante un festino. Difficile rappresentare i demoni senza rigurgitare i sogni e gli incubi di qualcun altro. Tutto questo vortice di mostruosità e inverosimiglianza non uccide la tensione, non ci risveglia dall’ipnotico incedere sacrificale della canzone oscura, perché gli autori del film ci hanno permesso di scivolar dentro l’Inferno con delicatezza e senza spararle mai grosse.

Fa paura A Dark Song, è un buon film horror che non vi consiglio di guardare da soli. Non c’è mai alcun tipo di gratuità o ammiccamento cinefilo. Sentite che l’autore, Liam Gavin, non vi vuole raccontare niente più di ciò che “qualcosa” è… offrendo un sacco di spunti per riflettere su ciò che conosciamo e ciò che abbiamo scelto, come uomini mortali, di non conoscere più, se non tramite la rassicurante e disumanizzante scienza moderna, rinunciando a sogno, poesia e altri sensi irrinunciabili dell’animo umano. Vi lascio con questa scena, tanto per darvi un’idea.

Lui e lei, il mago e la strega sono seduti sul divano, davanti a un camino acceso. Lei fuma e guarda le fiamme: “Il mondo non è solo scienza, no?, chiede.
“È questo che vuoi verificare, qui?” risponde lui.
“Non lo so… forse”
“La scienza descrive il minimo delle cose. Il minimo di ciò che “qualcosa” è. La religione, la magia… sono archi verso l’infinito in ogni cosa, verso il mistero”